un testo nominato all’inizio del discorso di Ilan Pappé:
Noam Chomsky — Ilan Pappé
pp.272
euro 16.90
Editore Ponte alle Grazie – 2023
Due fra i più attrezzati e acuti critici della politica israeliana in Palestina, lo storico israeliano Ilan Pappé e il linguista statunitense Noam Chomsky, uniscono gli sforzi con l’obiettivo di destare un numero sempre più ampio di coscienze ma anche di offrire spunti di riflessione e nuove conoscenze al lettore più esperto. Non solo è ricostruita criticamente la storia del conflitto, il cui episodio chiave – la Nakba del1948 – viene reinterpretato da Pappé come un vero e proprio caso di pulizia etnica, ma si leggono con strumenti e argomenti irreperibili sui nostri media la natura e le conseguenze degli attacchi israeliani degli ultimi quindici anni; si discute il ruolo che hanno sempre svolto gli Stati Uniti nell’avallare l’illegale politica israeliana di colonizzazione dei territori occupati; si prospettano i vari scenari di pace, a partire dalla proposta di un unico Stato binazionale avanzata fra gli altri da Pappé e, più prudentemente, dallo stesso Chomsky. Il conflitto arabo-israeliano è una miccia accesa nel cuore del Mediterraneo e coinvolge i destini del mondo. Per questo, Ultima fermata Gaza è un libro per chiunque voglia esserne informato e desideri una sua pacifica ed efficace soluzione.
ILAN PAPPE’ — DAL 1882 AD OGGI — BREVISSIMA STORIA DELCONFLITTO TRA ISRAELE E PALESTINA
Traduzione di Valentina Nicolì
biografia dell’autore ILAN PAPPE’
Ilan Pappé (Haifa, 1954). Nato da genitori ebrei sfuggiti alla persecuzione nazista, si è laureato alla Hebrew University e ha conseguito il dottorato a Oxford. Nel 2005 ha sostenuto il boicottaggio (incluso quello accademico) di Israele e per questo, dopo aver insegnato per anni a Haifa, si è dovuto trasferire in Gran Bretagna, all’Università di Exeter, dove insegna Storia all’Istituto di studi arabi e islamici. Fra le sue opere tradotte in italiano, Storia della Palestina moderna. Una terra, due popoli (Einaudi,2005), La pulizia etnica della Palestina (Fazi Editore, 2008), Israele/Palestina. La retorica della coesistenza (Nottetempo, 2011),Palestina e Israele: che fare? (Fazi Editore,2015), La prigione più grande del mondo (Fazi Editore, 2022).
Prefazione all’edizione italiana
Ho scritto questo libro dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 e l’inizio della conseguente guerra tra Israele e Gaza, ancora in corso mentre scrivo. In definitiva, ho cercato di contestualizzare il 7 ottobre e ciò che è seguito all’interno della storia del conflitto e di fare una valutazione di ciò che sia Hamas sia Israele volevano ottenere con le loro azioni.
Ma, da quando ho terminato il libro, mi sono reso conto che ci stiamo avvicinando a una nuova fase nella storia del conflitto, che si chiarirà solo nel futuro. Prima del 7 ottobre, le fondamenta di Israele erano piene di crepe. Quando Hamas ha violato i confini nelle prime ore di quella mattina, lanciando l’attacco più mortale della sua storia sul suolo israeliano, queste crepe si sono squarciate, mettendo in luce tutte le vulnerabilità dello Stato. Queste spaccature, a mio avviso, mettono in pericolo il futuro stesso di Israele come Stato sionista. Credo che siamo all’inizio della fine del progetto sionista in Palestina. Vorrei delineare le crisi che Israele si trova ad affrontare oggi.
La prima minaccia alla coesione dello Stato è che in patria la società ebraica israeliana sta implodendo. L’ho inquadrata come una battaglia tra lo Stato di Giudea – quelli che vogliono che Israele sia uno Stato teocratico e che espanda gli insediamenti – e lo Stato di Israele, ossia coloro che sono orgogliosi del fatto che Israele sia «l’unica democrazia del Medio Oriente», come recita lo slogan laico e pluralista, anche se ciò è valso sempre e soltanto per i cittadini ebrei. Nove mesi dopo, è sempre più evidente che lo Stato di Giudea sta divorando lo Stato di Israele. Nel momento in cui scrivo, il governo israeliano sta prendendo delle misure per vietare in modo permanente Al Jazeera, inasprendo così l’attuale divieto “temporaneo” previsto dalle leggi di emergenza. La lotta tra i due campi in Israele è destinata a diventare sempre più violenta: non è allarmistico contemplare l’ipotesi di una guerra civile. Se lo Stato di Giudea dovesse uscire vittorioso e determinare il corso futuro di Israele, ciò rafforzerebbe l’isolamento internazionale degli israeliani.
Questo ci porta alla seconda crepa: Israele è sulla buona strada per diventare uno Stato paria ( 1 nota ) e, da quando questo libro è stato dato alle stampe, segue questa direzione più velocemente che mai. Un numero sempre maggiore di istituzioni accademiche e culturali di tutto il mondo si rifiuta di collaborare con istituzioni e individui israeliani, soprattutto dopo il bombardamento genocida di Gaza. Aumentano anche le richieste di disinvestimento dalle società israeliane. Finora il Fondo sovrano irlandese ha ritirato i suoi investimenti da sei società israeliane. Il movimento Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) finora non è riuscito a convincere i governi a imporre sanzioni a Israele. Ma ha avuto molto successo nella società civile di tutto il mondo.
Il mutato atteggiamento della società civile globale probabilmente ha contribuito a un evento storico, nei primi mesi del 2024. A gennaio, la Corte internazionale di giustizia ha ordinato a Israele di adottare misure immediate per proteggere i palestinesi di Gaza dal rischio di genocidio.
Inoltre, nel maggio del 2024, la Corte penale internazionale ha emesso mandati di arresto nei confronti di Benjamin Netanyahu e del ministro della Difesa Yoav Gallant. Per la prima volta nella sua storia, Israele si trova di fronte alla scomoda prospettiva di dover rispondere delle sue azioni sulla scena internazionale. La sua reazione, compresa l’accusa di antisemitismo rivolta alla Corte internazionale di giustizia, dimostra quanto cresca il divario tra il modo in cui Israele percepisce se stesso e la sua percezione presso l’opinione pubblica internazionale.
La terza crepa nelle fondamenta di Israele è che i giovani ebrei di tutto il mondo si sentono estranei al progetto sionista: non credono più al mito sionista secondo cui Israele è la casa di tutti gli ebrei, dovunque si trovino. Meno della metà degli ebrei americani di età compresa tra i 18 e i 34 anni ha un’opinione sfavorevole del governo israeliano, un dato particolarmente significativo dato che gli Stati Uniti sono una roccaforte storica delle attività sioniste di lobby. Non si tratta solo del fatto che i giovani ebrei si identificano poco o sentono scarsa affinità con Israele: una cospicua minoranza è attivamente antisionista ed è coinvolta nel movimento di solidarietà con la Palestina. In tanti non vogliono più che l’identità ebraica sia legata a uno Stato che ai loro occhi compie impunemente atti criminali. Senza una base ebraica globale, la lobby filoisraeliana sarà fortemente indebolita, il che potrebbe indurre i governi a contemplare un cambio di rotta politico nei confronti di Israele.
La quarta crepa emersa con il 7 ottobre è che l’esercito israeliano non può difendere i civili quanto gli israeliani si aspettano. Sono passate sei ore tra l’ingresso dei militanti di Hamas in Israele e l’annuncio dell’esercito israeliano di aver inviato truppe e riservisti nel Sud di Israele.
Nel kibbutz Nir Oz l’esercito è arrivato solo dopo che i combattenti di Hamas se ne erano già andati. I cittadini israeliani hanno ragione a essere preoccupati per come Israele affronterà le future guerre nella regione, quando dovrà vedersela non soltanto con un piccolo movimento di guerriglia come Hamas, ma anche con paramilitari ben organizzati come Hezbollah ed eserciti regionali. Prima del 7 ottobre gli israeliani erano certi di essere protetti dall’esercito più forte del Medio Oriente. Adesso non ne sono più tanto sicuri.
La quinta crisi è che il governo non opera più bene. Gli israeliani che sono stati costretti a evacuare dal Sud e dal Nord del paese (per il rischio di attacchi di Hamas a sud e di Hezbollah a nord) si sono resi conto che lo Stato non aveva un programma per le fasi successive. Ospitati negli alberghi per oltre sei mesi nell’ambito del piano di evacuazione del governo, gli sfollati israeliani non sanno quando potranno tornare nelle proprie case. Questo non è solo un problema temporaneo, come gli israeliani sanno, ma rivela fragilità infrastrutturali più ampie.
Il responsabile dell’energia israeliana ha dichiarato che, in caso di danni alla rete elettrica del paese in tempo di guerra, lo Stato cesserà di funzionare dopo 72 ore. È solo un esempio di disfunzione del governo. Nel giugno del 2024, Hezbollah ha inviato un drone che è riuscito a filmare tutti gli impianti energetici nella baia di Haifa, tra cui pericolosi stabilimenti petrolchimici.
Interpellato sulla questione, il sindaco di Haifa ha dichiarato alla stampa che il governo non ha previsto alcun piano per proteggere queste strutture da eventuali attacchi. Di fatto, lo Stato israeliano sta creando una situazione in cui si trova ad affrontare il rischio permanente di una guerra, ma è assolutamente impreparato a garantire i servizi essenziali se sottoposto a una qualche pressione, figuriamoci nel caos totale di una guerra.
Ma il crollo definitivo delle fondamenta israeliane non si trova in Israele, bensì in Palestina. In particolare, all’interno della generazione palestinese più giovane che deciderà il futuro della lotta per la liberazione. Se attualmente la classe politica palestinese soffre di disunità e frammentazione, la generazione più giovane percepisce molto di più l’importanza dell’unità e di un programma condiviso.
(1) nota- STATO PARIA
pària s. m. [dall’ingl. pariah (o paria), che è dal tamil paṛaiyan (propr. «tamburini», der. di paṛai «tamburo»)], invar. – 1. Nome con cui nell’uso europeo sono indicati gli individui appartenenti alle classi sociali più basse dell’India, detti anche intoccabili. Per estens., persona di condizione sociale molto bassa, che è o si sente emarginata, oppressa e spregiata: i p. della società; essere trattato come un paria ( Treccani )
stato paria —La Russia di Putin sarà condannata come uno «Stato-paria». Lo ha detto il premier britannico, Boris Johnson, in questi giorni drammatici di guerra. Ma cosa significa? Parlando di uno Stato-paria, Johnson vuole riferirsi a una nazione che non è riconosciuta dalla maggioranza dei governi di tutto il mondo a causa dei suoi comportamenti inaccettabili: violazione dei diritti umani o dei trattati nucleari, invasione di altri stati sovrani e sostegno del terrorismo. Eppure è un termine che non esiste nel diritto internazionale. Cuba è stato identificato come stato paria e anche l’Iraq di Saddam Hussein ( https://video.corriere.it/ )
UN BRANO TAGLIATO
DALL’ INTRODUZIONE — IL LINK E’ LO STESSO
Introduzione
Dal 7 ottobre 2023, da quando Hamas ha fatto irruzione in Israele con l’operazione “Alluvione al-Aqsa”, gli occhi del mondo sono puntati su un paese sul quale non sembra trovarsi accordo alcuno, nemmeno sul nome. Gli israeliani chiamano questa terra Eretz Israel. I palestinesi la chiamano Palestina. Il 7 ottobre, 1200 israeliani – la maggior parte dei quali civili – hanno perso la vita e 240 sono stati presi in ostaggio, e molti di questi non sono ancora tornati a casa.
La punizione di Israele è arrivata con l’operazione “Spade di Ferro”, che ha ucciso finora oltre 30.000 palestinesi, di cui un terzo bambini. Quella che segue è una breve storia di come si sia arrivati a questo, per chi osserva questo conflitto per la prima volta e per chi da molti anni è impegnato attivamente per la pace e la giustizia nella regione.
Il conflitto non è cominciato il 7 ottobre. Il segretario generale dell’ONU António Guterres, nel condannare gli orrori perpetrati da Hamas, ha ricordato al mondo che i palestinesi sono soggetti a «una soffocante occupazione che dura da cinquantasei anni», ossia dalla vittoria di Israele nella guerra dei Sei giorni del 1967.
Ma le radici sono molto più profonde, risalgono ancora più indietro nel tempo rispetto alla fondazione dello Stato di Israele nel 1948. I suoi inizi possono essere rintracciati alla fine dell’Ottocento. Questa ricostruzione storica, come qualsiasi altra cosa, è oggetto di controversia, oscurata da potenti interessi politici e dalla polarizzazione da entrambe le parti. Ma io sono uno storico, e ricostruire il contesto non equivale a trovare delle scuse.
Partendo dall’arrivo dei primi coloni ebrei nella Palestina storica fino ai giorni nostri, il mio intento è fare luce sui principali eventi, sui protagonisti e sui processi al fine di spiegare come mai questo conflitto sia diventato tanto insolubile. Non ho la pretesa di essere esaustivo: esiste una vasta letteratura che copre un arco di tempo pluridecennale per chi è interessato ad approfondire la questione. Ma credo che chiunque si opponga all’oppressione e all’ingiustizia possa comprendere i nodi basilari di quello che oggi è noto come “il conflitto israelo-palestinese”. Questo libro è il mio tentativo di renderlo intellegibile.
( finisce la disponibilità dell’editore a mettere a disposizione delle pagine in anteprima )
Penso che si stia cominciando a capire la verità sullo Stato di Israele.