22:37 AUTORI ILLUSTRI: MORAVIA ED ELSA MORANTE …ma quanto simili a noi…// molto molto carino // un bel blog

 

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LE FUGHE (E LE LETTERE) DI ALBERTO MORAVIA

di  pubblicato venerdì, 27 novembre 2015 · 1 Commento

Il 28 novembre 1907 nasceva a Roma Alberto Moravia: ricordiamo lo scrittore italiano con un pezzo di Annalena Benini uscito sul Foglio, ringraziando l’autrice e la testata (fonte immagine).

Caro Morra, Sono tornato a Roma e tutto va già in quel modo assurdo che avevo già preveduto (…), poi c’è la T. che è tirannica senza perché, bisognerebbe che stessi tutto il giorno con lei e ancora non sarebbe abbastanza, gelosa della mia vita irrequieta in modo spasmodico – e siccome penso che vederci troppo non serve né a me né a lei credo che finirò per inventare qualche cosa, una occupazione fittizia – e le cose sono appena cominciate, figuriamoci in seguito.
Alberto Moravia, lettera a Umberto Morra

Non si è scoperto chi fosse questa signora o signorina T., a cui Moravia faceva riferimento in un lettera scritta tra il 1929 e il 1934, l’ultima di una raccolta appena pubblicata da Bompiani, Se questa è la giovinezza vorrei che passasse presto. Moravia aveva circa venticinque anni, e lei poteva forse essere una ragazza tedesca conosciuta a Sorrento, Trude.

Ma quel che conta è che Moravia, che aveva appena terminato di scrivere il suo secondo romanzo, Le ambizioni sbagliate, si sentiva controllato, soffocato, e aveva già bisogno, all’inizio di una storia, di inventare scuse per liberarsi dall’assedio sentimentale. È terribile quando uno dei due tende le braccia e l’altro sente stringersi una corda intorno al collo. Uno dei due spasima, l’altro sbuffa. Uno dei due cerca di allargare lo spazio, l’altro cerca una via di fuga. Uno dei due insegue, anche pieno di fiducia, l’altro si nasconde alla prima curva e resta a guardare l’altro dove va.

Uno dei due dice: aspettami, prendo il cappotto e vengo con te, l’altro esce dalla porta sul retro e sale su un tassì. Dovrebbe durare cinque minuti, invece a volte dura per anni, fino che a lei, o a lui, cadono le braccia che aveva spalancato e che hanno troppo a lungo stretto soltanto l’aria (oppure ci si abitua all’aria, senza più braccia).

Nel mezzo, una lunga serie di scuse, a volte anche fantasiose, creative, incroci un po’ comici e un po’ tristi, lei che immagina che lui stia preparando una festa a sorpresa per il suo compleanno, lui che in verità si è completamente dimenticato del suo compleanno; oppure lui che le scrive un messaggio: sei la mia indispensabile maledizione, e lei fotografa lo schermo e lo manda a un altro uomo, per ridere di quella sofferenza.

“Io che qui sto morendo e tu che mangi il gelato” è la definizione di Lucio Dalla per lo squilibrio amoroso, e durante una storia d’amore ci si possono scambiare i ruoli mille volte, e mille volte inventare fandonie per sfilarsi dall’abbraccio o sparire per un po’. Mal di testa, preoccupazioni di lavoro, malattie non gravi ma persistenti, necessità di stare accanto a un parente malato (meglio se in un’altra città), via via crescendo fino ai pensieri suicidi. Poiché ci si sente in colpa nel sentire questa voglia di fuga, si creano quasi soltanto scuse che hanno a che fare con la sofferenza, con il dolore, o almeno con la seccatura di un trasloco disumano, di un allagamento della casa, di un’auto rubata. Non si deve in nessun modo far capire che si sta bene, che la vita è bella anche, che si respira aria nuova.

“Cara Elsa, mi sento così depresso come non sono mai stato in vita mia. Non riesco a far niente senza impazienza e noia e le giornate sono un vero tormento per me”, scriveva Moravia a Elsa Morante durante le loro separazioni. Ma se bisogna scegliere da che parte stare, con chi fugge o con chi resta, con chi si divincola o con chi rimane fermo, con le braccia protese, bisogna prima leggere questa lettera di Elsa Morante: “Corri dietro alla pittrice belga o a quelle due o a quell’altra di Anacapri, poi vieni e di nuovo scappi via. Vorrei che tu non cambiassi sempre, vorrei farti felice e fermo almeno un momento. È questa l’unica cosa che valga”. Felici i felici e fermi almeno un momento.

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