PAOLO MARTORE, Restituire o cosa? I bronzi del Benin, una case history -Alias Domenica. IL MANIFESTO  10 APRILE 2022

 

 

 

**** case history— è la storia di un prodotto che ha avuto successo, è linguaggio di marketing

 

 

IL MANIFESTO  10 APRILE 2022
https://ilmanifesto.it/restituire-o-cosa-i-bronzi-del-benin-una-case-history

 

Restituire o cosa? I bronzi del Benin, una case history

 

The Brutish Museums: The Benin Bronzes, Colonial Violence and Cultural Restitution - Dan Hicks - cover

2021

 

Editoria Inghilterra: Dan Hicks, “The Brutish Museums. The Benin Bronzes, Colonial Violence and Cultural Restitution”, Pluto Press. Il saccheggio britannico, 1897, dei raffinatissimi manufatti del Regno Edo, e la musealizzazione che ne seguì, letti alla luce dell’attuale controversia su musei e colonialismo, sul sul destino dell’arte etnografica.

Restituire o cosa? I bronzi del Benin, una case history

Una delle placche in bronzo del Benin trafugate dagli inglesi nel 1897, metà XVI – XVII secolo, Dallas Museum of Art

 

 

 

 

 

 

I bronzi Edo a terra nei giorni della «spedizione punitiva» inglese contro il Benin, febbraio 1897, foto di Reginald Granville

 

Nel 1897 un battaglione di truppe britanniche agli ordini dell’ammiraglio Harry Rawson invase la città di Edo, oggi Benin City. L’operazione militare sancì la fine del grande Regno Edo, sull’area dell’attuale Nigeria, che venne smembrato in piccoli stati poi inglobati nella regione coloniale della British West Africa.

Prima di radere al suolo il palazzo reale, i soldati lo saccheggiarono prelevando un’ingente quantità di splendidi manufatti in avorio, ottone, ferro e bronzo. Una parte di questo bottino, ora convenzionalmente noto come «i bronzi del Benin», venne quindi trasferita al British Museum; un’altra, più cospicua, restò ai militari oppure fu venduta e dunque dispersa.

Oggi i bronzi del Benin si trovano disseminati in un numero imprecisato di collezioni private e in vari musei occidentali, dove spesso sono giunti casualmente per vie tortuose; tra questi, l’Ethnologisches di Berlino,il Weltmuseum di Vienna, il Pitt Rivers di Oxford, il MARKK di Amburgo e il Metropolitan di New York.

 

In The Brutish Museums The Benin Bronzes, Colonial Violence and Cultural Restitution (Pluto Press, pp. 368, £ 20,00) Dan Hicks, archeologo e curatore del Pitt Rivers ( Oxdord ), racconta le vicissitudini dei manufatti Edo riallacciandosi al controverso tema delle restituzioni di beni culturali ai propri Paesi d’origine.

Hicks smonta con acribia ( = rigore metodologico/ pignoleria ) la narrazione un tempo sostenuta dalle fonti ufficiali secondo cui la spedizione del 1897 sarebbe stata una rappresaglia all’aggressione subita da una delegazione britannica, e ricorda che per offuscare la gratuita prepotenza dell’intervento si fece pretestuosamente leva sull’obbligo morale di sradicare l’usanza locale dei sacrifici umani. Di conseguenza, la razzia venne giustificata in quanto indennizzo delle spese di guerra e presentata come azione di salvaguardia condotta in nome dell’umanità, ovvero un «effetto collaterale» che in definitiva permise al pubblico di Sua Maestà la Regina Vittoria di scoprire l’estetica di un popolo esotico.

In realtà, come appurato dagli storici, l’intervento rientrava in un piano espansionistico nell’ambito del confronto tra le potenze europee per il dominio del continente africano: una guerra mondiale ante litteram che si protrasse ininterrotta per tre decenni, dalla Conferenza di Berlino fino al 1914. La spedizione punitiva del 1897 fu un’invasione accuratamente premeditata in cui «si spacciò uno stupro per un salvataggio» (John Boardman).

Soddisfatte le pretese economiche dei militari, l’esposizione dei bronzi in spazi deputati servì innanzitutto a celebrare la grandezza dell’impero britannico, esportatore di civiltà, cristianità e capitalismo, illustrando l’inferiorità razziale degli africani. In questo senso il museo assolse perfettamente la sua funzione fondamentale di dispositivo ideologico. Cambiato ormai lo scenario geopolitico, i musei devono oggi rispondere a richieste profondamente diverse e perciò tendono a ridiscutere i propri trascorsi colonialisti, passando da una posizione di orgogliosa rappresentanza del potere a una di contrita autodenuncia.

Seguendo questo solco di pensiero, Hicks si augura che il museo possa diventare uno spazio antirazzista dove tracciare collegamenti tra l’oppressione storica e le ingiustizie odierne. A tal fine sottolinea la necessità di riconoscere e stigmatizzare la violenza originaria, perché altrimenti non si fa che prolungare quella stessa violenza commemorando un crimine; il che vale in particolare ma non esclusivamente per i musei etno-antropologici.

L’unica soluzione sarebbe in pratica restituire tutto e avviare in questo modo un processo di risarcimento che consenta ai Paesi ex-colonie di interrogare la propria eredità culturale. Il problema è tanto più urgente nel caso dei bronzi del Benin, il cui ritorno è invocato da decenni dai nigeriani; e difatti la Germania ha recentemente mosso passi concreti verso la restituzione di oggetti finora nelle sue collezioni.

Tuttavia, così come negli ultimi anni si sono moltiplicati i fautori del rimpatrio, si è anche consolidato un fronte di scettici che vede nell’idea di decolonizzazione dei musei un disegno anti-intellettuale nocivo per il ruolo delle istituzioni museali.

Ad esempio, Tristram Hunt, direttore del V&A  ( = Victoria and Albert Museum, Londra ) e già parlamentare del partito laburista, ha affermato i che musei hanno il compito di mediare tra «nostalgia imperialista» e «politica identitaria», e pertanto bisogna biasimare chi assimila lo smantellamento delle collezioni pubbliche a una rivalsa contro il patriarcato, il razzismo e l’iniquità sociale.

Nel controbattere questo genere di convinzione, Hicks esamina la Declaration on the importance and value of universal museums ( Dichiarazione sull’importanza e il valore dei musei universali ), un documento pubblicato nel 2002 e sottoscritto da diciotto importanti enti culturali – incluso l’Opificio delle Pietre Dure– che in nome di un’idea universale di museo contestava il rimpatrio appellandosi all’argomento relativista delle circostanze storiche in cui le acquisizioni sono avvenute.

Anziché arrischiarsi in riflessioni filosofiche, Hicks preferisce rispondere ponendo la questione sul piano etico-pragmatico e chiedersi come sia possibile considerare «universali» istituti ubicati in larga prevalenza nelle nazioni più ricche del pianeta che per missione mostrano oggetti sottratti con la forza o l’inganno.

Per l’autore, la tesi secondo cui a Londra, Parigi, New York e Berlino gli oggetti sarebbero in qualche modo più tutelati che a Lagos, Nairobi o Kinshasa è smentita dal fatto «che attualmente i curatori di questi presunti ricoveri sicuri del patrimonio universale non sanno neanche cosa c’è in collezione».

Non è infrequente, infatti, che nei depositi dei grandi musei si trovino stipati alla rinfusa oggetti sommariamente catalogati dei quali non si è nemmeno grado di indicare con certezza la provenienza; mentre scarseggiano sempre le risorse per svolgere le opportune ricerche su origini e natura degli manufatti.

In ogni caso, i curatori non dovrebbero limitarsi ad accertare la provenienza del singolo oggetto, bensì ricostruire senza edulcorarla la sua storia. Hicks propone infatti un approccio «necrologico»: «capire cosa è stato preso e da chi, e facilitarne il ritorno laddove richiesto». Lo scopo non è solo fare ammenda per i torti del passato, ma portare il pubblico a una migliore comprensione dei fatti.

Fatta salva la buona fede, va comunque osservato che in linea teorica la proposta di Hicks si configura come ennesima istanza dell’utopia politicamente corretta del «riparare» alla malvagità collettiva di ieri (verso gli Edo, o gli indiani d’America, o gli immigrati cinesi, ecc.) attraverso indennizzi o provvedimenti giuridici. Purtroppo, l’idea che un ordine giuridico possa fare ammenda per i suoi crimini fondatori e lavarsi così retroattivamente delle proprie colpe ritrovando l’innocenza perduta è illusoria. Senza contare che nell’era della dematerializzazione la tardiva restituzione di beni culturali giacenti nei depositi potrebbe benissimo sembrare un’astuta manovra di decluttering, “ eliminazione degli ingombri “, nonché prefigurare – e Hicks dimostra di esserne consapevole – il conseguimento di un nuovo e più brutale ordine imperialista, in cui l’oppressore dopo aver lucrato sulla rapina specula sulla restituzione della refurtiva.

 

 

 

NOTA :

OPIFICIO DELLE PIETRE DURE

 

L’Opificio delle pietre dure ha sede a Firenze in Via degli Alfani, 78 ed è un istituto centrale dipendente dalla Direzione generale educazione e ricerca del Ministero della cultura. L’attività operativa e di ricerca dell’Opificio si esplica nel campo del restauro, della manutenzione delle opere d’arte e dell’insegnamento del restauro. Il diploma che rilascia l’Opificio è equiparato al diploma di laurea magistrale.

L’Opificio è, assieme all’Istituto centrale per il restauro e all’Istituto centrale per la patologia degli archivi e del libro, uno degli istituti più importanti e rinomati nel campo del restauro non solo a livello nazionale, ma anche internazionale.

Nel 1975 con la legge istitutiva del Ministero per i beni culturali e ambientali tutti i laboratori di restauro fiorentini (l’antico Opificio delle pietre dure ed i laboratori di restauro fiorentini) vennero riuniti sotto il nome e l’egida dell’Opificio delle pietre dure, grazie all status di autonomia di cui l’antica istituzione già godeva.

Il primo nome, “Opificio delle pietre dure”, risale direttamente ad una delle antiche manifatture artigianali e artistiche di epoca granducale a Firenze, istituito nel 1588 nell’ex-monastero di San Niccolò di Cafaggio dal granduca Ferdinando I de’ Medici come manifattura di opere in pietre dure, la cosiddetta arte del “commesso fiorentino“, con la quale si realizzano tuttora splendidi intarsi con pietre semipreziose. In particolare il granduca aveva bisogno di formare le maestranze necessarie per realizzare la grande cappella dei Principi in San Lorenzo, coperta di marmi intarsiati. Esistevano già tuttavia maestranze deputate a tale attività almeno nei laboratori creati da Francesco I de’ Medici nel Casino di San Marco, dai quali si originò poi l’Opificio.

 

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Il laboratorio della Fortezza da Basso
Cecilia Frosinini at it.wikipedia

 

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Interno del museo
I, Sailko

 

 

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Opificio_delle_pietre_dure,_ingresso
Sailko – Opera propria

 

 

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Ritrattro di Cosimo I de’ Medici in pietre dure, su disegno di Francesco Ferrucci, 1598

 

 

 

 

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Mosaico con vaso di fiori, 1650
Maestro italiano sconosciuto

 

 

La storia dell’opificio è più lunga, continua nel link:
https://it.wikipedia.org/wiki/Opificio_delle_pietre_dure

 

 

  1. video, 5 min. ca —

Opificio delle Pietre Dure: Presentazione della Soprintendente
Emanuela Daffra — luglio 2023

https://opificiodellepietredure.cultura.gov.it/istituto/#sezione-video

 

 

 

 

2. Jago,  uno scultore, ci mostra la cappella San Severo
video, dopo lo scritto

 

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Fotografia della Cappella dall’alto
David Sivyer – https://www.flickr.com/photos/argyle64/15227809862/

 

 

 

«… la Cappella dei Sangro, ricolma di barocche e stupefacenti opere d’arte …»

La Cappella Sansevero (detta anche chiesa di Santa Maria della Pietà o Pietatella) è tra i più importanti musei di Napoli. Situata nelle vicinanze della piazza San Domenico Maggiore, questa chiesa, oggi sconsacrata, è attigua al palazzo di famiglia dei principi di Sansevero, da questo separata da un vicolo una volta sormontato da un ponte sospeso che consentiva ai membri della famiglia di accedere privatamente al luogo di culto.

Il Cristo velato di Giuseppe Sanmartino

La Pudicizia di Antonio Corradini

il Disinganno di Francesco Queirolo

e le macchine anatomiche, due corpi totalmente scarnificati dove è possibile osservare, in modo molto dettagliato, l’intero sistema circolatorio.

Luogo di culto, il mausoleo è soprattutto un tempio massonico carico di simbologie, che riflette il genio e il carisma di Raimondo di Sangro, settimo principe di Sansevero, committente e allo stesso tempo ideatore dell’apparato artistico settecentesco della cappella

La cappella è stata iniziata nel 1593 e terminata nel 1766

video, 13 min. ca

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1 risposta a PAOLO MARTORE, Restituire o cosa? I bronzi del Benin, una case history -Alias Domenica. IL MANIFESTO  10 APRILE 2022

  1. DONATELLA scrive:

    Mi sembra molto chiara la spiegazione di questa famosissima opera, “Il Cristo velato”, da parte del giovane scultore.

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