+++ DA ” VENTO LARGO ” (LINK SUBITO SOTTO) —TULLIO PERICOLI, QUANTE STORIE PER UNA MATITA!

MERCOLEDÌ 8 APRILE 2015

Tullio Pericoli, Quante storie per una matita!

 
 
Una riflessione dell’artista su come l’uomo ha scoperto la qualità e capacità di disegnare e
creare un mondo nuovo
Tullio Pericoli
Quante storie per una matita!
Migliaia di anni fa gli uomini vivevano sulla terra credendo di essere dentro un dipinto,
un grande dipinto, opera perfetta di un ignoto maestro. Pensavano che tutto quello
che avevano attorno, mobile o immobile, fosse un insieme di linee, colori e macchie,
e che quindi la terra, le pietre, gli animali e le nuvole fossero fatti di materia pittorica.
In questo sconfinato dipinto anche loro erano dipinti, personaggi di quell’ immenso
paesaggio, disegni di un disegno più grande.
Un giorno – circa ventimila anni fa – uno di loro, quasi senza pensarci, prese
un tizzone dal fuoco ormai spento, lo appoggiò sulla parete della caverna e
lo strofinò da sinistra verso destra facendo comparire un segno. Nella caverna
esplose una gigantesca e roca risata. Non era ilarità, ma un vero e proprio
ridere di piacere. E il suono di quella festosa esplosione rimbalzò
immediatamente, di eco in eco, nelle valli abitate del pianeta: era nata la linea.
Da quel momento tutto cambiò. Con la comparsa di quella linea fu come se un
pezzo del dipinto, di cui gli uomini erano sempre stati parte, si fosse spostato
sulla parete. D’improvviso fu chiaro a tutti che le cose non stavano come
avevano sempre pensato: gli uomini non erano fatti di linee e di colori, ma
di carne, di ossa e di sangue, e il mondo non era fatto di linee e di colori:
le pietre erano di pietra, gli alberi di legno, l’acqua di acqua e così via.
Eppure quella linea che adesso era lì, isolata sulla parete, continuavano a percepirla
come una parte del loro corpo, che se ne era staccata quasi per forza maggiore.
Ma perché quel gesto suscitò un così grande piacere? Perché una risata così clamorosa?
Il piacere nasceva dal fatto che quel segmento nero, apparentemente sgusciato
fuori da un braccio per andare a imprimersi sulla parete, confermava in modo
ancora più concreto, e quanto mai visibile, la loro esistenza. Sì, quel segno li faceva
esistere: la stessa linea, in modo misterioso, sembrava al tempo stesso unirli e
separarli dal mondo. Intuirono anche che quella linea, partorita da loro e
quindi di loro proprietà, poteva aiutarli a conquistare l’intero dipinto. A diventarne
padroni, padroni del mondo e della loro stessa vita. E in un certo modo fu così.

Ci volle tempo, ma un po’ alla volta gli uomini cominciarono ad avere nelle loro mani le cose, perché con quella linea riuscirono a contornarle e delimitarle, dando così una forma alla natura e ai suoi abitatori: ai bisonti, alle giraffe, agli uccelli, ma anche al sole, ai pianeti e alle costellazioni. E a loro stessi. Così si estraniarono dal mondo quel tanto che bastava a vedere i contorni: in breve a vederlo, e quindi a indagarlo, studiarlo, decifrarlo. E anche a ricrearlo. Da creati divennero creatori.Questa storia, una specie di sogno, mi è venuta in mente ricordando che mio figlio Matteo, piccolissimo – due anni, anche meno – all’apparire della linea scoppiava in una grande risata. Appena mi vedeva prendere un piccolo tizzone, cioè una matita e tracciare un segno nero sulla parete di quella caverna tutta sua che era il foglio di carta, Matteo si abbandonava alla stessa risata dei suoi progenitori. Non aspettava che la linea diventasse un cane, un treno, una farfalla: solo a veder apparire quel piccolo segno impazziva di felicità.

Non ricordo se è da allora che tengo sempre in tasca un pezzetto di matita, ma ogni volta che mi capita di toccarla o di stringerla mi torna in mente quel tizzone, e penso a quante cose gli sono successe e a quante ne ha fatte succedere, e alle trasformazioni che ha subìto prima di diventare la mia matita tascabile. L’oggetto che segna si è trasformato nell’oggetto che incide, nello scalpello con cui graffiare le pareti dure, di pietra e di roccia, e tracciare i primi segni da cui sono nate le parole scritte, e poi le storie, i racconti e l’amore per la lettura.
Da quella prima linea, come un dono, è nata anche la pittura. Che cos’è infatti la pittura se non un impasto, un accostamento, una sovrapposizione di linee che celano altre linee, linee sottili accanto a linee spesse, linee trasparenti o corpose, rette o tremolanti, nere o colorate?
A partire da allora tra la linea e gli uomini si è stretta una vera alleanza, che ha procurato a questi ultimi altri mezzi, altri strumenti per decifrare il mondo come lo avevano visto e conosciuto da sempre: per delinearlo, contornarlo, ridisegnarlo. E la linea è cresciuta di importanza sino a diventare essa stessa oggetto di studio, come un essere pensante. Si è cercato di interrogarla, di farla parlare e raccontare, di indagarla, scoprirne l’anima. Un’anima sempre segreta e inafferrabile, per via delle innumerevoli, quasi infinite, metamorfosi che ha attraversato. Ritornando ogni volta nuova e più giovane.
Quando nella tasca dei pantaloni torno a stringere tra le dita la mia matitina tascabile, poco più lunga di un paio di centimetri, immagino che nel segmento nero racchiuso in quel cilindretto di legno siano nascoste e stipate tutte le vicende che sin qui ho cercato di raccontare, che vanno dalla risata di mio figlio a quella dei suoi progenitori, insieme a tutte le storie del mondo e dei mondi che conosciamo.
E tutto il materiale contenuto in quei pochissimi grammi di grafite potrebbe di nuovo sprigionarsi e, come in un piccolo aleph, farci rivedere, ridisegnandolo, tutto quello che ha conosciuto. Ma non solo. Il suo spirito creatore potrebbe anche inventare un universo nuovo con nuovi personaggi, che increduli crederebbero di essere ancora disegni di un disegno. E io, uno di loro.
Tutto questo sarebbe possibile solo se avessi il talento di tenere tanto magistralmente in mano quella piccola matita da saperne far rinascere la vita e la storia che contiene. Ho detto «tenere in mano»: ma forse non dovrei dire così. Per prima cosa un matita non si dovrebbe tenere in mano. Si dovrebbe avere in mano, dovrebbe essere nella mano, essere nelle dita. (…) Una matita si muove bene quando non ci accorgiamo più di lei, come succede con le nostre dita. Quando diventa il sesto dito della nostra mano.
Il Sole 24 ore – 29 marzo 2915

 

 

 

 

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