Marco Mauro, Famija Sanremasca ( link Facebook sotto ) : Buon Compleanno Italo ! Il 15 ottobre 1923 nasceva Italo Calvino.– la foto : bello, ma terribile ! + ” La strada di San Giovanni di Italo Calvino, pubblicata sul blog di Agnese Gatto ( link sotto )

 

 

Famija Sanremasca

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Buon Compleanno, Italo!

 

” Una spiegazione generale del mondo e della storia deve innanzi tutto tenere conto di com’era situata casa nostra, nella regione un tempo detta < punta di Francia>, a mezza costa sotto la collina di San Pietro, come a frontiera tra due continenti. In giù, appena fuori del nostro cancello e della via privata, cominciava la città coi marciapiedi le vetrine i cartelloni dei cinema le edicole, e Piazza Colombo lì a un passo, e la marina; in su, bastava uscire dalla porta di cucina nel beudo che passava dietro casa a monte…. e subito si era in campagna, su per le mulattiere acciottolate, tra muri a secco e pali di vigne e il verde…..”

Il 15 ottobre 1923 nasceva Italo Calvino.

 

 

Potrebbe essere un'immagine in bianco e nero raffigurante 2 persone e bimbo

 

 

 

 

La strada di San Giovanni, di Italo Calvino

pubblicata da Agnese Gatto nel suo blog:

 

Il Gesto e il Segno  ( link  )

11 febbraio 2011

 

 

Io no, tutto il contrario: per me il mondo, la carta del pianeta, andava da casa nostra in giù, il resto era spazio bianco, senza significati; i segni del futuro mi aspettavo di decifrarli laggiù da quelle vie, da quelle luci notturne che non erano solo le vie e le luci della nostra piccola città appartata, ma la città, uno spiraglio di tutte le città possibili, come il suo porto era già i porti di tutti i continenti, e a sporgermi dalle balaustre del nostro giardino ogni cosa che mi attraeva e sbigottiva era a portata di mano eppure lontanissima ogni cosa era implicita, come noce nel mallo, il futuro e il presente, e il porto sempre a sporgersi da quelle balaustre, e non so bene se sto parlando di un’ età in cui non uscivo mai dal giardino o d’ una età in cui scappavo sempre fuori in giro, perché ora le due età si sono fuse in una, e questa età è una cosa sola con i luoghi, che non sono più luoghi né nulla, il porto non si vedeva, nascosto dall’ orlo dei tetti delle case alte di piazza Sardi e piazza Bresca, e ne affiorava solo la striscia del molo e le teste delle alberature dei battelli; e anche le vie erano nascoste e mai riuscivo a far coincidere la loro topografia con quella dei tetti, tanto irriconoscibili mi apparivano di quassù proporzioni e prospettive: là il campanile di San Siro, la cupola a piramide del teatro comunale Principe Amedeo, qua la torre di ferro dell’ antica fabbrica d’ ascensori Gazzano (i nomi, ora che le cose non esistono più, si impongono insostituibili e perentori sulla pagina per essere salvati), le mansarde della cosiddetta casa parigina, un palazzo d’ appartamenti d’ affitto, proprietà di cugini nostri, che a quel tempo (ora mi fermo verso il ‘ 30) era un avamposto isolato delle lontane metropoli finito sul dirupo del torrente San Francesco… Al di là si levava, come una quinta, il torrente era nascosto giù in fondo, con le canne, le lavandaie, il lerciume dei rifiuti sotto il ponte del Roglio, la riva di Porta Candelieri, dov’ era uno scosceso terreno ortivo allora di nostra proprietà, e s’ aggrappava la vecchia casbah della Pigna, grigia e porosa come un osso dissotterrato, con segmenti neri catramati o gialli e cespi d’ erba, sormontata al posto del quartiere di San Costanzo, distrutto dal terremoto dell’ 87 da un giardino pubblico ben ordinato e un po’ triste, che saliva con le sue siepi e spalliere la collina: fino al ballo d’ un dopolavoro montato su palafitte, al palazzotto del vecchio ospedale, al santuario settecentesco della Madonna della Costa, dalla dominante mole azzurra. Richiami di madri, canti di ragazze o di beoni, secondo l’ ora e il giorno, si staccavano da queste pendici sopraurbane, e calavano sul nostro giardino, chiari attraverso un cielo di silenzio; mentre chiusa tra le scaglie rosse dei tetti la città confusamente suonava i suoi sferragli di tram e di martelli, e la tromba solitaria nel cortile della caserma De Sonnaz, e il ronzio della segheria Bestagno, e a Natale la musica delle giostre alla marina. Ogni suono, ogni figura rimandava ad altri, più presentiti che uditi o veduti, e così via. Anche la strada di mio padre portava lontano. Lui del mondo vedeva solo le piante e ciò che aveva attinenza con le piante, e di ogni pianta diceva ad alta voce il nome, nel latino assurdo dei botanici, e il luogo di provenienza la sua passione era stata per tutta la sua vita quella di conoscere e acclimatare piante esotiche e il nome volgare, se ce n’ era uno, in spagnolo o in inglese o nel nostro dialetto, e in questo nominare le piante metteva la passione di dar fondo a un universo senza fine, di spingersi ogni volta alle frontiere estreme d’ una genealogia vegetale, e da ogni ramo o foglia o nervatura aprirsi una via come fluviale, nella linfa, nella rete che copre la verde terra. E il coltivare, perché questa era anche la sua passione, la sua prima passione, anzi, nel coltivare la nostra campagna di San Giovanni, là egli andava tutte le mattine uscendo per la porta del beudo con il cane, mezz’ ora di strada a piedi del suo passo, quasi tutta in salita, metteva un’ ansia perpetua come non tanto il far rendere quei pochi ettari gli stesse a cuore, ma il fare quanto poteva per portare avanti un compito della natura che aveva bisogno dell’ aiuto umano, coltivare tutto il coltivabile, porsi come anello d’ una storia che continua, dal seme, dalla talea da trapianto, dalla marza da innesto fino al fiore al frutto alla pianta e via di nuovo senza principio e senza termine nello stretto confine della terra (il podere o il pianeta). MA DI LA’ dalle fasce coltivate, uno squittire, un frullo, uno smuovere d’ erba, bastava a fargli alzare di scatto i tondi fissi occhi e la barbetta appuntita, restare a orecchio teso (aveva un viso fermo, da gufo, con scatti talora come un rapace da preda, aquila o condor), e già non era più l’ uomo dei campi ma l’ uomo dei boschi, il cacciatore, perché questa era la sua passione la prima, sì, la prima, ossia l’ ultima, l’ estrema forma della sua unica passione, il conoscere il coltivare il cacciare, in tutti i modi il darci addosso, dentro, in questo bosco selvatico, nell’ universo non antropomorfo, in faccia al quale (e soltanto lì) l’ uomo era uomo cacciare, appostarsi, la notte fredda avanti all’ alba, per i dossi brulli di Colla Bella o Colla Ardente, aspettando il tordo, la lepre (cacciatore da pelo, come sempre gli agricoltori liguri, il suo cane era segugio), o addentrarsi nel bosco, batterlo a palmo a palmo, col cane a naso in terra, per tutti i posti di passo degli animali, in ogni anfratto dove negli ultimi cinquant’ anni avevano scavato tane volpi e tassi e lui solo li sapeva, oppure quando andava senza fucile là dove i funghi affiorando gonfiano la terra fradicia dopo la pioggia o la striano le lumache mangerecce, il bosco familiare nella sua toponomastica dei tempi di Napoleone Monsù Marco, la Fascia del Caporale, il Cammino dell’ Artiglieria, ed ogni selvaggina ed ogni pista era buona pur di fare chilometri a piedi fuori delle strade, battendo vallata per vallata la montagna giorni e notti, dormendo in quei rudimentali essiccatoi per castagne, costruiti di sassi e rami, che chiamano cannicci, solo con il cane o il fucile, fino in Piemonte, fino in Francia, senza mai uscire dal bosco, aprendosi la strada, quella strada segreta che lui solo sapeva e che passava attraverso tutti i boschi, che univa ogni bosco in un bosco solo, ogni bosco del mondo in un bosco al di là di tutti i boschi, ogni luogo del mondo in un luogo al di là di tutti i luoghi. Capite come le nostre strade divergevano, quella di mio padre e la mia. Ma anch’ io, cos’ era la strada che cercavo se non la stessa di mio padre scavata nel folto d’ un’ altra estraneità, nel sopramondo (o inferno) umano, cosa cercavo con lo sguardo negli androni male illuminati nella notte (l’ ombra d’ una donna, a volte, vi spariva) se non la porta socchiusa, lo schermo del cinematografo da attraversare, la pagina da voltare che immette in un mondo dove tutte le parole e le figure diventassero vere, presenti, esperienza mia, non più l’ eco di un’ eco di un’ eco? Parlarci era difficile. Entrambi d’ indole verbosa, posseduti da un mare di parole, insieme restavamo muti, camminavamo in silenzio a fianco a fianco per la strada di San Giovanni. Per mio padre le parole dovevano servire da conferma alle cose, e da segno di possesso; per me erano previsioni di cose intraviste appena, non possedute, presunte. Il vocabolario di mio padre si dilatava nell’ interminabile catalogo dei generi, delle specie, delle varietà del regno vegetale ogni nome era una differenza colta nella densa compattezza della foresta, la fiducia d’ avere così allargato il dominio dell’ uomo e nella terminologia tecnica, dove l’ esattezza della parola accompagna lo sforzo d’ esattezza dell’ operazione, del gesto. E tutta questa nomenclatura babelica s’ impastava in un fondo idiomatico altrettanto babelico, cui concorrevano lingue diverse, mescolate secondo i bisogni e i ricordi (il dialetto per le cose locali e brusche aveva un lessico dialettale di ricchezza rara, pieno di voci cadute in disuso , lo spagnolo per le cose generali e gentili il Messico era stato lo scenario dei suoi anni più fortunati, l’ italiano per la retorica era, in tutto, uomo dell’ Ottocento, l’ inglese aveva visitato il Texas per la pratica, il francese per lo scherzo) e ne veniva un discorso tutto tessuto d’ intercalari che tornavano puntualmente in risposta a situazioni fisse, esorcizzando i moti dell’ animo, un catalogo anch’ esso, parallelo a quello della nomenclatura agricola, e a quell’ altro non di parole ma di zufolii, pispoli, trilli, zirli, chiù, che era dato dalla sua bravura ad imitare i versi degli uccelli, sia col semplice atteggiare delle labbra, sia aiutandosi con le mani disposte in modo adatto attorno alla bocca, sia mediante fischietti e macchinette, a fiato o a molla, di cui portava nella cacciatora un vario assortimento. “Puntare su carte ignote” Io non riconoscevo né una pianta né un uccello. Per me le cose erano mute. Le parole fluivano fluivano nella mia testa non ancorate a oggetti, ma ad emozioni fantasie presagi. E bastava un brandello di giornale calpestato che mi finiva tra i piedi ed ero assorto a bere la scrittura che ne sortiva mozza e inconfessabile nomi di teatri, attrici, vanità e già la mia mente aveva preso il galoppo, la catena delle immagini non si sarebbe fermata per ore e ore mentre continuavo a seguire in silenzio mio padre, che additava certe foglie di là da un muro e diceva: Ypotoglaxia jasminifolia (ora invento dei nomi; quelli veri non li ho mai imparati), Photophila wolfoides diceva (sto inventando; erano nomi di questo genere), oppure Crotodendron indica (certo adesso avrei potuto pure cercare dei nomi veri, invece di inventarli, magari riscoprire quali erano in realtà le piante che mio padre andava nominandomi; ma sarebbe stato barare al gioco, non accettare la perdita che mi sono io stesso inflitto, le mille perdite che ci infliggiamo e per cui non c’ è rivincita). (Eppure, eppure, se avessi scritto qui dei veri nomi di piante sarebbe stato da parte mia un atto di modestia e pietà, finalmente un far ricorso a quell’ umile sapienza che la mia gioventù rifiutava per puntare su carte ignote e infide, sarebbe stato un gesto di pacificazione col padre, una prova di maturità, e invece non l’ ho fatto, mi sono compiaciuto di questo scherzo dei nomi inventati, di quest’ intenzione di parodia, segno che ancora una resistenza è rimasta, una polemica, segno che la marcia mattutina verso San Giovanni continua ancora con il suo dissidio, che ogni mattina della mia vita è ancora la mattina in cui tocca a me accompagnare nostro padre a San Giovanni). Dovevamo accompagnare nostro padre a San Giovanni a turno, una mattina io e una mattina mio fratello (non in tempo di scuola, perché allora nostra madre non permetteva che fossimo distratti, ma nei mesi delle vacanze, proprio quando avremmo potuto dormire fino a tardi), e aiutarlo a portare a casa le ceste di frutta e di verdura. (Parlo di quando eravamo già più grandi, giovinetti, e nostro padre vecchio; ma l’ età di nostro padre pareva sempre uguale, tra i sessanta e i settanta, un’ accanita infaticabile vecchiaia). Estate e inverno, lui si alzava alle cinque, si vestiva rumorosamente dei suoi panni di campagna, s’ allacciava i gambali (vestiva sempre pesante, in qualunque stagione portava giacca e gilè, soprattutto perché gli servivano moltissime tasche per le varie forbici da potare e coltelli da innesto e matasse di spago o di raffia che aveva sempre con sé; solo d’ estate al posto della cacciatora di fustagno e del berretto a visiera col passamontagna metteva una tenuta di tela gialla sbiadita dei tempi del Messico e un casco coloniale da cacciatore di leoni), entrava in camera nostra per svegliarci, con bruschi richiami e scuotendoci per un braccio, poi scendeva le scale con le suole chiodate sui gradini di marmo, girava per la casa deserta (nostra madre s’ alzava alle sei, poi nostra nonna, e per ultime la cameriera e la cuoca), apriva le finestre della cucina, faceva scaldare il caffelatte per sé, la zuppa per il cane, parlava col cane, preparava le ceste da portare a San Giovanni vuote, o con dentro sacchi di semente o d’ insetticida o di concime (i rumori ci arrivavano attutiti nella semincoscienza, perché dopo la sveglia di nostro padre eravamo ripiombati di colpo nel sonno), e già apriva l’ uscio del beudo, era in strada, tossendo e scatarrando, estate e inverno. Al nostro dovere mattutino eravamo riusciti a strappare una tacita dilazione: anziché accompagnarlo finivamo per raggiungere nostro padre a San Giovanni, mezz’ ora o un’ ora dopo, cosicché i suoi passi che s’ allontanavano per la salita di San Pietro erano il segno che ancora ci restava un rottame di sonno cui aggrapparci. Ma subito veniva a darci una seconda sveglia nostra madre. Su, su, è tardi, babbo è già andato da un pezzo!, e apriva le finestre sulle palme mosse dal vento del mattino, ci tirava le coperte, Su, su, che babbo vi aspetta per portare le ceste! (No, non è la voce di mia madre che ritorna, in queste pagine risuonanti della rumorosa e lontana presenza paterna, ma un suo dominio silenzioso: la sua figura si affaccia tra queste righe, poi subito si ritrae, resta nel margine; ecco che è passata nella nostra stanza, non l’ abbiamo sentita uscire, ed il sonno è finito per sempre). Devo alzarmi in fretta, salire fino a San Giovanni prima che mio padre si sia messo sulla strada del ritorno, carico. Tornava sempre carico. Era un punto d’ onore per lui non fare mai il viaggio a mani vuote. E poiché per San Giovanni non passava la carrozzabile non c’ era altro modo di portar giù i prodotti della campagna che a forza di braccia, (di braccia nostre, perché le ore dei giornalieri costano e non si possono buttar via, e le donne quando vanno al mercato sono già cariche della roba da vendere). (C’era stato pure il tempo ma questo è un ricordo d’ infanzia più lontano del mulattiere Giuà con la moglie Bianca e la mula Bianchina, ma da un pezzo la mula Bianchina era morta, a Giuà era venuta l’ ernia, e la vecchia Bianca invece vive ancor oggi mentre scrivo). D’ ordinario era verso le nove e mezza o le dieci che mio padre faceva ritorno dalla sua gita mattutina: si sentiva il passo nel beudo, più pesante che all’ andata, un colpo alla porta di cucina (non suonava il campanello perché aveva le mani ingombre, o forse più ancora per una specie d’ imposizione, di enfasi del suo arrivare carico), e lo si vedeva entrare con un cesto infilato a ogni braccio, o una sporta, e sulle spalle uno zaino o addirittura una gerla, e la cucina era subito invasa d’ insalata e di frutta, troppa sempre per il fabbisogno dei pasti familiari (ora sto parlando dei tempi d’ abbondanza prima della guerra, prima che coltivare il podere diventasse il mezzo quasi esclusivo per procurarsi il necessario), con la disapprovazione di nostra padre, preoccupata sempre che nulla andasse sprecato, nelle cose, nel tempo, negli sforzi. (Che la vita fosse anche spreco, questo mia madre non l’ ammetteva: cioè che fosse anche passione. Perciò non usciva mai dal giardino etichettato pianta per pianta, dalla casa tappezzata di bouganvillea, dallo studio col microscopio sotto la campana di vetro e gli erbari. Senza incertezze, ordinata, trasformava le passioni in doveri e ne viveva. Ma ciò che muoveva mio padre ogni mattina su per la strada di San Giovanni e me giù per la mia via più che dovere di proprietario operoso, disinteresse d’ innovatore di metodi agricoli, e per me, più che le definizioni di doveri che via via mi sarei imposto, era passione feroce, dolore a esistere cosa se non questo poteva spingere lui a arrampicarsi per i gerbidi e i boschi e me a addentrarmi in labirinto di muri e carta scritta? confronto disperato con ciò che resta fuori di noi, spreco di sé opposto allo spreco generale del mondo). Mio padre non faceva mai risparmio di forze, ma solo di tempo: non evitava la salita più erta se era la più breve. A San Giovanni da casa nostra si poteva arrivare in molti modi a seconda di quali tratti di mulattiera e scorciatoie e ponti si sceglievano: il percorso che mio padre seguiva era certamente frutto d’ una prolungata esperienza e di miglioramenti e rettifiche successive; ma ormai era diventato come le scale di casa, un seguito di passi da compiersi a occhi chiusi, che nel pensiero occupano solo l’ intervallo d’ un secondo, come se l’ impazienza abolisse lo spazio e la fatica. Bastava pensasse: Ora vado a San Giovanni (aveva ricordato a un tratto che una fascia di topinambur non era stata irrigata, che un semenzaio di melanzane doveva già mostrare le prime foglie), e già si sentiva trasportato lì, già la sgridata ai manenti o ai giornalieri che gli ribolliva dentro prorompeva dal petto in una valanga d’ improperi a uomini e donne, dove l’ oscenità aveva perso ogni calore di complicità ed era divenuta austera e squadrata come un muro di pietra. “Prìncipi caduti in rovina” Questa impazienza, quest’ insofferenza a trovarsi altrove che nella sua campagna, lo prendeva talvolta anche a mezzo della giornata, quand’ era già disceso dalla solita ispezione mattutina a San Giovanni e s’ era cambiato con i vestiti da città, il colletto duro, il gilè con la catena d’ argento, in testa il fez rosso, comprato in Tripolitania, che teneva in casa e in ufficio per riparare la testa calva, e a un tratto, in mezzo ad altre faccende, gli veniva in mente perché sempre il pensiero che l’ occupava era quello d’ un lavoro di San Giovanni non portato a termine o non eseguito come si doveva o d’ un operario che per mancanza d’ ordini forse stava in ozio, ed ecco lo vedevamo levarsi dalla scrivania, salire in camera sua, scendere bardato di tutto punto dal casco ai gambali, slegare il cane e prendere per la porta del beudo, magari nell’ ora più calda d’ un pomeriggio estivo, guardando fisso davanti a sé, in mezzo al sole. Dal beudo si usciva nella scalinata di Salita San Pietro, a ciottoli e mattoni. Vi si incontravano i vecchi dell’ Ospizio Giovanni Marsaglia, col berretto grigio e le iniziali rosse, (tra loro, si sapeva, erano anche principi russi caduti in rovina, lord che avevano scialacquato patrimoni in Riviera), le monache e le bambine in fila delle colonie milanesi, i parenti dei malati che salivano al Nuovo Ospedale. L’ abitato di quella regione percorrevamo adesso un tratto di carrozzabile presentava sedimenti diversi: in antico come dappertutto era stata una distesa d’ orti custoditi da casolari; poi al volgere del secolo anche lì intorno era sorta qualche villa signorile con giardini sventaglianti di palme, come quella abitata da noi (primo acquisto dei miei genitori al ritorno dall’ America), e un’ altra un po’ più a monte, in stile indiano, tutta guglie e cupole fusiformi, chiamata Palais d’Agra (nome per me misterioso finché non lessi Kim di Kipling), un’ altra ancora adibita a lazzaretto civico, con le persiane sempre chiuse; in seguito le zone residenziali agiate della città si erano disposte altrove e qua s’ era stabilito un regno di villette modeste, palazzine familiari con un piccolo terreno coltivato a semenzai e col casotto del pollaio o della conigliera. Così si andava fino al ponte di Baragallo in una periferia mezzo campestre ma già presa d’ assalto dalla città, dove alle tracce della vita agricola più antica (un vecchio frantoio d’ olive, che scrosciava acqua e muschio sulle ruote arrugginite; una cantina con le tine e i torchi, violacea), si affiancavano garages, magazzeni di fioristi, segherie, depositi di mattoni, una centrale elettrica tutta vetrate che incombeva illuminata vuota e ronzante nelle mattine avanti l’ alba, e là in fondo il massiccio parallelepipedo delle case popolari, primo e unico lotto d’ un progettato villaggio, opera del Regime iniziata di slancio e rimasta senza seguito, ma sufficiente a ricordare che la civiltà delle masse già occupava l’ Europa. Al ponte di Baragallo lasciavamo la carrozzabile che continuava verso la Madonna della Costa (là passavamo soltanto quando si andava a trovare lo zio Quirino detto Titin, nella casa ottocentesca dei Calvino che affiorava col vecchio intonaco rosa dalla nuvola grigia degli olivi in cima alla collina, dove erano state le fornaci di mattoni dei miei bisavoli), e si costeggiava il torrente. Qualche cosa era cambiato all’ improvviso, e il primo segno era questo: che fino a Baragallo la gente che s’ incontrava era come sempre la gente per la strada che nemmeno ci si guarda; dopo Baragallo incontrandosi tutti si salutavano, anche tra sconosciuti, con una Bona ad alta voce o con un’ espressione generica di riconoscimento dell’ esistenza altrui come: Andamu andamu o Semu careghi, ancoei, o un commento al tempo che fa, Mi digu ch’ a va a cioeve, messaggi di riguardo e amicizia pieni di discrezione, pronunciati com’ erano senza fermarsi, quasi tra sé, alzando appena gli occhi. Anche mio padre dopo Baragallo cambiava, smetteva quell’ impazienza nervosa nel passo che aveva mostrato fin lì, quella scontentezza nello sgridare il cane, nel dargli strattoni se lo teneva alla catena; ora il suo sguardo correva attorno più sereno, il cane di solito veniva slegato, ed ammonito con parole e fischi e schiocchi più bonari e quasi affettuosi. Questo senso di ritrovarmi in luoghi più raccolti e familiari prendeva me pure, ma sentivo insieme anche il disagio di non potermi più credere il passante anonimo della carrozzabile; di qui in poi ero u fiu du prufessù sottoposto al giudizio di tutti gli occhi altrui. “Un lungo e vasto dirupo” Oltre un assito si scontravano strillando i maiali (vista insolita da noi) allevati da una famiglia di piemontesi che avevano messo su una cascina come nei paesi loro. (Già per via avevamo incontrato il carro col vecchio Spirito a cassetta che andava a consegnare i bidoni del latte ai clienti). Dall’ altro lato la strada dava sul torrente scosceso, e affacciate a una specie di parapetto-canale c’ era la fila delle donne che lavavano i panni. Più in là si poteva scegliere tra due strade, a seconda se si riattraversava o no il torrente su un antico ponte a schiena d’ asino. Non passando il ponte, si prendeva per certi tratti di beudo e scorciatoie fiancheggianti fasce coltivate, e si raggiungeva la mulattiera di San Giovanni attraverso una salita a gradini, recente di costruzione (o riattamento) che andava su così diritta ed assolata ed era erta da mozzare il fiato. (Dopo quest’ ultima guerra, una mano aveva scritto su di un muro in cima alla salita in enormi lettere di catrame una parola laida, a scherno della pazienza e del sudore di chi va su carico, forse per risvegliare un istinto di ribellione, o solo per chiedere conferma alla propria mancanza di speranze). Poi la mulattiera s’ addentrava verso San Giovanni per un bel tratto in piano; il mare, era alle nostre spalle; di là dal torrente la riva di Tasciaire era squarciata da un lungo e vasto dirupo, prodotto da un’ antica frana, azzurro nella pietra scheggiata e color terra. Da una certa svolta in poi già si vedeva in fondo alla valle aprirsi di sbieco la valletta di San Giovanni, nitida da poterla distinguere fascia per fascia dove gli olivi non annuvolavano la vista e chi vi lavorava, e il fumo dai tetti rossi dei casoni. Questo percorso era preferito per la discesa; salendo eravamo più attratti dall’ altro: passato il ponte, la salita era quella della mulattiera di Tasciaire, ripida e soleggiata anch’ essa, ma ritorta e varia, e selciata di vecchie pietre logore e sbilenche, da apparire in confronto comoda e familiare. Ci se ne distaccava a un certo punto per inoltrarsi in un lungo beudo che percorreva a mezza costa la vallata, ai piedi di quell’ enorme dirupo che si vedeva dall’ altra riva. Il beudo era sopraelevato sulle fasce e per non mettere un piede in fallo bisognava guardare bene ai propri passi e talvolta appoggiare una mano al muro storto e panciuto. Il cane di solito trovava la sua via sicura nel canaletto, zampettando nell’ acqua. Alberi di fico sporgevano qua e là dalle fasce e un’ ombra verde proteggeva il beudo; alcuni casolari ne erano proprio a ridosso e camminando quasi ci si entrava dentro, mescolandosi alle vite di quelle famiglie, tutti sul lavoro dall’ alba, donne e uomini e ragazzi a rivoltare la terra della fascia a sordi colpi di magaiu (il bidente a tre becchi), o, sempre col magaiu, facendo girar l’ acqua nel loro, cioè abbattendo i rincalzi di terra del beudo e ribadendone altri per condurre il rivolo a serpeggiare in mezzo ai semenzai. Più in là il beudo si perdeva in una macchia di canne fitte e fruscianti, ed eravamo arrivati al torrente. Occorreva guadarlo, con salti a zig-zag tra gli scogli bianchi, secondo un disegno a noi ben noto ma sempre soggetto a cambiamenti, quando le giornate piovose ingrossavano la corrente e facevano sparire qualche appoggio. Risalendo dal torrente si tagliava per passaggi privati, tra le fasce, fino a una scorciatoia che era un mezzo torrente anch’ essa, e si raggiungeva anche qui la mulattiera di San Giovanni, ma in un punto molto più avanti che per l’ altra via. Mio padre, più ci avvicinavamo a San Giovanni, più era preso da una nuova tensione, che non era solo un ultimo scatto dell’ impazienza di trovarsi nel solo luogo che sentiva suo, ma anche come il rimorso d’ esserne stato per tante ore lontano, la certezza che in quelle ore qualcosa si fosse perso e guastato, l’ urgenza di cancellare tutto quello che nella sua vita non era San Giovanni, e insieme il senso che San Giovanni, non essendo tutto il mondo ma solo un angolo del mondo assediato dal resto, sarebbe stato sempre la sua disperazione. Ma bastava che dall’ alto d’ una fascia qualcuno che poteva o che dava il solfato alle viti lo interpellasse: Prufessù, pe’ piaxè, a vureiva faghe ina dumanda, e gli chiedesse un consiglio sulle miscele dei concimi, sull’ epoca migliore per gli innesti, sugli insetticidi o le sementi nuove del consorzio agrario, e mio padre, rasserenato, calmo, esclamativo, un po’ verboso, si fermava a spiegargli il perché e il percome. Insomma, non aspettava altro che il segno che in questo suo mondo fosse possibile una convivenza civile, mossa da una passione di miglioramento, guidata da una ragione naturale; ma subito tornavano a stringerlo da vicino le prove di come tutto fosse insidiato e precario e lo riprendeva la furia. E uno di questi segni ero io, il mio appartenere all’ altra parte del mondo, metropolitana e nemica, era il dolore che questa sua ideale civiltà di San Giovanni non la si poteva fondare con i suoi figli e fosse per ciò senza un futuro. Dunque l’ ultimo tratto della strada era compiuto con una fretta ingiustificata, come il lembo della coperta da rincalzare per chiudersi dentro a San Giovanni; e così si passava un decrepito frantoio abitato da due vecchie ancora più decrepite, il ponte di cemento armato che riattraversava il torrente (qui la strada prendeva lentamente a salire), la casa del nostro parente Regin, guardia daziaria, il cui cane dall’ alto di un muro attaccava col nostro cane un interminabile litigio di balzi e latrati, (qui la salita diventava erta), la campagna d’ un altro nostro parente, Bartumelìn che aveva passato la giovinezza nel Perù (la moglie, che vedevamo risciacquare i panni nel lavatoio, era un’ india peruviana, una donna grassa in tutto simile alle nostre, nel viso e nel dialetto), (e s’ attaccava l’ ultimo tratto di salita, il più ripido), la campagna di due allampanati mulattieri che a un certo punto sostituirono il mulo con un tozzo bue da carico… Il petto di mio padre ansava non di fatica ma d’ improperi e rimproveri: eravamo arrivati a San Giovanni, ora entravamo nel nostro. “Litigio di balzi e latrati” Mi toccherebbe qui di raccontare ancora ogni passo e ogni gesto e ogni mutamento d’ umore all’ interno del podere, ma tutto ora nella memoria prende una piega più imprecisa, come se, finita la salita col suo rosario di immagini, io venissi ogni volta assorbito in una specie di limbo attonito, che durava finché non veniva l’ ora di dare mano alle ceste e riprendere la strada per tornare. Ho già detto che soprattutto in questo aiutare nostro padre a portare le ceste consisteva il nostro dovere quotidiano. Ossia, avremmo dovuto aiutarlo in tutto, per imparare come si governa una campagna, per assomigliare a lui, come è giusto che i figli assomiglino al padre, ma presto s’ era capito da una parte e dall’ altra che non avremmo imparato niente, e l’ idea di educarci all’ agricoltura era stata tacitamente dimessa, o rimandata a un’ età di nostra maggiore saggezza, come ci fosse concesso un supplemento d’ infanzia. Quindi il portare le ceste era l’ unica cosa sicura, l’ unico dovere accettato come innegabilmente necessario. Non era un compito privo, direi, d’ un suo piacere: ben bilanciato il carico, una gerla di vimini sulle spalle, un cesto infilato a un braccio meglio se l’altro braccio era sgombro, per alternare il peso mi davo alla strada a testa bassa, con una specie di furia, un po’ come mio padre; e intanto, sgravato d’ ogni dovere d’ attenzione per il mondo intorno e di scelta dei miei movimenti, impegnate tutte le energie nello sforzo di reggere il carico a buon fine e nel posare i passi lungo un percorso immutabile come un binario, la mente poteva vagare libera e protetta. Ci davamo dentro in questa mansione di camallo, con un impegno sproporzionato, io, mio fratello, e lo stesso nostro padre; perché anche per lui sembrava che non fossero più tanto l’ inventiva delle coltivazioni, l’ esperimento, il rischio ad attirarlo, di San Giovanni, quanto il trasportare e accumulare roba, questa fatica da formiche, una questione di vita o di morte (e di fatto quasi lo era: erano cominciati gli anni interminabili della guerra; la nostra famiglia, nella generale penuria, era entrata, grazie al podere di San Giovanni, in una fase d’ economia agricola indipendente o come si diceva allora autarchica), e se non c’ eravamo noi ad accompagnarlo scendeva carico in maniera esagerata come un mulo era l’immagine rituale, ostentata, forse anche per farci pesare la nostra diserzione; ma pure se lo accompagnava uno dei figli o entrambi, scendevamo tutti egualmente carichi, sbilenchi, muti, guardando terra, assorti ognuno nel proprio pensiero, impenetrabili. La nostra cupezza contrastava con la ricchezza del contenuto delle ceste. Questo era nascosto (secondo l’ abitudine contadina di gelosa diffidenza degli sguardi altrui) da uno strato di larghe foglie di vite o di fico, ma la copertura instabile col dondolio del passo si disperdeva per via e ne sporgevano le trombe verdi degli zucchini, le pere coscia di monaca, i grappoli d’uva Saint-Jeannet, i fichi fiori, la peluria dura del chayote, le spine verdiviola dei carciofi, le pannocchie di mais dulce o sweet corn da sgranocchiare bollite, le patate, i pomodori, i bottiglioni del latte e del vino, e alle volte uno stecchito coniglio già scuoiato, il tutto disposto in modo che le cose dure non ammaccassero le molli, e vi restasse il posto per il cespo d’ origano o di maggiorana o di basilico. (Insignificanti allora queste ceste ai miei occhi distratti, come sempre al giovane appaiono banali le basi materiali della vita, e invece, adesso che al loro posto c’ è soltanto un liscio foglio di carta bianca, cerco di riempirle di nomi e nomi, stiparle di vocaboli, e spendo nel ricordare e ordinare questa nomenclatura più tempo di quanto non facessi per raccogliere e ordinare le cose, più passione… non è vero: credevo mettendomi a descrivere le ceste di toccare il punto culminante del mio rimpianto, invece niente, ne è uscito un elenco freddo e previsto: invano cerco di accendergli dietro un alone di commozione con queste frasi di commento: tutto rimane come allora, quelle ceste erano già morte allora e lo sapevo, parvenza d’ una concretezza che non esisteva già più, e io ero già quello che sono, un cittadino delle città e della storia ancora senza città né storia e di ciò sofferente, un consumatore e vittima dei prodotti dell’ industria candidato consumatore, vittima appena designata , e già le sorti, tutte le sorti erano decise, le nostre e quelle generali, però cos’ era questo rovello mattutino di allora, il rovello che ancora continua in queste pagine non completamente sincere? Forse tutto avrebbe potuto essere diverso, non molto diverso ma quel tanto che conta se quelle ceste non mi fossero state già talmente estranee, se il crepaccio tra me e mio padre non fosse stato così fondo? Forse tutto quello che sta avvenendo avrebbe preso un’ altra china, nel mondo, nella storia della civiltà , le perdite non sarebbero state così assolute, i guadagni così incerti?). “Le bianche capre svizzere” La tavola dove si posava la frutta e la verdura e si riempivano le ceste da portare giù, era sotto il fico, a fianco dell’ antico casolare di Cadorso, (dove viveva la famiglia dei manenti) con ancora la traccia sbiadita, sopra la porta, del simbolo massonico che i vecchi Calvino mettevano sulle loro case. La vigna occupava la parte più bassa della campagna, con le piante da frutto tra i filari; più in su era la piantagione dei grape-fruit, e sopra ancora gli ulivi. Là, all’ ombra delle verdi alte piante degli avogado-pears o aguacate, pupilla degli occhi di mio padre, era la casa costruita da lui, la villa in cui vivemmo poi i tempi più brutti della guerra; con a pianterreno la cantina modello e la stalla per le bianche capre svizzere. La nostra proprietà s’ interrompeva sulla piazza della chiesa di San Giovanni (dove ogni 24 di giugno si drizzava l’ albero della cuccagna e suonava la banda civica) e riprendeva dopo un tratto di mulattiera, comprendendo tutta una valletta, occupata nella parte più bassa da una piantagione di foglie di palma per corone da morto, più in su tutta a verdura e frutta, col casolare detto Cason Bianco (dove tenemmo per un certo tempo le pecore), e una sorgente nascosta tra rocce verdi di capelvenere, e una caverna di tufo, e una grotta di roccia, e una peschiera, e altre meraviglie che non erano più per me meraviglie, e ora lo sono ritornate, ora che al posto di tutto questo si estende squallida geometrica e feroce una piantagione di garofani con i muri squadrati, le terrazze tutte con la stessa inclinazione, la distesa grigia degli steli nel reticolato di stecchi e fili, le opache vetrate delle serre, le vasche di cemento cilindriche, e tutto quello che c’ era prima è scomparso, tutto quello che pareva ci fosse e già non era che un’ illusione o un eccezionale rinvio. La vallata di San Giovanni, in ombra durante parte del giorno, era a quel tempo considerata inadatta alle colture industriali di fiori e perciò aveva ancora l’ aspetto antico della campagna. E così tutte le contrade attraversate dall’ itinerario mattutino di mio padre, come se egli avesse scelto apposta la sua via per fuggire le distese grigie e uniformi dei campi di garofani che ormai cingevano da Poggio a Coldirodi la città, come se lui che pure dedicava la sua attività professionale alla floricoltura ne sentisse un segreto rimorso, avvertisse che questo, da lui auspicato e aiutato, era sì un progresso economico e tecnico per la nostra agricoltura arretrata, ma anche distruzione d’ una completezza e armonia, livellamento, subordinazione al denaro. E perciò ritagliava dalle sue giornate quelle ore di San Giovanni, cercava di allestire un podere moderno che non fosse prigioniero della monocoltura, faceva spese dall’ ammortamento sempre incerto moltiplicando le coltivazioni, le varietà importate, le tubature da irrigazione, tutto per trovare un’ altra via da proporre, che salvasse lo spirito dei luoghi e insieme l’ inventiva innovatrice. Era un rapporto con la natura che voleva stabilire, di lotta, di dominio: darle addosso, modificarla, forzarla, ma sentendola sotto viva e intera. E io? Io credevo di pensare ad altro. Cos’era la natura? Erbe, piante, luoghi verdi, animali. Ci vivevo in mezzo e volevo esser altrove. Di fronte alla natura restavo indifferente, riservato, a tratti ostile. E non sapevo che stavo anch’ io cercando un rapporto, forse più fortunato di quello di mio padre, un rapporto che sarebbe stata la letteratura a darmi, restituendo significato a tutto, e d’ un tratto ogni cosa sarebbe divenuta vera e tangibile e possedibile e perfetta, ogni cosa di quel mondo ormai perduto. Dove grida mio padre di portare la manica e dar l’acqua, che c’ è tutto secco? Da una fascia viene il suono del bidente del vecchio Sciaguato che batte e ribatte nella terra. Qualcosa si muove su quegli alberi: la figlia di Mumina s’ è arrampicata per riempire un cesto di ciliege. Io accorro con la gomma arrotolata sulla spalla, ma non vedo mio padre tra i filari e sbaglio fascia. Devo portare il gancio per piegare i rami del ciliegio, la macchina del solfato, il nastro adesivo per gli innesti, ma non conosco la mia terra, mi perdo. (Ora sì, dall’ alto degli anni, vedo ogni fascia, ogni sentiero, ora potrei indicare la strada a me che corro tra i filari, ma è tardi, ormai tutti se ne sono andati). Vorrei che fossero pronte subito le ceste, per tornare a casa e andare al mare. Il mare è lì, in uno spacco triangolare della valle, a vu; ma è come se fosse miglia e miglia lontano, il mare estraneo a mio padre e a tutta la gente che si muove per le nostre strade mattutine. Ora stiamo tornando. Io cammino curvo sotto la mia gerla. Il sole è alto; dalla carrozzabile più vicina, sulla collina di San Giacomo, romba un camion; qui nella valle il grigio degli olivi e il fruscio del torrente smorzano i colori e i suoni. Sull’ altro versante sale dalla terra un fumo: qualcuno ha acceso un debbio. Mio padre dice cose sulla mignolatura degli olivi. Io non ascolto. Guardo il mare e penso che tra un’ ora sarò alla spiaggia. Alla spiaggia le ragazze lanciano palloni con le braccia lisce, si tuffano nel luccichio, gridano, schizzano, su tanti sandolini e pedalò.

( ITALO CALVINO)

 

 

 

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