19:01 +++ è per noi che parla–noi 2015 !– IPPOCRATE DOPO AVER FATTO VISITA (NON VISITATO!) DEMOCRITO—E’ PRONTO A DARE LA SUA RISPOSTA AGLI ABDERITI

 

NOTA : ” se l’essenza dell’essere e della realtà, la mente e gli dei, si riducono ad un movimento di collisione  di atomi…per chi è così “disincantato”, c’è da ridere degli umani , e molto! A voi non pare?   Quante volte, negli anni, con Donatella ci siamo seduti tranquilli nel primo banco del teatro degli uomini, e quanto bene ci ha fatto quel ridere. E ci farà, perché continueremo…Il difficile nella vita, pur ormai disincantato che tu sia, è riuscire a stare tranquilli nel primo banco e non farci “protagonisti”…Donatella direbbe che di fronte a certe cose, per es. davanti a uno che ti dice, a te e agli astanti, che “gli immigrati e ancor più i rom, vanno “respinti” da noi in ogni modo e magari anche bruciati”—non si può star zitti. / chiara non si è mai trovata personalmente in questa situazione, per cui non sa come reagirebbe—ma forse penserebbe che tanto gente così, puoi solo incattivirla ancora di più…Però chiara non la sa se rimarrebbe nel suo banco.

 

Ippocrate saluta Damagete.

 

E’ proprio come pensavamo, Damagete: lungi dall’avere la mente offesa, Democrito considerava ogni cosa con grande altezza di vedute; dava una lezione di saggezza a noi, e a tutti gli uomini attraverso noi. Ho rimandato indietro,  caro amico,  la tua nave veramente asclepiade. All’emblema del sole,  che già reca, aggiungi il simbolo della salute: (38) ché,  con l’aiuto degli dei,  ha navigato a vele spiegate e ci ha sbarcati  ad  Abdera  alla data prevista e annunciata.  Abbiamo dunque trovato gli abitanti  adunati  alle  porte  della  città,  dove,  come previsto,  tutti  erano  convenuti  ad  attenderci:  non  soltanto gli uomini, ma anche le donne, e i vecchi e i fanciulli e i bambini,  e ti assicuro,  per  gli dei,  che erano tutti immersi nella tristezza.  Il loro atteggiamento si spiegava con la presunta  pazzia  di  Democrito, mentre  questi  si votava scrupolosamente a una filosofia superlativa. (39)  Vedendomi,   parvero  riprendersi  alquanto  e  concepire  delle speranze;  Filopemene insisteva perché accettassi la sua ospitalità, e gli altri condividevano il suo intendimento. Ma io: «Abderiti»,  dissi loro,  «il mio primo pensiero è di vedere Democrito». Essi approvarono queste parole e,  giubilanti,  mi scortarono attraverso  l’agorà,  chi correndo appresso,  chi dinanzi da ogni parte, esortandomi a «salvare, soccorrere,  sanare».  E io li invitavo a riprender coraggio,  sicuro, per  la  stagione  etesia,  (40)  che  il male sarebbe stato ridotto a nulla, o a poca cosa, e agevolmente sanabile. Così dicendo, proseguivo per la mia strada;  la casa non era lontana e la  città  non è  molto estesa.  Eccoci  dunque  giunti  in  prossimità  del  bastione dove si trovava la casa;  mi portarono poi pian piano dietro la torre,  fino a un’elevata collina ombreggiata da alti,  folti pioppi. Di là si vedeva la dimora di Democrito e,  ai piedi  di  un  platano  basso  e  tozzo, Democrito  in  persona,  vestito di una rozza tunica,  solo,  bisunto, seduto su un sedile di pietra,  col colorito  giallastro  e  il  corpo scarnito, il mento ricoperto da una barba troppo lunga. Accanto a lui, a  destra,  un  filo  d’acqua  corrente  sul  declivio  della  collina sussurrava soavemente.  Su quella collina si ergeva  un  tempio  sacro alle  ninfe,  da  quel  che si poteva immaginare,  e ricoperto di vite selvatica.   (41)  Sulle  ginocchia  Democrito  aveva   posato   molto accuratamente  un  libro;  qualcun  altro  era sparso sull’erba da una parte e dall’altra,  vicino a un cumulo di animali sezionati da cima a fondo.  Quanto  a  lui,  ora si chinava per scrivere con impegno,  ora rimaneva interminabilmente in sospeso,  assorto nei suoi pensieri;  di lì  a  un momento,  si alzava per fare un giro,  andava a esaminare le viscere degli animali, le posava di nuovo e tornava a sedersi. Immersi in una tristezza che faceva loro quasi salire le lacrime  agli  occhi, gli  Abderiti  che  mi  stavano  intorno  mi  dissero  allora:  «Vedi, Ippocrate che cos’è la vita  di  Democrito,  e  quanto  è  pazzo,  non sapendo  né  ciò  che vuole né ciò che fa».  Uno di loro,  desiderando mettere ancor più in evidenza la sua follia, diede in un gemito acuto, come quello di una donna che pianga la morte  del  figlio;  quindi  un altro  proruppe  a  sua volta in querimonie,  mimando un viandante che avesse perduto ciò che trasportava.  Udendoli,  Democrito sorrise  nel primo  caso,  scoppiò  a  ridere nel secondo,  e smettendo di scrivere crollò ripetutamente il capo.  Dissi allora agli  Abderiti:  «Rimanete qui, voialtri, mentre mi accosterò con la parola e col corpo al nostro uomo,  per rendermi edotto con la vista e l’udito sulla verità del suo stato». Dette queste parole, scesi senza far rumore.  In quel punto il pendio  era  ripido,  sì che faticavo a non mettere un piede in fallo. Giunto alla sua altezza,  stavo per rivolgermi a  lui,  ma  lo  trovai intento a scrivere con ardore,  in un trasporto di entusiasmo. (42) Mi tenni quindi immobile lì dove mi trovavo,  nell’attesa che  una  pausa fornisse  un’occasione favorevole;  di lì a poco,  lasciando lo stilo, levò gli  occhi  verso  di  me  che  mi  facevo  avanti:  «Ti  saluto, forestiero»,  disse. «Anch’io ti rivolgo mille saluti, Democrito, uomo saggio tra tutti».  Provando vergogna,  credo,  di non avermi chiamato per  nome,  seguitò  allora:  «E  tu,  come  ti chiami?  E’ perché non conoscevo il tuo nome che ti ho dato del forestiero».  «Il mio  nome», dissi,  «è  Ippocrate,  il  medico».  Rispose  egli: «La nobiltà degli asclepiadi mi è ben nota,  e la tua grande fama  di  medico  saggio  è giunta  fino a me.  Ma quale faccenda,  amico,  t’ha condotto fin qui? Prima di tutto,  accomodati;  questo sedile di foglie  ancor  verdi  e tenere  che  vedi  non  è spiacevole;  i seggi della buona sorte,  che suscitano la cupidigia,  non offrono tanta dolcezza».  Sedetti ed egli continuò:  «Vieni  per  una  faccenda  privata  o per una faccenda che interessa l’intera città?  Parla senza ambagi e  noi  asseconderemo  i tuoi  sforzi,  per  tutto quanto ci sarà possibile».  E io: «A dire il vero», risposi, «è per te che sono venuto qui, onde incontrare un uomo saggio; il pretesto mi è stato fornito dalla tua patria, di cui eseguo un’ambasceria».  «Allora»,  disse,  «comincia  con  l’avvalerti  della nostra  ospitalità».  Volendo  mettere  alla  prova  l’uomo in tutti i sensi,  sebbene già  chiaramente  persuaso  che  non  aveva  la  mente offuscata,    risposi:    «Conosci   Filopemene,    uno   dei   vostri concittadini?». «Certamente», disse, «intendi il figlio di Damone, che abita presso la fontana di Ermes».  «Proprio lui»,  continuai,  «si dà che  una  comune discendenza faccia di me il suo ospite personale;  ma accoglimi, Democrito, la tua ospitalità mi è più cara.  E spiega,  per cominciare,  che  cosa  stai  scrivendo».  Indugiò  alquanto  prima di rispondere: «Scrivo sulla follia».  (43) «Per  Zeus,  re  degli  dei», esclamai, «che tempestività, e che risposta alle accuse della città!». «Di  quale  città  parli,   Ippocrate?»  chiese  lui.  E  io:  «Nulla, Democrito, una parola sfuggitami non so come. Ma che cosa scrivi sulla follia?». «Che cosa potrei scrivere», rispose, «se non che cos’è, come capita agli uomini e in che modo si può calmarla? Gli animali che vedi qui, non li seziono per odio dell’opera divina, ma bensì perché indago la natura e la sede della bile;  giacché è questa,  come ben sai,  che offusca la mente degli uomini,  quando è sovrabbondante; è vero che si trova in tutti naturalmente,  ma  in  minor  quantità  negli  uni,  in abbondanza negli altri; se è in eccesso, sopraggiungono le malattie: è una  sostanza a volte buona,  a volte cattiva».  (44) Allora esclamai: «Per Zeus, Democrito,  tu dici il vero e parli saggiamente;  ne deduco che  sei felice di godere di una simile tranquillità,  che a noi non è toccata in sorte».  «Ma perché non vi  è  dato  di  goderne?»  chiese. «Perché»,  risposi, «i campi, la casa, i figli, i debiti, le malattie, la morte,  gli schiavi,  i matrimoni e il resto ci tolgono ogni nostro momento libero».  Allora il nostro uomo,  ricadendo nella sua consueta disposizione di spirito,  si mise a  ridere  fragorosamente,  a  farsi beffe di tutto, poi mantenne il silenzio. E io seguitai: «Perché ridi, Democrito?  E’ dei beni o dei mali di cui ho parlato?». Rise ancora di più,  e tra gli  Abderiti  che  ci  osservavano  da  lontano,  chi  si picchiava la testa o la fronte, chi si strappava i capelli; ché le sue risa,  come dichiararono in seguito,  erano state ancora più forti del solito.  Ripresi allora la parola: «Democrito,  migliore tra i  saggi, ardo  dal  desiderio  di  sapere che cosa ti mette in questo stato,  e perché ti sono parso risibile, io o quello che ho detto;  è necessario che,  debitamente  informato,  io  elimini  la causa dei tuoi dileggi, oppure che,  convinto di aver torto,  tu rinunci alle tue  inopportune risate».  E lui: «Per Eracle»,  disse, «se riesci a convincermi che ho torto,  Ippocrate,  praticherai una cura  curativa  mai  praticata  su nessuno».  «Carissimo»,  continuai,  «come  non  convincerti  del  tuo errore?  Non pensi di sragionare quando ridi della morte di  un  uomo, della  malattia,  delle alterazioni della mente,  della follia,  della malinconia,  dell’assassinio,  e persino di cose  anche  peggiori?  O, inversamente,  dei  matrimoni,  delle panegirie,  (45) dei parti,  dei misteri, delle magistrature,  degli onori,  o di qualsiasi altro bene? Giacché  tu  ridi  di ciò che bisognerebbe deplorare,  deplori ciò che dovrebbe rallegrare;  sì che tra  il  bene  e  il  male  non  c’è  più distinzione per te».  Allora lui: «Ben detto, Ippocrate, ma tu non sai perché rido;  quando lo saprai,  sono sicuro che col mio riso porterai via nei tuoi bagagli,  per il bene della tua patria e per il tuo,  una medicina più efficace della tua ambasceria,  e potrai dar  lezioni  di saggezza agli altri. In cambio, forse mi insegnerai a tua volta l’arte medica, quando saprai fino a che punto gli uomini si interessano a ciò che  non  ha alcun interesse,  rivaleggiando in sforzi per ciò che non merita alcuna fatica e sprecando tutta la vita  a  intraprendere  cose risibili». Allora  prorompo:  «Spiegati,  in  nome  degli dei!  Temo che il mondo intero sia malato a sua insaputa, senza poter mandare da nessuna parte ambascerie alla ricerca di un farmaco.  Giacché chi vi  sarebbe  fuori dal mondo?». E lui, riprendendo la parola: «Esistono, Ippocrate, molte infinità di mondi; guardati, amico mio, dal rimpicciolire la ricchezza della natura così com’è».  «Questi argomenti,  Democrito»,  dissi, «li affronterai al momento opportuno;  vorrei evitare che tu  ti  metta  a ridere persino spiegando l’infinità.  Intanto,  sappi che devi dare al mondo in cui vivi le ragioni del tuo riso».  Dopo avermi lanciato  uno sguardo penetrante,  rispose: «Tu attribuisci due cause al mio riso, i beni e  i  mali;  ma  io  rido  di  un  unico  oggetto,  l’uomo  pieno d’insensatezza,  vuoto  di  opere rette,  puerile (46) in tutti i suoi progetti, che sopporta senza alcun beneficio prove senza fine,  spinto dai  suoi desideri smodati ad avventurarsi fino ai confini della terra e nelle sue immense cavità, fondendo l’argento e l’oro,  non smettendo mai  di  accumularne,  affannandosi  sempre per possederne di più allo scopo di non decadere. E non sente alcun rimorso a dichiararsi felice, lui che fa scavare a piene mani le profondità della terra  da  schiavi in  catene,  di  cui  gli  uni muoiono sotto i cedimenti di un terreno friabile,  mentre che interminabilmente sottomessi a quel  giogo,  gli altri  sopravvivono  nel  supplizio  come in una patria.  (47) Si va a cercare l’oro e l’argento,  si esaminano le tracce  di  polvere  e  le raschiature,  si ammucchia qui la sabbia che si era estratta di là, si aprono le vene della terra,  si spaccano  le  zolle  per  arricchirsi; della  nostra  madre  terra  si fa una terra nemica;  essa,  che resta sempre la medesima, l’ammiriamo e la calpestiamo.  Che risate,  quando questi  innamorati  di  una  terra estenuante e piena di segreti usano violenza a colei che hanno sotto gli occhi!  Certuni  comperano  cani, altri,  cavalli;  circoscrivendo un vasto territorio, gli impongono un marchio  di  proprietà;   e  volendo  diventare  padroni   di   grandi possedimenti,  non riescono a padroneggiare se stessi. Hanno fretta di sposare donne che di lì a poco ripudiano; amano,  poi aborrono;  hanno il desiderio di procreare,  (48) poi scacciano i figli fattisi grandi. Che cos’è questa vana e irragionevole fretta,  che non  differisce  in nulla  dalla  follia?  Fanno  la guerra ai loro,  senza mai cercare di vivere in pace; alle insidie dei re rispondono con controinsidie; sono omicidi;  scavando  la  terra,  cercano  argento;  trovato  l’argento, vogliono  una  terra;  acquistata  la  terra,  ne  vendono  i  frutti; smerciati i  frutti,  rimettono  la  mano  sull’argento.  Quanto  sono instabili,  quanto  sono  cattivi!  Se non sono ricchi,  desiderano la ricchezza;  venutine in possesso,  la nascondono e la sottraggono agli sguardi.  Io mi faccio beffe dei loro fallimenti, scoppio a ridere sui loro  insuccessi,   perché  trasgrediscono  le  leggi  della   verità; rivaleggiando  in  odio,  danno  battaglia  ai loro fratelli,  ai loro genitori,  ai loro concittadini,  tutto questo per beni di cui nessuno morendo  rimane  padrone;  si  massacrano  a vicenda;  incuranti delle leggi, guardano dall’alto i loro amici o la loro patria in difficoltà; attribuiscono valore a ciò che è indegno e inanimato; dilapidano tutte le loro ricchezze nell’acquisto di statue,  col pretesto  che  l’opera scolpita  sembra  parlare,  ma  detestano  chi parla davvero.  Ciò che suscita la loro bramosia è ciò  che  sta  fuori  della  loro  portata: quando  abitano  sul  continente  vogliono il mare;  insulari,  devono vivere  sul  continente.   Deviano  tutto  nella  direzione  del  loro personale desiderio.  In guerra sembrano lodare la virilità, ma giorno dopo giorno si abbandonano alla dissolutezza, all’amore per il denaro, a tutte le passioni che li rendono malati. Sono tutti dei Tersiti (49) della vita. Allora perché,  Ippocrate,  mi hai rimproverato di ridere? Non  c’è uomo che rida della propria insensatezza,  non c’è scherno se non reciproco: chi ride degli ubriachi,  credendosi sobrio,  chi degli innamorati,  mentre  una  malattia  peggiore  lo  affligge;  taluni si burlano  dei  navigatori,  altri  degli  agricoltori;   ché  non  sono d’accordo né sulle arti né sulle opere». In quel punto intervenni: «Queste sì,  Democrito,  sono grandi verità! Non potrebbe esservi linguaggio più acconcio ad esprimere  la  miseria dei  mortali.  Ma  la  conduzione  degli affari impone necessariamente l’azione,  per via dell’economia domestica,  della  costruzione  delle navi,   del  governo  della  città  in  generale,  e  l’uomo  non  può sottrarvisi: ché la natura non l’ha messo  al  mondo  perché  stia  in ozio.  Detto questo, l’ambizione ha traviato molte anime rette. che si occupavano di tutto credendosi al riparo dal  fallimento,  e  che  non avevano  la  forza  di  prevedere  ciò  che rimaneva celato.  Chi mai, Democrito, ha posto mente, sposandosi,  alla separazione e alla morte? Allevando dei figli,  alla loro possibile perdita?  Le cose non stanno diversamente per quanto riguarda  l’agricoltura,  la  navigazione,  la sovranità,  il  comando,  e tutto ciò che la vita comporta: nessuno ha mai supposto che avrebbe fallito;  ognuno anzi nutre  grandi  speranze dimenticando  ciò  che  è  meno  buono.  Il  tuo  riso  non  è  quindi sconveniente,  a questo punto?».  (50) Ma Democrito mi  rispose:  «Dai prova d’ottusità di mente,  Ippocrate,  e ti smarrisci lontano dal mio pensiero omettendo di esaminare, per ignoranza, i limiti della calma e dell’agitazione.  Quando si concludono con buonsenso gli affari di cui parli,  si  superano facilmente le difficoltà,  e mi si evita di dover ridere. Ma, con la mente offuscata dalle occupazioni della vita,  come se queste avessero una qualche consistenza, gli uomini lasciano che il fumo  dell’orgoglio annebbi la loro intelligenza irragionevole,  senza lasciarsi ammaestrare dall’andamento disordinato  delle  cose;  eppure sarebbe un avvertimento sufficiente l’universale mutazione, che impone brusche evoluzioni e inventa ogni sorta di rotazioni improvvise.  (51) Ma loro, come se la vita fosse ferma e stabile, dimenticano gli eventi che interessano senza sosta le  cose,  in  modo  ogni  volta  diverso; desiderano  ciò  che affligge,  perseguono ciò che non serve a nulla e precipitano  in  ogni  sorta  di  disgrazie.  Colui  che,  invece,  si preoccupasse  di  fare  tutto in funzione dei suoi propri mezzi quello proteggerebbe la sua vita dal fallimento,  conoscendo perfettamente se stesso,  essendo  chiaramente  cosciente della sua conformazione,  non dispiegando all’infinito  l’ardore  del  desiderio,  contentandosi  di contemplare l’opulenta natura,  nutrice di ogni cosa.  Come una salute troppo buona è,  evidentemente,  un rischio per  gli  obesi,  così  la grandezza  dei  successi rappresenta un grave pericolo;  le persone in vista attirano l’attenzione di tutti quando la loro  sorte  è  mutata. Altri,  conoscendo male le antiche storie, sono morti vittima dei loro stessi errori, per non aver saputo prevedere le cose visibili, non più delle invisibili, mentre una lunga vita indicava loro ciò che è potuto o  no  accadere;  a  partire  da  lì,   avrebbero  dovuto  riconoscere l’avvenire.  Ecco  quindi  il  bersaglio  del  mio  riso:  gli  uomini insensati,  che  condanno  a  espiare  la  loro  malvagità,  avarizia, insaziabilità, il loro odio, i loro trabocchetti, i loro complotti, la loro  invidia  –  ardua  impresa  passare  in  rassegna tutto quel che inventa l’abilità del male: anche qui si trova una specie di infinito! Rido  degli  uomini  che   rivaleggiano   in   perfidia   nelle   loro macchinazioni,  e hanno pensieri tortuosi;  il peggio, per loro, è una forma di virtù,  ché in spregio alle leggi  praticano  la  menzogna  e vantano la ricerca del piacere. Il mio riso condanna in loro l’assenza di  ogni  progetto  ragionato;  non  hanno  occhi né orecchie,  mentre soltanto il senno dell’uomo, illuminato da un fermo pensiero, anticipa ciò che è e ciò che sarà.  Scontenti di  tutto,  questi  individui  si accostano  proprio  a  ciò che li disgusta;  quando hanno rifiutato di prendere il mare,  navigano;  quando hanno rinunciato all’agricoltura, ridiventano coltivatori;  se hanno ripudiato la consorte,  ecco che ne prendono un’altra;  i figli che hanno allevato,  li  sotterrano;  dopo averli sotterrati, ne fanno altri e li tirano su; dopo aver desiderato la vecchiaia,  si lagnano quando la raggiungono,  incapaci di costanza in qualsiasi situazione si trovino.  I capi e i re  credono  felici  i semplici  individui;  i  semplici  individui  aspirano alla sovranità. L’uomo di stato invidia l’artigiano,  che  crede  al  riparo  da  ogni pericolo;   l’artigiano  è  geloso  dell’uomo  politico,  che  presume onnipotente.  Giacché gli uomini non vedono la retta via della  virtù, questa  via  senza  macchia  né  asperità,  dove  non  si  rischia  di inciampare,  ma dove nessuno vuole inoltrarsi  preferiscono  lanciarsi nella strada malagevole e tortuosa,  dove il suolo è accidentato, dove si scivola, dove si incespica; i più cadono,  ansimano come se fossero inseguiti,  si  accapigliano,  avanzano e indietreggiano ogni momento. Gli uni,  in preda a un amore insensato,  si infilano come  ladri  nel letto  altrui,  fidando nella propria impudenza;  altri sono consumati dall’amore per il denaro,  e il loro male è insaziabile.  Qui,  ci  si tende  scambievolmente  trappole;  là,  coloro che la vocazione per la gloria ha innalzato fino al cielo vengono precipitati dal  peso  della loro  malvagità  in  un  abisso  di perdizione.  Si distrugge,  poi si ricostruisce; si rendono servigi, poi lo si rimpiange; ci si allontana dai doveri dell’amicizia,  ci  si  comporta  tanto  male  da  arrivare all’odio,  si fa guerra alla famiglia, ed è l’amore per il denaro (52) che causa tutte queste assurdità. Tali uomini in che cosa sono diversi dai bambini che giocano e che,  privi  di  discernimento,  trovano  in tutto  ciò che accade un pretesto per divertirsi?  Per quanto riguarda gli appetiti,  che cosa hanno ancora da  invidiare  loro  gli  animali privi di ragione?  E ancora, le bestie sanno accontentarsi di quel che dà loro soddisfazione. Giacché si è mai visto un leone che seppellisca dell’oro sottoterra?  Qual  è  il  toro  che  la  cupidigia  spinge  a battersi? Quale pantera ha mostrato desideri insaziabili? Il cinghiale beve, ma non più di quanto abbia sete; il lupo, quando ha divorato una preda,  si  astiene  dallo spingere oltre un’alimentazione necessaria; (53) ma l’uomo,  per giorni e notti  consecutive,  non  si  stanca  di gozzovigliare.  L’ordine  regolato delle stagioni pone un termine alla fregola degli animali privi di  ragione;  ma  l’uomo  è  costantemente punto  dal tafano della lussuria.  Via,  Ippocrate,  non dovrei ridere dell’uomo in preda al dispiacere amoroso, col pretesto che – per buona fortuna è stato posto un  limite  ai  suoi  desideri?  E  soprattutto, dovrei  trattenere  la  mia ilarità dinanzi al temerario che si lancia attraverso i precipizi o sugli abissi del mare?  Non dovrei dileggiare colui che,  avendo messo in mare una nave pesantemente stivata, accusa poi i flutti di averla inghiottita col suo carico?  Quanto a  me,  non credo  di  ridere  abbastanza,  e  vorrei proprio trovare qualcosa che fosse doloroso per loro; non un intruglio che li guarisca, né un Peone che appresti loro dei medicamenti.  Medita la lezione del tuo antenato Asclepio,  folgorato  in ringraziamento delle cure che dispensava agli uomini.  (54) Non ti accorgi che sono fuori  strada  anch’io,  io  che cerco  la  causa  della  follia  uccidendo  e sezionando animali?  Era nell’uomo che bisognava cercarla.  Non vedi che anche il mondo è pieno d’inimicizia  per l’uomo,  e che ha radunato contro di lui un’infinità di mali?  (55) Dalla nascita,  l’uomo nella sua  totalità  non  è  che malattia:  bimbo,  è  inutile  e supplica che lo si aiuti;  crescendo, diventa presuntuoso,  stolto,  sotto la guida dei suoi maestri;  nella maturità è arrogante;  sul declino, pietoso, e raccoglie i mali che la sua stessa insensatezza ha seminato.  Eccolo lì proprio tale e quale è uscito  dal  sangue  impuro  di  sua  madre.  E’  per  questo  che gli irascibili, pieni di un’ira smisurata,  vivono nell’infelicità e nella lotta;   altri,   nella  corruzione  e  nell’adulterio;  altri  ancora nell’ubriachezza,  chi invidioso del bene altrui,  chi privato di  ciò che gli appartiene. Se soltanto avessi la facoltà, scoperchiando tutte le case,  di svelare ciò che contengono e osservare così quello che vi succede! Vedremmo gli uni in atto di mangiare, altri di vomitare, o di torturare le persone, o di comporre veleni,  o di ordire complotti,  o di dedicarsi a calcoli, o di rallegrarsi, o di lagnarsi, o di redigere l’atto  d’accusa  dei  loro  amici,  o  di perdersi in stolti sogni di gloria.  E andando ancora più giù,  si arriverebbe agli atti di coloro che dissimulano la loro anima, tutti quanti sono: i giovani, i vecchi, coloro  che  chiedono,  coloro che rifiutano,  coloro che vivono nella miseria,  coloro che hanno il superfluo,  coloro che sono attanagliati dalla  fame,  coloro  che sono sprofondati nella lussuria,  coloro che sono sudici,  coloro che sono schiavi,  coloro che traggono vanità dai loro stravizi,  coloro che allevano figli, coloro che sgozzano, coloro che seppelliscono,  coloro che disprezzano ciò che hanno,  coloro  che corrono  appresso  a  una speranza d’arricchimento;  gli impudenti,  i parsimoniosi,  gli insaziabili,  gli  assassini,  coloro  che  vengono picchiati,  gli sdegnosi,  coloro che sono presi dalla passione per la gloria;  coloro che hanno un debole per i cavalli,  o gli uomini,  o i cani,  o le pietre, o gli alberi, o il bronzo, o i disegni; coloro che sono in ambasceria, o che hanno un incarico di stratego,  o seguono un sacerdozio;  coloro  che  portano corone,  coloro che portano le armi, coloro che vengono messi a morte.  Corrono tutti chi di qua chi di là, gli  uni  attirati  dalle  battaglie  navali,  gli  altri dal servizio militare,  o dalla vita in campagna,  o  dal  commercio  marittimo,  o dall’agorà,  o dall’assemblea,  o dal teatro,  o dall’esilio,  andando ognuno dalla sua parte;  spinti chi  verso  l’amore  dei  piaceri,  le mollezze  e  l’intemperanza,  chi  verso  la pigrizia e la noncuranza. Allora,  quando si vedono tante anime indegne e miserabili,  come  non dileggiare l’intemperanza della loro vita?  La tua stessa medicina, ho tutti i motivi di credere, non incontrerebbe il loro gradimento: tutto rende bisbetici questi intemperanti,  ed essi considerano la  saggezza una follia.  Del resto la tua scienza – ne ho nettamente il sospetto – deve in larga  misura  scontrarsi  con  l’ingratitudine  e  l’invidia: appena salvi, i malati attribuiscono la loro salvezza agli dei, o alla sorte;  molti la ascrivono alla natura e detestano il loro benefattore (poco ci manca che non si  irritino,  se  si  pensa  che  gli  debbano qualcosa!).  I  più  non  hanno di per sé alcuna nozione dell’arte,  e nella loro ignoranza condannano ciò che gioverebbe  loro  di  più:  il voto è nelle mani degli uomini che hanno il minor buonsenso.  E come i malati non vogliono riconoscere il loro  debito  così  i  compagni  si rifiutano  di  testimoniare,  perché  l’invidia  glielo impedisce.  Tu stesso hai sperimentato tutte le stoltezze che qui  menziono:  spesso, lo so, ti è stato giocoforza affrontare trattamenti indegni, senza che il  denaro  o  la  gelosia  ti  abbiano portato a biasimare gli altri. L’esatta verità nessuno la conosce, nessuno la testimonia».  Sorrideva nel dirmi questo;  ai miei occhi,  Damagete, aveva l’aria di un dio, e dimenticavo il  suo  aspetto  precedente.  «Illustre  Democrito»,  gli dissi, «riporterò a Cos preziosi doni d’ospitalità: ché mi hai colmato di  una  grande  ammirazione per la tua saggezza;  tornando in patria, proclamerò che tu hai esplorato e  scoperto  la  verità  della  natura umana.  Mi hai dato di che curare il mio pensiero. Me ne vado, dunque, giacché l’ora lo impone, così come le cure che si devono al corpo;  ma ci ritroveremo domani e i giorni seguenti».  A queste parole mi alzai; egli si dispose a seguirmi e consegnò i suoi libri a un nuovo  venuto, uscito da non si sa dove.  Affrettando allora il passo, mi volsi verso gli Abderiti purosangue che mi aspettavano sull’altura: «Amici», dissi loro,  «vi sono veramente grato di avermi chiamato presso  di  voi  in ambasceria: perché ho veduto Democrito, il saggio tra i saggi, l’unico capace  di rendere savi gli uomini».  Ecco,  Damagete,  quello che con vivo piacere volevo dirti di Democrito. Salve.

 

 

 

 

 

NOTA 1: Sono state qui tradotte solo le lettere dalla 10 alla 17 della raccolta pubblicata da E.  Littré in edizione bilingue,  nel tomo nono delle  “Oeuvres  complètes” di Ippocrate col titolo generale “Lettres, Décret et Harangues (Lettere, Decreto e Arringhe)”. Questi testi,  che formano  un  insieme  coerente,  sono  preceduti  da  un altro piccolo romanzo  epistolare  (sulla  peste  che   infuria   nell’esercito   di Artaserse);  esse  sono  seguite in particolare,  da un trattato sulla “manìa” e da un altro  sull’elleborismo,  alcuni  estratti  del  quale figurano  qui in nota.  In mancanza di un’edizione critica più recente (non essendo ancora uscita quella annunciata  in  Gran  Bretagna),  ho seguito il testo greco edito da Littré, facendo mie le sue congetture. NOTA  2:  Come  osserva  dal  canto  suo Diogene Laerzio,  che dopo lo pseudo-Ippocrate ha contribuito  in  maniera  decisiva  a  fondare  la leggenda del filosofo, «Democrito non voleva dover la propria gloria a un luogo,  ma preferiva essere egli stesso a conferire al luogo la sua gloria» (“Vite”, nono, 34-35). Come complemento a queste “Lettere”,  è interessante   consultare  l’abbondante  documentazione  dossografica, illuminante  circa  la   celebrità   e   l’importanza   di   Democrito nell’antichità,  una  cui  versione  francese  è  presentata  da J.-P. Dumont, D.  Delattre e J.-L.  Poirier ne “Les Présocratiques” (Parigi, Gallimard,  La Pléiade,  1988) con il seguente commento: «Se il corpus di Aristotele non avesse avuto,  com’è  noto,  la  fortuna  di  essere ripubblicato  nel  primo  secolo  avanti  Cristo da Andronico di Rodi, Democrito sarebbe sicuramente considerato il più fecondo e  universale maestro di saggezza dell’antichità». NOTA  3:  Oblio,  riso,  insonnia,  spregio  della vita: con apparente abilità,   gli  Abderiti  ricorrono  ad  argomenti   ippocratici   per convincere  Ippocrate  della  malattia  del loro filosofo (sull’oblio, vedi ad esempio “Epìdemie”, terzo, 17, 15; sull’insonnia, “Ep”. primo, 1O; sul riso, “Af”. sesto,  53).  Ma questi semi-abili,  fraintendendo sintomi  che  credono  univoci,  e  tratteggiando  a  loro insaputa il ritratto di un  saggio,  dimenticano  in  particolare  che  l’oblio  è fondatore;   è   perdendo  la  memoria  di  sé  che  Democrito  accede all’«iperfilosofia». NOTA 4: Il  passo  ha  suggerito  a  D.  Bompart  (nel  1632)  curiose speculazioni:   col  “Salmo”  138  alla  mano,   interpreta  le  «cose dell’Inferno» come  un’allusione  incontestabile  alla  matrice  della donna. Probabilmente ignorava che “Delle cose dell’Ade” è il titolo di un’opera perduta di Democrito; Trasillo l’ha annoverata tra i libri di etica  del  filosofo  (vedi  il  suo catalogo ne “Les Présocratiques”, cit.,  pagine 762 seguenti).  Secondo  Proclo,  essa  raccoglieva  gli elementi  di  un’inchiesta  «intorno  alle persone credute morte e poi risuscitate» (Commento alla «Repubblica» di Platone, secondo, 113, 6). NOTA 5: La teoria atomistica di Democrito,  parzialmente  ripresa  dal suo  maestro  Leucippo,  include due teorie della sensazione: da tutti gli oggetti  visibili  si  staccano  pellicole  superficiali,  sottili strati  di  atomi  chiamati “èidola” (termine latinizzato più tardi in “simulacra”),  che attraversano l’aria intermedia  serbando  la  forma dell’oggetto  emittente  e  la  imprimono in noi sull’organo dei sensi oppure, ipotesi materialista più raffinata,  lo stesso occhio proietta dei  raggi  in  direzione degli oggetti,  la cui immagine si forma nel punto d’incontro del simulacro e del  flusso  visivo.  In  entrambi  i casi,  «l’aria  è  piena  di  simulacri».  E’  la  seconda  teoria che Teofrasto ci ha  trasmesso  (“Sulla  sensazione”,  50):  «La  vista  è prodotta  secondo Democrito dall’immagine riflessa.  Egli lo spiega in un modo che gli è affatto peculiare,  ché l’immagine  non  si  produce direttamente  nella pupilla,  ma l’aria situata nell’intervallo tra la vista e  l’oggetto  veduto  viene  compressa  e  colpita  dall’oggetto visibile  e  dall’occhio che vede,  datosi che ogni cosa emette sempre qualche effluvio.  Quindi  quest’aria,  che  è  un  solido  di  colore diverso,  produce  un’immagine  che si riflette negli occhi umidi.  Il compatto non può ricevere l’immagine, ma l’umido la lascia passare,  è per questo che gli occhi umidi vedono meglio degli occhi asciutti…». Ma  i simulacri hanno fors’anche un significato «teologico»,  stando a una citazione di Ermippo: «Non sarebbe onesto passare  sotto  silenzio le  parole  di  Democrito  che,  chiamando  le  divinità  col  nome di simulacri,  dice che l’aria ne è piena»  (cfr.  “Les  Présocratiques”, cit., fr. A 78). NOTA 6: Per Democrito e Leucippo i mondi sono in numero illimitato,  e soggetti a  generazione  e  corruzione.  Alla  sostanza  eterna  degli Eleati,   l’uno   e   l’altro   sostituiscono   un’infinità  dinamica: contrariamente ai filosofi che pongono un Tutto uno e  immutabile,  in cui  il  vuoto non esiste,  partono dalla varietà dei fenomeni e degli esseri per arrivare  alla  conclusione  che  esiste  una  molteplicità infinita di corpuscoli, che implica a sua volta un vuoto infinitamente esteso  (vedi Aristotele,  “De gener.  et corr.  primo,  8,  325 a,  e Simplicio, “Commento alla «Fisica» di Aristotele”, 28, 15). Nella loro lettera a Ippocrate,  gli Abderiti danno di queste tesi  una  versione popolare, di cui s’è ricordato La Fontaine (“Favole”, ottavo, 26): “Nessun numero, disse, i mondi limita: fors’anche son riempiti di Democriti infiniti.” NOTA  7:  Si  potrebbe  anche intendere,  con Littré: «Pensiamo che le nostre leggi (“nòmous”)  siano  malate,  pensiamo  che  delirino».  Da Democrito  all’intera  città,  il  contagio  minerebbe  così l’essenza stessa del politico; l’idea sarà oggetto di variazioni nelle “Lettere” successive  (agli  Abderiti,   a  Dionigi,   a  Damagete).   Il  verbo “parakòptein”,  spesso usato in questi testi,  significa letteralmente che la mente è turbata da uno choc, colpita da un influsso maligno. NOTA 8: Non v’è alcuna ragione di  sostituire  in  questa  frase  come proponeva  Bompart  nel  diciassettesimo secolo,  “sòma” («corpo») con “sèma” («segno»),  ma si tratta proprio di un corpo  significante,  la cui apparente malattia designa in maniera ambivalente una sofferenza e una saggezza. NOTA  9: Secondo una versione più diffusa Abdero era figlio di Ermes e amante di Eracle.  Questi gli affidò le cavalle  di  Diomede,  che  lo uccisero;  dopo  essersi  vendicato  di Diomede,  fu in omaggio al suo compagno che Eracle fondò Abdera. NOTA 10: Epione è anche la sposa di Asclepio  e  la  madre  delle  sue figlie  (tra  cui  Panacea);  i loro fratelli Macaone e Podalirio sono spesso citati nell'”Iliade”.  Omero racconta anche come Peone,  medico degli dei, guarisce Ade (quinto, 401-404) e Ares (quinto, 899-906). NOTA  11: Questa «presa della bacchetta»,  festeggiata annualmente con panegiria e  processione,  sembra  segnare  l’entrata  in  carica  del sacerdote di Asclepio.  A Epidauro,  le Asclepeia venivano festeggiate ogni cinque anni e si accompagnavano a gare musicali e ginniche. NOTA 12: Il “thòrybos” degli Abderiti,  lo scompiglio e il tumulto che s’impadroniscono della loro città, mette Ippocrate sulla buona strada: non  soltanto  perché  una  simile  agitazione è il sintomo di un male collettivo,  che dal solo “sòma” di Democrito  avrebbe  raggiunto  per contagio  l’insieme  del  corpo  sociale,   ma  soprattutto  perché  è l’indizio di un  possibile  errore  di  diagnosi.  E’  lo  stupore  di Ippocrate  dinanzi  al  “thòrybos”  abderita  che  lo  porta alla vera domanda: chi è malato? NOTA 13: Allo stesso modo si  può  leggere,  in  un  testo  tardo  del “Corpus  ippocratico”:  «Se  cominciate col pensare ai vostri onorari, farete  nascere  nel  malato  il  pensiero  che  ve   ne   andrete   e l’abbandonerete  se  non  vi  accordate  su questo…  Non vi curerete quindi di fissare il salario;  riteniamo infatti che  questo  pensiero sia  nocivo  al  paziente,   e  soprattutto  in  una  malattia  acuta» (“Precetti”,  4).   Nelle  “Lettere”,   l’atteggiamento  di  Ippocrate riguardo al denaro obbedisce a una duplice preoccupazione, scientifica e  politica:  il  medico deve essere guidato soltanto dalla “physis” e dall’interesse della “patrìs”.  Se Ippocrate rifiuta qui di  percepire onorari,  non  è per le stesse ragioni che l’hanno portato a declinare le offerte di Artaserse, ma egli sottolinea fortemente,  in entrambi i casi  l’esigenza  deontologica.   Probabilmente  il  presente  offriva all’autore delle “Lettere” buone ragioni per richiamarla. NOTA 14: Il termine “manìa” dev’essere inteso qui nel  senso  generale di  «pazzia»,  e non in quello specialistico che ha acquisito presso i medici,  verso il secondo secolo avanti  Cristo,  di  «turbamento  del pensiero  e  mutamento  negli  usi  e  nelle abitudini di salute,  con febbre» (vedi a questo proposito il rigoroso  studio  di  J.  Pigeaud, “Folie  et  cures  de  la folie”,  cit.).  Si osserverà che Ippocrate, rifiutando di attribuire alla “manìa” il comportamento  dell’Abderita, ne  appare  ancora  più  perplesso:  lungi  dal fare una diagnosi,  la “Lettera a Filopemene” esprime una serie di dubbi,  o di  «ipotesi  di lavoro».  Se  la  ragione non manca a Democrito,  non è forse spinto a qualche eccesso da un’anima  troppo  vigorosa  (“psychès  tinà  rhòsis hyperbàllousa”)? Presenta l’apparenza della follia perché vive come un solitario,  o  cerca  la solitudine perché agisce da filosofo?  Da una frase all’altra,  in tutto il passo,  si rovesciano le prospettive,  e rimane  un’unica certezza: l’ambivalenza del comportamento che saggi e pazzi hanno in comune. NOTA 15: Fa  così  la  sua  apparizione  il  tema  di  una  malinconia pastorale,  destinato a innumerevoli variazioni.  Diogene Laerzio, dal canto suo,  adotta un registro più funebre: «Si esercitava,  stando ad Antistene,  a  mettere  variamente alla prova le impressioni della sua immaginazione  ritirandosi  di  quando  in  quando  in  solitudine   e indugiando nei cimiteri» (Vite, nono, 37). NOTA  16:  Come  l’Ippocrate  degli  “Aforismi” («Se tristezza e paura durano a lungo, un simile stato dipende dalla bile nera», sesto,  23), lo pseudo-Ippocrate delle Lettere mette in stretta relazione uno stato affettivo  e  uno  stato fisiologico,  un comportamento e un umore: la bile nera coesiste con sentimenti particolari,  di cui qui è la  causa ma  di cui può essere anche l’effetto.  E’ nota l’importanza di questa correlazione dell’anima e del corpo nella cultura occidentale. NOTA 17: Oltre che alla tradizione propriamente ippocratica, ricordata nella nota precedente, è alla tradizione derivata da Aristotele che il testo fa riferimento.  Non soltanto perché a  proposito  di  Democrito egli collega la misantropia alla bile nera,  come fa il “Problema XXX” a proposito di Bellerofonte («Cercava i luoghi reconditi,  per  questo Omero  dice di lui nei suoi versi: ” ma quando fu in preda all’odio di tutti i numi,  allora per la pianura Alea solingo errava,  divorandosi il cuore,  fuggendo l’orma degli umani”»,  ed. J. Pigeaud, p. 85); ma, soprattutto,  perché tra il malinconico e  il  saggio  istituisce  una relazione  di quasi identità.  Perdere i contatti col mondo può essere una caratteristica tanto dei malinconici quanto degli studiosi,  tutta la “paidèia” dei quali si sforza di giungere alla “sophìa”;  da questi atteggiamenti analoghi non si può forse  inferire  un’identica  causa? Così  saggezza e malinconia sono riferite a una stessa «disposizione», la “Lettera a Filopemene” descrive una “diàthesis” del saggio, come il “Problema  XXX”  analizza  la  “diàthesis”  della  bile   nera   (vedi un’interessante  occorrenza  di  questa parola a p.  106 dell’edizione Pigeaud). NOTA 18: Il saggio qui descritto è  in  cerca  di  “hesychìa”  (di  un ambiente tranquillo),  che acquietando il corpo porti a una “ataraxìa” (a un’assenza di turbamento nell’anima).  Così affiora in questo passo una   terza   tradizione,   questa  volta  democritea,   che  numerose testimonianze e citazioni hanno trasmesso fino a noi. Vedi per esempio Diogene Laerzio: per Democrito, «il fine della vita morale è la gioia, che non è la stessa cosa del piacere, come taluni hanno frainteso,  ma la  serenità  e  l’equilibrio  che  conosce  durevolmente  l’anima non turbata da alcuna paura,  superstizione o passione.  Egli dà a  questo stato  il nome di benessere,  e molti altri nomi ancora» (“Vite” nono, 45).  Questo «benessere» dell’anima  traduce  “euthymìa”,  parola  che Ippocrate qui non usa,  ma tutto si svolge,  in questa “Lettera”, come se il personaggio del medico facesse sua, a poco a poco,  la filosofia del suo «paziente». NOTA  19:  «Agitazione»  traduce  “thòrybos”:  è  la stessa parola che Ippocrate,  nella lettera precedente,  attribuiva agli Abderiti  (vedi nota 12). NOTA 20: Il greco dice “pòlos”,  ma si tratta della volta celeste: «Il polo, per gli Antichi, non era, come per i Moderni, il punto che segna l’estremità  dell’asse  ma  l’involucro  dell’universo»  (scolio  agli “Uccelli”  di Aristofane,  v.  179).  Evocando d’altra parte gli astri “polykìnetoi”, agitati da molteplici moti, Ippocrate in questo caso ha come referente la fisica di Democrito e i suoi moti vorticosi. NOTA 21: Si tratta forse di  Dionigi  di  Alicarnasso,  lo  storico  e retore greco del primo secolo avanti Cristo.  Alicarnasso si trova nel golfo di Cos, patria di Ippocrate. NOTA 22: L’autore usa  in  questo  passo  tre  termini  che  non  sono sinonimi:  “ametrìa”,  per  designare  l’eccesso in quanto mancanza di misura;  “hyperbàllon”,  per designare ciò che  eccede  (è  la  parola impiegata più su a proposito dell’anima di Democrito,  cfr.  nota 14); “pleonàzon”,  per designare ciò che sovrabbonda.  L’errore  dei  semi- abili è di scambiare “l’hyperbàllon” dell’anima per una “ametrìa”. NOTA  23: Dopo il ragionamento filosofico,  il metodo scientifico.  Un testo tardo del “Corpus ippocratico” insiste sulla necessità,  per  la medicina,  di  ragionare  su  fatti:  «Colui  che sa questo deve,  per praticare la medicina,  dedicarsi  dapprima  non  già  a  ragionamenti probabili, ma all’esperienza ragionata… Si trarrà partito non da ciò che  si fonda sul solo ragionamento,  ma da ciò che si fonda sui fatti dimostrati;  ché l’affermazione  puramente  verbale  è  ingannevole  e deludente.   Perciò,   in  generale,  occorre  attenersi  ai  fatti  e dedicarvisi senza riserve, se si vuole ottenere quella capacità facile e sicura che chiamiamo medicina…» (“Precetti”, primo,  2,  in Robert Joly, “Hippocrate”. “Médecine grecque”, Parigi, Gallimard, 1964). NOTA 24: Letteralmente: la donna ha in sé qualcosa di “akòlaston”,  di non sfrondato,  di non  potato,  questa  parola  prepara  il  paragone dendrologico  che  segue  (Galeno  svilirà in ben altro modo la donna, definendola   «animale   mutilo»).   Democrito,   citato   da   Stobeo (“Florilegio”, quarto, 22, 199) non la pensava diversamente: «La donna è portata alla malizia ben più dell’uomo». NOTA  25: Oltre alle figure decorative,  come statue di poppa e figure di prua, le navi greche potevano avere insegne e polene (cfr. Erodoto, ottavo, 88; Strabone, secondo, 3, 4; Diodoro, quarto, 47). NOTA 26: Il paragone tra una nave  e  un  uccello  è  frequente  nella letteratura greca: «I lisci remi,  queste ali dei navigli», dice Omero (“Odissea”, undicesimo, 125). E Aristotele: «Se un vascello mercantile provasse ad andare a remi andrebbe come uno di quegli olotteri le  cui ali  sono  troppo  deboli  per  il loro corpo,  anziché andare come un uccello» (“De inc. anim.”, 1O, 5). NOTA 27: “Metriàzein”: ritornando all’idea di giusta misura (cfr. nota 22),  poi preoccupandosi  di  un  possibile  eccesso  dell’ilarità  di Democrito,  Ippocrate  completa,  più  che contraddire,  la precedente lettera a Dionigi: se il filosofo è un uomo superiore,  dotato di  una “rhòsis hyperbàllousa”, resta da sapere se non pecchi di “ametrìa”. NOTA 28: Sebbene questo sogno presenti un interesse più romanzesco che medico,  è  opportuno  forse  ricordare  quale  importanza  attribuiva all’attività onirica il “Regime”  di  Ippocrate:  «Colui  che  ha  una conoscenza precisa dei segni che si producono nel sonno constaterà che hanno  un  gran  peso sotto tutti gli aspetti.  Questo perché l’anima, quando è al servizio del corpo desto, si divide tra molti compiti; non dispone liberamente di sé,  ma si dà parzialmente a ogni  facoltà  del corpo  all’udito,  alla  vista,  al  tatto,  alla deambulazione,  alle attività dell’intero corpo;  l’intelligenza non è padrona  di  sé.  Ma quando  il  corpo rimane tranquillo,  l’anima,  messa in moto e desta, governa la propria sfera e compie da sola tutte le azioni  del  corpo: ché quest’ultimo dorme e non sente nulla, mentre l’anima desta conosce tutto, vede ciò che è visibile, ode ciò che è udibile, cammina, tocca, si affligge,  riflette,  nell’angusto spazio in cui si trova; tutte le funzioni del corpo o dell’anima,  nel sonno l’anima le  svolge  tutte. Colui, quindi, che sa giudicare questo correttamente conosce una buona parte della scienza» (quarto,  86,  1,  in R.  Joly,  cit.).  L’autore distingue allora due categorie di sogni: quelli  «che  sono  divini  e annunciano,  per  le  città  o gli individui,  mali o beni»;  e quelli «attraverso i quali l’anima annuncia le affezioni  del  corpo».  Nella “Lettera  a  Filopemene”,  il  sogno dello pseudo-Ippocrate appartiene chiaramente alla prima categoria: non soltanto un dio lo invia,  ma si invia  lui  stesso,  se  così  si può dire,  facendosi accompagnare da allegorie.  Due particolarità meritano menzione:  è  il  sogno  di  un medico,  non di un paziente;  e ha valore di sintomo e di premonizione al tempo stesso,  poiché rivela  non  soltanto  lo  stato  attuale  di Democrito, ma la futura evoluzione di Ippocrate nei suoi confronti. NOTA 29: Emblematico della medicina, il serpente è tanto più legato ad Asclepio in quanto il dio,  si diceva,  si era reincarnato in rettile. Questa fu la forma che adottò per nuotare  da  Epidauro  a  Roma,  nel terzo secolo avanti Cristo;  sappiamo anche che alla sua morte,  posto nel firmamento da Apollo,  Asclepio era diventato la costellazione del Serpentario. NOTA   30:   “Phàsma”  potrebbe  significare  anche  «fantasma».   Sul significato   dei   termini   affini    “phantasìa”,    “phantastikòn” “phàntasma”,  “phantastòn”,  cfr.  Jackie  Pigeaud,  «Voir,  imaginer, rêver, être fou», “Littérature, Médecine, Société”, n. 5, 1983. NOTA 31: Apollo ha cominciato la sua carriera divina  con  l’uccisione del  serpente  Pitone;  avendo poi persuaso Pan a rivelargli l’arte di profetizzare si è impadronito dell’oracolo di Delfi,  affidandolo alia «pitonessa».  Regnando  d’altronde sulle arti e le scienze,  controlla anche la medicina,  al punto da confondersi con Peone  in  quanto  dio guaritore.  I  suoi doni terapeutici sono stati trasmessi ad Asclepio, il figlio che ha avuto da Coronide. NOTA 32: Questo medico ed erborista ci ha trasmesso dei  frammenti  di Democrito, egli stesso è citato da Dioscoride e Galeno. NOTA   33:  Sulla  presunta  stupidità  degli  Abderiti,   proverbiale nell’antichità, vedi ad esempio Plinio, 25, 8. NOTA 34: Un trattato ippocratico ricollegato  alla  scuola  di  Cnido. “Della natura del bambino”,  espone una teoria della vita vegetale; vi si legge in particolare che «tutte le piante vivono  dell’umore  della terra  e  che  il  loro  stato  dipende  da  quello della terra quanto all’umore»,  come lo stato di un bambino dipende da quello della madre (cfr. R. Joly, cit., p. 199). Vedi anche “Del regime”, secondo, 37, 2- 3 NOTA  35: Nella medicina ippocratica,  di cui l’autore delle “Lettere” si studia di dare qui un  compendio,  il  trattamento  è  strettamente legato  alle stagioni: vedi ad esempio “Delle arie,  delle acque,  dei luoghi”, 1 romano: «Colui che voglia approfondire la medicina… prima scruterà attentamente le stagioni dell’anno,  il  rispettivo  influsso che ciascuna di esse esercita, che non soltanto non si somigliano l’un l’altra, ma sono assai diverse, in se stesse e nei loro mutamenti a un tempo;  poi esaminerà quali sono i venti caldi e freddi…».  In linea di massima si tratta, per il terapeuta, di procedere a una valutazione sistematica dell’ambiente circostante, in quanto esso determina salute e malattia. NOTA  36:  Il  “kairòs”,  opportunità  o  occasione,   è  un  concetto ippocratico  fondamentale:  essere  medico vuol dire spiare il momento propizio,  l’istante in cui la natura fa segno di passare a  un’azione immediata. NOTA  37:  a) Dall’epoca preippocratica al diciannovesimo secolo,  gli ellebori nero e bianco hanno occupato un  posto  di  primo  piano  nel pensiero medico. Gli antichi facevano uso di un decotto di “Helleborus niger”   o   di   “Helleborus   viridis”  ranuncolacee  dagli  effetti cardiotonici ed emetici,  la raccolta di questo pericoloso  e  potente purgante della bile nera era circondata da numerose precauzioni. Nella sua “Histoire du traitement de la mélancolie”, cit., J. Starobinski ha preso  l’elleboro  come  esempio  della  valorizzazione fantastica che accompagna talune sostanze: «L’immaginazione  è  incline  a  costruire tutta una farmacologia favolosa, i farmaci vengono allora investiti da una  duplice  esigenza:  quella  del potere specifico,  e quella della panacea.  Ora si sostiene che la “buona erba” sia l’esatto antidoto di un  veleno,  la  cura  unica  e  pressoché  predestinata  di  un  male particolare, ora le si conferisce un potere infinitamente esteso,  una prodigiosa polivalenza,  che giustifica il suo impiego in una quantità di malattie diversissime le une dalle altre».  In  realtà,  l’elleboro era  contemporaneamente  una  panacea e uno specifico.  Questa «pianta sovrana» aveva un  vastissimo  campo  d’azione,  strettamente  legato, beninteso, alla teoria degli umori e a quella della purgazione: poteva essere prescritta in caso di lebbra o di gotta,  di idrofobia o mal di testa,  di vitiligine o di oftalmia – pur conservando,  come in queste “Lettere”, la sua reputazione di rimedio per eccellenza alle affezioni malinconiche,    si   riteneva   anche   che   stimolasse   l’attività intellettuale e la facoltà inventiva (su questo punto, cfr.  Plinio il Vecchio,   “Storia  naturale”,   venticinquesimo,   21,   o  Petronio, “Satyricon”, 88). Secondo un’antica tradizione,  di cui si fa eco  lo  stesso  Petronio, Democrito  era  un eccellente rizotomo: «Arrivò a estrarre il succo di tutte le piante, e,  onde non rimanessero ignote le virtù delle pietre e  dei  vegetali,  passò  tutta  la  vita  a  sperimentare».  Ma nelle “Lettere” di Ippocrate è quest’ultimo,  invece,  ad apparire  come  lo specialista dell’elleboro; la ventunesima lettera, qui non riprodotta, costituisce anzi un trattato sull’elleborismo,  che il medico invia al suo presunto malato e di cui ecco un breve estratto:  «In  coloro  che non   evacuano  facilmente  dall’alto,   bisogna  rendere,   prima  di amministrare la pozione,  il  corpo  umido  con  un’alimentazione  più abbondante e il riposo» (“Aforismi”,  sesto,  13). «Esortare colui che ha bevuto dell’elleboro a darsi più movimento e a non abbandonarsi  al sonno… L’elleboro è pericoloso per coloro che hanno le carni sane… Lo  spasmo  che  segue  la  somministrazione  dell’elleboro è funesto» (ibid., 16; cd. E. Littré). b) Una specie di elleboro, il “melampòdion”,  porta il nome di Melampo di  Pilo che,  scoperto l’effetto purgativo di quest’erba sulle capre, fece bere il loro latte alle figlie di Preto e  le  guarì  così  dalla loro   pazzia   (cfr.    Plinio   il   Vecchio,   “Storia   naturale”, venticinquesimo, 21-22). Melampo,  «l’uomo dai piedi neri»,  possedeva numerose  virtù:  da Apollo aveva ricevuto il dono della profezia;  da una nidiata di serpenti la  facoltà  di  capire  il  linguaggio  degli uccelli e degli insetti,  viene anche considerato, da taluni, il primo medico. Lisippa, Ifinoe e Ifianassa,  figlie del re di Tirinto,  erano state  punite  dagli  dei  con  la demenza per aver offeso Era,  o per essere state  troppo  prese  dai  piaceri  dell’amore;  come  Io,  che presenta peraltro alcune analogie con la loro madre Stenebea, vagavano sulle montagne assalendo i viandanti, simili a vacche punte da tafani. Avendo  il  loro  padre  cominciato col rifiutare i costosi servigi di Melampo,  la pazzia dilagò tra le donne  di  Argo;  assai  diverso  da Ippocrate  sotto  questo  aspetto,  Melampo pretese onorari ancora più alti per guarire un male così grave. Finì con lo sposare Lisippa. c) L’elleboro porta anche,  specialmente in  Dioscoride,  il  nome  di “antikyrikòn”, che deve a una città della Focide o a una città omonima della  Ftiotide,  che  si presumeva producesse in abbondanza la specie più efficace;  l’espressione “navigare Anticyras” –  «fare  rotta  per Anticira»,  cioè  «dar segni di pazzia» – è divenuta proverbiale nella Roma antica e nel Rinascimento (cfr. Orazio, “Satire”, secondo, 3, 83; Plauto, “Menechmi”,  247;  Erasmo,  “Adagia”).  Per quanto riguarda la pazzia di Eracle,  menzionata fin dalle prime righe del “Problema XXX” di Aristotele,  ne sono state date svariate  versioni  nell’antichità: ora  l’eroe si addormenta dopo l’uccisione dei figli e si desta in uno stato d’animo suicida,  come nell'”Eracle” di Euripide o  nell'”Ercole furioso”  di  Seneca;  ora  l’accento  è  posto  sulla  sua  laboriosa espiazione,  e le Dodici Fatiche  appaiono  altrettante  tappe  di  un processo  purificatore,  ora  la pazzia è invece una conseguenza delle Fatiche stesse,  cioè della stanchezza accumulata nel corso  del  loro compimento.  Bisognerebbe  parlare  al  plurale delle pazzie di questo eroe,  dato che oscilla tra mania,  epilessia  e  malinconia  (vedi  a questo proposito J.  Pigeaud,  “La Maladie de l’âme”,  cit.). Resta il fatto che  nelle  versioni  più  diffuse  del  mito,  né  la  “Collana ippocratica”  (che  menziona  la  «malattia  di Eracle») rappresentano l’eroe mentre ingerisce elleboro. NOTA 38: Il simbolo della salute: un pentagramma,  tra le cui punte si iscrivono  le  lettere  della  parola “hygìeia”,  salute?  (Una figura simile è riprodotta nell’edizione di Bompart, 1632). NOTA  39:  L’autore  ha  coniato  una   parola   molto   interessante: “hyperphilosophèin”, che Littré traduce con «dedicarsi a una filosofia trascendentale»  e Bailly con «filosofare oltremisura».  Mi sembra che la parola sia da accostare alla “rhòsis hyperbàllousa” che indica a un tempo l’eccellenza e l’eccesso di Democrito. NOTA 40: Nel Mediterraneo orientale, i venti etesii soffiano ogni anno durante la canicola.  Ippocrate prestava loro,  come a  tutti  i  dati meteorologici, molta attenzione (vedi ad esempio “Epidemie”, 1 romano, 1 romano). NOTA 41: Due citazioni si impongono qui,  una da Platone, che descrive all’inizio del “Fedro” la passeggiata sulle rive dell’Ilisso «SOCRATE: Ah! per Era!  ecco un bel luogo per fermarsi!  Il platano che c’è qui, infatti,  è  in verità tanto spazioso quanto ampio!  Questo agnocasto, cresciuto così bene,  dà  un’ombra  magnifica!  Nel  pieno  della  sua fioritura com’è,  profuma questo luogo nel modo più soave.  E la fonte poi,  che scorre sotto il platano,  ce n’è forse una più  gradevole  e dall’acqua di tale freschezza, come almeno col piede è dato provare? A giudicare da queste figurine e statuette di marmo, dev’essere un luogo sacro  alle ninfe e ad Acheloo…  Ma la cosa più deliziosa di tutte è questo letto d’erba,  ché col suo dolce pendio è naturalmente  adatto, per chi vi si sdrai, a posarvi comodamente il capo» (230 b-c). L’altra citazione è da J.  Pigeaud,  che ha finemente raffrontato Platone e lo pseudo Ippocrate: «Se prendiamo  il  platano  del  Fedro,  Socrate  lo descrive  spazioso  e  alto.  Quello  di  Democrito è spazioso e molto basso. Opposizione dovuta al caso? Il platano rasoterra di Democrito è il segno che obbliga a leggere la “Lettera” 17 nel  suo  rapporto  col “Fedro”,  e ci presenta un Democrito che è,  in sostanza, l’inverso di Socrate.  Socrate è l’uomo  del  dialogo,  del  piacere  del  dialogo. Democrito  solo,  sul suo sedile di pietra (che si oppone alla morbida erbetta descritta da Socrate) è l’uomo del monologo» (“La  Maladie  de l’âme”,  cit. p. 455). Altra differenza tra questi paesaggi simbolici: alla morbida erbetta platonica mi sembra che Ippocrate  opponga  anche la  vite  proliferante:  possibile allusione,  attraverso Dioniso e il vino,  al “Problema XXX” di Aristotele,  in cui si sviluppa  un  lungo paragone tra ebbrezza e malinconia. NOTA 42: Democrito lavora “enthousiodòs”, cioè in un trasporto divino: la  sua  pazzia,  se pazzia è,  non è la pazzia patologica,  ma quella dell’ispirazione.  Differenza radicale,  teorizzata  non  soltanto  da Platone – si capisce ancora meglio il riferimento al testo del “Fedro” –  ma  da Democrito stesso,  stando alle testimonianze.  Cicerone: «Ho sentito dire spesso,  infatti (e questa opinione,  dicono è quella che Democrito  e Platone ci hanno lasciato nei loro scritti),  che nessuno potrebbe essere un vero poeta se non infiamma gli animi e  non  ha  un afflato paragonabile al delirio» (Dell'”oratore”,  secondo,  46,  194; cfr.  anche  “Della  divinazione”,  1  romano,   38,   80).   Clemente Alessandrino:  «E  Democrito,  proprio  come Platone: ciò che un poeta scrive sotto l’impulso del trasporto divino  e  del  sacro  afflato  è veramente  bello»  (“Stromata”,  sesto,  168).  Ippocrate,  stando ben attento a non interrompere quell’entusiasmo,  aspetta come  sempre  il “kairòs” (cfr. nota 36). NOTA 43: Questa risposta suscita almeno tre osservazioni: a) Ippocrate presuppone  in Democrito lo stesso «entusiasmo» che questi attribuisce ai veri poeti: come se  la  scrittura  della  pazzia  e  la  scrittura poetica dipendessero da una medesima «ispirazione».  b) In una lettera a Ippocrate, qui non riprodotta, Democrito dirà al suo nuovo amico che al momento del loro incontro stava scrivendo non  già  un’opera  sulla pazzia, ma i trattati “Sull’ordinamento dell’universo, Descrizione del polo e Sugli astri della sfera dei fissi”: questa contraddizione ha un significato?  c)  Accluso alla stessa lettera,  gli invia un “Discorso sulla pazzia” – lo stesso che stava (forse) scrivendo quando il medico gli fece visita – ma che è in realtà di  Ippocrate,  e  «ispirato»  da cima a fondo dal “Male sacro” di quest’ultimo…  Topica,  astuzia del testo o effetto di successive redazioni, è evidente che queste Lettere possono essere di  una  temibile  complessità.  Di  più  questo  “Perì manìes”,  di cui diamo il testo integrale (ed.  E. Littré), è in netta contraddizione con la “Lettera a Damagete”: «Diventiamo alienati, come ho detto nel libro sul Male sacro (paragrafi 14 e 15),  per  l’umidità dell’encefalo,  in  cui  hanno luogo le operazioni dell’anima.  Quando l’encefalo è più umido di quanto  sia  opportuno,  necessariamente  si muove,  muovendosi  esso,  né  la  vista  né  l’udito sono sicuri;  il paziente ode e vede ora una cosa ora un’altra,  la lingua esprime  ciò che  vede  e  ode,  ma per tutto il tempo che il cervello è in riposo, l’uomo è in possesso delle sue  facoltà.  L’alterazione  del  cervello avviene   a   causa   della  pituita  o  della  bile;   ecco  i  segni caratteristici: i pazzi per effetto della pituita sono pacifici e  non gridano  né si agitano;  i pazzi per effetto della bile menano le mani sono malvagi e non stanno mai fermi. Queste sono le cause che fanno sì che la pazzia sia continua. Se il malato è in preda a timori e terrori ciò è dovuto al cambiamento che subisce il cervello  riscaldato  dalla bile,  che  vi si precipita dalle vene sanguigne,  ma,  quando la bile rientra nelle vene e nel corpo,  torna la  calma.  D’altro  canto,  il paziente è in balia della tristezza, dell’angoscia e perde la memoria, quando  il  cervello è raffreddato contro la regola dalla pituita e si contrae contrariamente al solito. Quando improvvisamente il cervello è riscaldato dalla bile tramite le suddette vene, il sangue ribolle,  il paziente fa sogni spaventosi;  e, nello stesso modo in cui, in un uomo desto,  il volto è ardente,  gli occhi  rossi,  e  la  mente  pensa  a commettere  qualche  atto  di  violenza  così il sonno presenta questi fenomeni: ma torna la calma quando il  sangue  si  disperde  di  nuovo nelle  vene.  Nel quinto libro delle “Epidemie” ho riferito (paragrafo 80) come sopraggiunsero perdita della voce,  perdita della conoscenza, frequenti attacchi di delirio e recidive; la lingua era secca e se non la umettava non era in grado di articolare, la lingua era quasi sempre amarissima,   il  salasso  risolveva;   acqua,  idromele,  pozioni  di elleboro; il paziente, dopo aver resistito per un po’, soccombette. Ce n’era un altro  (paragrafo  18)  che,  quando  si  dava  al  bere,  si spaventava della suonatrice di flauto, se questa cominciava a suonare; ma, se la sentiva di giorno, non provava alcuna emozione». NOTA 44: Quest’ambivalenza della bile nera è esposta da Aristotele nel “Problema XXX”, a cui è evidente il riferimento: «La bile nera diventa sia  caldissima che freddissima;  giacché la stessa cosa,  per natura, può presentare questi due stati… Quando il miscuglio originato dalla bile nera è troppo freddo, come abbiamo detto, produce delle atimie di ogni genere; troppo caldo, delle eutimie… Poiché la forza della bile nera è incostante incostanti sono  i  malinconici»  (ed.  J.  Pigeaud, cit.). NOTA  45:  Le  panegirie  radunavano  intorno a un santuario comune il popolo di una città o di un gruppo di città;  erano una via  di  mezzo tra  la  festa,  la fiera e i giochi.  Così le Panatenee ad Atene,  le Delia degli Ioni, o i Giochi Olimpici che attiravano tutta l’Ellade. NOTA 46: Vedi,  ad esempio,  il frammento B 76 di Democrito:  «Non  la ragione, ma la calamità è l’istitutrice delle nature puerili». NOTA 47: Plinio e Diodoro,  specialmente,  ci hanno tramandato pietose descrizioni della vita dei minatori; per lo più schiavi, lavoravano di giorno o  di  notte  in  gallerie  mal  aerate;  gli  incidenti  erano frequenti,  così  come  le  rivolte (cfr.  Tucidide,  settimo,  27,  a proposito degli schiavi del Laurion). NOTA 48: Vedi in particolare il frammento B  278  di  Democrito:  «Gli uomini  annoverano  nel numero delle cose che sembrano loro necessarie l’avere dei figli: è questo un obbligo della natura in pari tempo  che un’istituzione primitiva… Una volta nati, i loro genitori faticano a nutrire ciascuno come meglio possono…». NOTA  49:  Tersite,  «l’uomo  più  brutto che sia venuto sotto Troia», varo,  zoppo e «con la  testa  a  punta»,  è  un  soldato  acheo  che, nell'”Iliade”,  insulta  Agamennone  e  che  Ulisse  punisce duramente (secondo, 212-277). NOTA  50:  “Anàrmostos”:  Ippocrate  rimprovera  a  Democrito  di  non adattarsi  all’ordine  sociale,  né all’ordine del mondo;  più su l’ha definito “àtopos”. NOTA 51: La controversia qui è tra la “tàxis”,  l’ordine rappresentato da  Ippocrate  (è  la  stessa  “tàxis” che gli pareva dar senso al suo sogno,  nella “Lettera  a  Filopemene”),  e  l'”ataxìa”  del  filosofo atomista, per il quale il mondo è un moto vorticoso. NOTA  52:  Cfr.  il  frammento B 219 di Democrito: «Il desiderio delle ricchezze,  se non è contenuto nei limiti della  sazietà,  è  ben  più insopportabile  dell’estrema povertà;  che più grandi sono i desideri, più grandi sono i bisogni». NOTA 53: Cfr.  il frammento B 198: «L’animale che sente un bisogno  sa di che cosa ha bisogno, l’uomo che sente un bisogno no». NOTA  54:  Asclepio  fu folgorato da Zeus per aver osato risuscitare i morti, mettendo così in pericolo l’ordine del mondo. NOTA 55: Anche il “kòsmos” è “misànthropos”:  questo  ragionamento  in forma  di  diatriba  dimostra  che  è  Democrito,  e non Ippocrate,  a trovarsi in profondo accordo col mondo.

 

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