FRANCESCO GUCCINI ( che l’ha composta ) & ENZO JANNACCI cantano L’AVVELENATA — + testo + altro + altro

 

 

 

 

 

 

TESTO

Ma s’ io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto, le attuali conclusioni
credete che per questi quattro soldi, questa gloria da stronzi, avrei scritto canzoni;
va beh, lo ammetto che mi son sbagliato e accetto il “crucifige” e così sia,
chiedo tempo, son della razza mia, per quanto grande sia, il primo che ha studiato…

Mio padre in fondo aveva anche ragione a dir che la pensione è davvero importante,
mia madre non aveva poi sbagliato a dir che un laureato conta più d’ un cantante:
giovane e ingenuo io ho perso la testa, sian stati i libri o il mio provincialismo,
e un cazzo in culo e accuse d’ arrivismo, dubbi di qualunquismo, son quello che mi resta…

Voi critici, voi personaggi austeri, militanti severi, chiedo scusa a vossìa,
però non ho mai detto che a canzoni si fan rivoluzioni, si possa far poesia;
io canto quando posso, come posso, quando ne ho voglia senza applausi o fischi:
vendere o no non passa fra i miei rischi, non comprate i miei dischi e sputatemi addosso…

Secondo voi ma a me cosa mi frega di assumermi la bega di star quassù a cantare,
godo molto di più nell’ ubriacarmi oppure a masturbarmi o, al limite, a scopare…
se son d’ umore nero allora scrivo frugando dentro alle nostre miserie:
di solito ho da far cose più serie, costruire su macerie o mantenermi vivo…

Io tutto, io niente, io stronzo, io ubriacone, io poeta, io buffone, io anarchico, io fascista,
io ricco, io senza soldi, io radicale, io diverso ed io uguale, negro, ebreo, comunista!
Io frocio, io perchè canto so imbarcare, io falso, io vero, io genio, io cretino,
io solo qui alle quattro del mattino, l’angoscia e un po’ di vino, voglia di bestemmiare!

Secondo voi ma chi me lo fa fare di stare ad ascoltare chiunque ha un tiramento?
Ovvio, il medico dice “sei depresso”, nemmeno dentro al cesso possiedo un mio momento.
Ed io che ho sempre detto che era un gioco sapere usare o no ad un certo metro:
compagni il gioco si fa peso e tetro, comprate il mio didietro, io lo vendo per poco!

Colleghi cantautori, eletta schiera, che si vende alla sera per un po’ di milioni,
voi che siete capaci fate bene a aver le tasche piene e non solo i coglioni…
Che cosa posso dirvi? Andate e fate, tanto ci sarà sempre, lo sapete,
un musico fallito, un pio, un teorete, un Bertoncelli o un prete a sparare cazzate!

Ma s’ io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto, forse farei lo stesso,
mi piace far canzoni e bere vino, mi piace far casino, poi sono nato fesso
e quindi tiro avanti e non mi svesto dei panni che son solito portare:
ho tante cose ancora da raccontare per chi vuole ascoltare e a culo tutto il resto!

 

 

 

TESTO DA ROCKIT

https://www.rockit.it/francescoguccini/canzone/lavvelenata/125693

 

 

video, 9. 18 min. Riccardo Bertocelli racconta la storia de  ” L’Avvelenata “

+++ mi sembra più simpatico lo scritto, se proprio siete curiosi di quei tempi, subito sotto il video: da Gong / Cuore / Linus

 

 

 

ciao 2001, riviste italiane

sarà Riccardo Bertoncelli da giovane ?–mah ..sembra strano visto com’è sotto..

 

 

 

Riccardo Bertoncelli (Novara21 marzo 1952) è un giornalistacritico musicale e conduttore radiofonico italiano, tra i primi a occuparsi attivamente di rock in Italia. Ha poi svolto l’attività di traduttore per diverse case editrici di settore.

La sua prima fanzine ciclostilata si chiamava Freak, alla quale seguirono la temporanea collaborazione per le riviste Muzak e Gong, della quale fu uno dei fondatori. Il suo Pop Story è considerato tra le prime produzioni editoriali di rilievo della critica musicale rock italiana.

Riccardo Bertoncelli, docente di teoria e tecnica dell’editoria musicale al Master in Comunicazione Musicale della  Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Cattolica di Milano. Tra le sue collaborazioni più recenti vi sono anche la conduzione ai microfoni della Radio Svizzera Italiana (Rete Due) della trasmissione Birdland, dedicata al jazz, e articoli sulle pubblicazioni la Repubblica XLMusica JazzBlow UpAudioReview.

da : Wikipedia

 

 

 

 

La vera storia dell’Avvelenata raccontata da Bertoncelli  – link

 

Questa è la più bella, e giuro che è autentica. Sono più di vent’anni fa, io devo partire militare e aspetto la cartolina da un giorno all’altro. Sono curioso e anche vagamente terrorizzato di finire in qualche buco sperduto d’Italia (ci finirò). Un mattino, finalmente, il postino suona alla porta per la fatidica chiamata. Gli apro, capisco al volo e allungo la mano rassegnato, come a dire «su, dai, qua la roba, facciamola finita subito». Eh no, troppo facile. Lui mi squadra, si rigira la cartolina fra le mani, mi squadra ancora e poi mi ficca addosso lo sguardo più curioso che ha. «Scusi eh, scusi se mi permetto… Ma lei è quel Bertoncelli che… quello della canzone, come si chiama, quella canzone di Guccini che ho sentito anche ieri alla radio». Io ho i nervi in fiamme e la salivazione azzerata e con un soffio di voce, ma forse è un rantolo, gli rispondo «sì, sono io, sono io», così la smette e molla ‘sto czzz di avviso. Macché. Lui prende la cartolina, la posa sul mucchio della posta e con le braccia conserte, tutto cinguettante, mi fa: «Ma dai, ma veramente? Perché sa, io sono un patito del Guccini, ci ho tutti i suoi dischi, tutti eh, anche quello con La Genesi, come si chiama, che mi piace tanto, come si chiama quel disco?» «Si chiama Opera buffa», sussurro io esanime, adesso me la da la cartolina? «Ma allora lei conoscerà il Guccini, se l’ha citata nella canzone lei lo conosce di certo… E com’è il Guccini dal vero, eh, com’è?»

Andò avanti così dieci minuti, io ero da unità coronarica mobile e lui impassibile mi citava quelle canzoni «troppo forti, quella dell’isola sconosciuta, là, no anzi, l’isola non trovata. Troppo forte»: e solo alla fine di quel tormento, dopo dieci minuti da fachiro o giù di lì, mi allungò quel czzz di cartolina staffilandomi un ultimo «ma guarda un po’, chi l’avrebbe mai detto. Mi saluti il Guccini se lo vede», e io lessi Macomer, Sardegna, uauh, e poi non ricordo più molto, devo essere svenuto. Nel mio deliquio mi parve di sentire la voce del Guccini: ma non cantava, no, rideva solo, faceva «Ah ah ah». Vendetta, ma certo. Una sua sottile, trasversale, paradossale vendetta.1357_riccardo-bertoncelli

 

Ma vendetta di che? Qui devo fare un altro passo indietro e tornare a due anni prima di quella simpatica mattina e del mio esilio a Macomer, anzi, a Fort Apache, come nella mitologia era conosciuta quella caserma (Fabio Concato ne sa qualcosa, venne deportato lì anche lui in quel periodo a scontare tutti in anticipo i suoi peccati musicali). Dunque, 1975. Io sono un giovane collaboratore di «Gong», la più tendenziosa rivista di tendenza musicale dell’epoca, e un giorno mi affidano la recensione del disco nuovo di Guccini, «Stanze di vita quotidiana». Io di solito tratto altro, rock d’avanguardia o jazz improvvisato, e i cantautori non son proprio nel mio cuore; ma per Guccini, su, dai, faccio volentieri un’eccezione. Conosco le sue canzoni dall’epoca di «Folk Beat», anzi, da prima ancora, da «Per quando noi non ci saremo» dei Nomadi, colorata reliquia beat apribile che conservo ancora (pagata un occhio della testa lire 3200 dell’aprile 1967). All’epoca mi piacevano le sue visioni italico-beat, in tono con certe poesie scritte per il cassetto dei miei quindici anni, ma più avanti apprezzerò anche cose completamente diverse: Il compleanno per esempio, quella crudele storia da film di Pupi Avati sul secondo album, o Asia, sull’«Isola non trovata», oppure Incontro, il pezzo con cui apre «Radici».

 

Ecco, Radici è un disco che mi ha intrigato: e non tanto per La locomotiva, inno troppo facile e simil-peronista, ma per il clima in generale e per il linguaggio, aulico e controcorrente, che in quella mia gassmaniana stagione me fa impazzì. Quelle «stoviglie color nostalgia», quei metri gozzanian-pascoliani per me sono una libidine. Io adoro il Pascoli, quando sono in vena c’è chi ama farsi una pista di coca e io invece apro i Poemi conviviali e declamo, mi piace declamare («Sòlon, dicesti un giorno tu: beat o/ chi ama, chi cavalli ha solidunghi/ Cani da preda, un ospite lontano»): e non immaginate il gusto, il piacere, la complicità quando il Guccini incise Amerigo, quella bella canzone sul suo avo emigrato, e il tempo di un verso («e dire ‘bos’ per capo, ‘ton’ per tonnellata, ‘raif’ per fucile») mi si stagliò subito innanzi l’originale pascoliano a cui s’era ispirato – «Italy», massì, quel favoloso mosaico anglo-broccolino che dovrebbero far studiare a scuola, anziché perder tempo con le cavalle storne e le querce cadute – «Poor Molly! Qui non trovi il pai con fleva».

 

Ma, eccoci al punto, in Stanze di vita quotidiana quel clima e quel dolce gas poetico erano svaniti. Forse ero io che avevo il naso chiuso ma tirava un’altra aria che mi sembrava più triste, stanca, apatica. Facevo fatica a trovare canzoni belle (in realtà solo una, e ancor oggi la penso così: Canzone delle situazioni differenti) e soprattutto mi dava fastidio la rassegnazione che aleggiava in molti testi e fin da subito, nella Canzone delle osterie di fuori porta. Mi indignava in particolare quel verso, «stare a letto il giorno dopo è forse l’unica mia meta». Ma come, proprio in quegli anni, con tutto quello che fuori accadeva! In realtà, a considerar le cose a mente fredda, quel brano e un po’ tutto il disco erano una specie di «Guccini contro Guccini», l’addio alle speranze e ai ricordi di un periodo che si chiudeva senza che nulla di preciso si fosse ancora annunciato. Non per niente il tempo avrebbe rimarcato questa vena di passaggio dell’album, che sta fra Radici e Via Paolo Fabbri come un vaso di coccio tra due otri di ferro. Certo con il senno di poi viene facile dirlo, ma anche senza avrei dovuto meditare, distinguere, dar la tara, insomma, per usare una parolaccia, sforzarmi di capire. Ma ero un piccolo ayatollah che amava usare scudiscio e scimitarra e così scrissi la recensione che segue. La rileggo oggi dopo tanti anni e, beh, insomma, me la ricordavo più soft.

 

«Non intendo discutere le scelte di vita del Francesco. Vino + intimismo + lezioni d’italiano + vita provinciale è una somma che non comprendo nel momento stesso in cui non è la mia: e il raccontare che ‘stare a letto il giorno dopo è forse l’unica mia meta’, come insegna Canzone delle osterie di fuori porta, non mi fa nemmeno rabbia, tanto è personale e piena di pudori l’occhiata all’esistenza che ognuno di noi deve dare. Quello che intendo dire è che non capisco perché Guccini continui a far canzoni: dato che i primi tre album erano il fischio ingenuo a speranze e illusioni di un ’67-’68 effimero come i propri vent’anni e Radici era l’amarcord inevitabile che getta fuori ciò che è rimasto e poi più niente, perché lasciarsi irretire da una ruota come quella del bisogno discografico che rende impossibile l’abbandono del Francesco Guccini-trentamila-copie-per-LP?

 

«Buona parte della tristezza sciorinata lungo queste Stanze (tristezza feroce, impietosa, senza deroghe o pentimenti) credo vada a parare all’angolo del ruolo che l’uomo sa di avere assunto oggi come oggi; la poesia è un pezzo di carta da consegnare al pubblico e non mai un esercizio di rabbia/purificazione intima, la musica è una vecchia stampa con cui tappezzare il salotto dell’acquirente e meno che mai la scintilla individuale del ‘mi piace’ o dell”io la penso così’.

 

Francesco Guccini non appartiene più a se stesso: e finisce col ripetersi, regalando una ‘pianta topografica’ della propria anima tanto diffusa quanto vana. I suoi testi sono senza magia, nudi, freddi, con piccoli rami sfrondati dall’albero francese o dall’America anni Trenta-Cinquanta, che già sappiamo sino all’ebbrezza: noiosi, addirittura, e si perdoni la cattiveria di un uomo-ex ragazzo alle prese con gli stessi problemi di crescita del Francesco e con i medesimi sbalzi d’umore letterario che qui suggeriscono Canzone della vita quotidiana o Canzone delle ragazze che se ne vanno – magniloquenza dal cuore fragile, come già la Canzone dei dodici mesi su «Radici» insegnava a sufficienza. Insomma, «vanità delle vanità», bombe non esplose, morti nel cuore e morti nel fisico, impotenza e paura del domani, il «son sempre qui a scrivermi addosso, ho dai miei giorni quanto basta» che equivale all’«io son sempre lo stesso, sempre diverso» che compendiava la tenera Piccola città un po’ di tempo addietro. Per chi sgranare un rosario assolutamente senza novità?

 

«Questo senza malizia, ‘con amore’, come dicevamo sulle rive dell’Amstel 1968 che Francesco, ‘i blue jeans vecchi e le poche lire’, certo conosce, mentre un po’ di malvagità la voglio sparare su Vince Tempera, che distrugge la già traballante musica con un arrangiamento dai mille strumenti, tanto ambizioso quanto stridente con i testi che scivolano sotto.

 («Gong», gennaio 1975)

 

Meno male che era scritta con amore, sennò sai che botti. A rileggerla sembra quasi che mi candidassi a essere assunto dal Guccini, viste le idee nette e indiscutibili che avevo praticamente su tutto: direzione artistica management arrangiamenti (ringrazio qui Vince Tempera per non avere mai reagito, almeno lui: chessò, una pernacchia in diretta da San Remo). Era un viziaccio dell’epoca insegnare agli artisti cosa dovevano fare, anzi, chi dovevano essere, e io c’ero cascato con lo zelo leninista di una Guardia Rossa. Senza volerlo, ero finito dalle parti di A.J. Weberman, quel tale che aveva fondato un «Dylan Liberation Front» per «liberare Dylan da se stesso» e passava le giornate a rovistare tra i rifiuti di casa Zimmerman per scoprire le prove che Bob «si era venduto». Posso giurare che non ho mai frugato tra le bottiglie vuote di Via Paolo Fabbri ma carta canta: quel memorabile «Francesco Guccini non appartiene più a se stesso» l’ho scritto proprio io.

 

Ad ogni buon conto, la recensione uscì e io me ne dimenticai. Passò qualche mese, cominciai le registrazioni di Per voi giovani estate (l’ultima Per voi giovani, l’ultima beata estate prima delle radio libere). Lavoravo con Massimo Villa e fu proprio lui che un mattino arrivò in studio con un sorriso malizioso e mi disse: «Ho visto ieri sera un concerto del tuo amico Guccini». Io non capivo. «E allora? E poi non sono amico di Guccini, neanche lo conosco». «Sarà, ma lui conosce te. Ha scritto una canzone in cui ti cita.» Pensai a uno scherzo, che strana storia era quella? Poi mi capitò tra le mani un numero di «Muzak», l’altra tendenziosa rivista di tendenza di quegli anni, e anche lì Guccini a sorpresa mi citava. «Bertoncelli è uno che non capisce niente» ricordo a memoria, «uno di quelli che scrive ancora Amerika con la kappa.» Non era un’offesa così grave, e in effetti scrivevo volentieri Amerika con la kappa, ma insomma, si era accertato un caso tra di noi; e come nei film dei cowboy che si rispettino, «tra la via Emilia e il West», la questione andava risolta affrontandosi.

 

Presi il telefono e chiamai Francesco per fissare un incontro: una sfida all’OK Corral, un duello dietro il convento delle carmelitane scalze, una gara di versi in ottava rima, facesse lui. Fu sorpreso ma gentile. Mi invitò a casa sua, in Via Paolo Fabbri, e io ci capitai qualche giorno dopo un pomeriggio alle cinque, dopo un rocambolesco viaggio in treno che ancora ricordo.

 

Fu una bella serata a cominciare da subito, da quando Francesco mi aprì la porta e mi apostrofò stupito: «Ti credevo piccolo, brufoloso e con gli occhiali». No, non ero quel tipo di frustrato con Olivetti lettera 22: mentre lui invece era proprio il tranquillo ciclone che mi ero immaginato, diviso fra cento interessi anche e soprattutto non musicali. Parlammo di Bob Dylan ma anche di Carl Barks e Paperino, di feuilleton d’inizio secolo, dell’improbabile Trimurti Ginsberg-Kerouac-Giovanni Pascoli. Fu un bel «riscaldamento» per arrivare al momento topico: quella canzone, L’avvelenata, come diavolo ti è venuta in mente?

 

 

Mi raccontò che l’aveva scritta di getto, in treno, sull’onda di quella recensione che io mi ero dimenticato e che per lui era stata la classica goccia non più sopportabile. Tutti lo tiravano per la manica, in quel periodo, tutti gli dicevano cosa fare e chi essere, trasformandolo da «personaggio pubblico» in una sorta di «pubblico prigioniero», secondo usi e modi che presto sarebbero degenerati (ero con Francesco, un anno più tardi, quando lo informarono di De Gregori «sequestrato» su un palco a Milano dagli autonomi: e ricordo la sua amarezza e il suo smarrimento per quella brutta storia che purtroppo era nell’aria da tempo – il «gioco» del fare musica stava diventando una dannazione). Quella recensione su «Gong» aveva incendiato i suoi umori più cupi e la sua voglia di polemica. «Guarda che non hai capito un cazzo» mi spiegò, «l’idea che io possa far dischi per soddisfare la casa discografica è pura fantascienza. Non ho mai avuto una carriera e non ce l’avrò mai. Faccio i dischi quando voglio, tengo (pochi) concerti quando mi viene. E il paragone con «Radici» è sbagliato: quello era un momento di stanchezza, non viceversa.» Era lucido, tranquillo. Prese la chitarra, si appoggiò indietro sulla sedia e in diretta, vivo live, mi cantò L’Avvelenata tutta d’un fiato, senza errori e senza omissis. Fu divertente, davvero, ero stupito dalla valanga che le mie parole avevano provocato più che offeso dall’insulto che andava in onda: e respinsi con sdegno la sincera offerta di levare il mio nome dalla canzone, «ora che ci siamo conosciuti non ha più senso». «Guai a te» lo minacciai, «è la volta che ti denuncio per ‘omissione dolosa’. La canzone è nata così e così deve rimanere». «Comunque è un pezzo che non inciderò mai» mi rassicurò alla fine, «uno sfogo da concerto che non ha senso su un LP.»

 

La storia sarebbe andata un po’ diversamente. Nel giro di pochi mesi, quella «canzone con le parolacce» diventò un classico dei concerti e a furor di popolo venne inclusa nel disco successivo, «Via Paolo Fabbri 43» 43, con una breve, affettuosa spiega per la citazione. A un certo punto diventò addirittura un 45, se non ricordo male, di quelli per i jukebox. Ancor oggi il brano è un must dei concerti e, se manca, il popolo gucciniano fa bùu. Francesco ha provato a cambiare più volte i versi e ora, per esempio, il mio spazio viene regolarmente usurpato da Berlusconi, che al di là di tutto è anche lui quadrisillabo. «Il fatto è che sei diventato obsoleto», mi sfotte lui. «Sono in molti a chiedermi: ma chi era quel Bertoncelli della canzone?» Io, forte di sondaggi Abacus che mi danno al massimo di popolarità, non cedo. Ribatto anzi: «Fossimo stati in America ti avrei fatto una causa da un milione di dollari. Avrei una villa come quella di Elvis Presley e la chiamerei Gucciniland.» «Tu piuttosto» insiste lui, «ti ho fatto una pubblicità gratis che neanche una campagna miliardaria con passaggi TV.»

 

Ma noto che la narrazione sta prendendo una piega buonista, e non va mica bene. Perché è vero che quel pomeriggio in Via Paolo Fabbri fumammo il calumet della pace, è vero che da allora ci siam visti molte volte e con piacere, compreso un leggendario stage novarese fine ’76 con tre serate di fila (record) più jam notturna nella cantina di un amico (immaginate un’Opera buffa per due, per tre, per cinque – avessi i nastri, ci farei un bootleg); ma è anche vero che a un certo punto tornammo in rotta di collisione e sfiorammo il disastro atomico. Non per malevolenza ma come in certe storie da Dottor Stranamore: per un equivoco, per un’interferenza, per un tasto schiacciato sbadatamente. Questa non la sa nessuno. È l’ottobre 1989. Francesco ha appena scritto Cronache epifaniche e io ne parlo su «Cuore» tra il serio e il faceto.

 

«Francesco Guccini ha scritto un libro che mi guarderò bene dal recensire. se mai ne avessi avuto intenzione, un’intervista recente mi ha fatto passare la voglia. ‘Son proprio curioso di leggere cosa ne scriverà la critica paludata’, diceva l’Avvelenato, e dietro le compite parole mi sembrava di vederlo, con la bava alla bocca e la penna pronta (pardon, il mouse) a immortalare chi avesse osato. Va bene che non appartengo alla critica paludata (né a quella paludosa, peraltro) ma non si sa mai. No, grazie, abbiamo già dato.

 

«Preferisco stare al di qua della critica e chiedermi piuttosto perché. Perché uno stimato Professionista, quindici LP all’attivo, buona posizione in classifica, centomila copie per album mette in gioco la sua immagine? Perché un agiato possidente con immobili a Bologna, via Paolo Fabbri, a Pavana (mappa catastale 4N) perché perde il suo tempo per un pugno di royalties? Mi sono lambiccato il cervello ma non sono giunto a risultati soddisfacenti. Poi mi sono ricordato di una sera, una sera di tanti anni fa passata con il Guccini (dove, se non in osteria?) a convincerlo a pubblicare certi scritti che aveva nel cassetto. Anziché snobbarmi dall’alto della sua fama o trattarmi come un seccatore, l’ancor giovine F.G. mi aveva dato retta e alla fine aveva sentenziato, meditabondo: «Potrebbe essere un’idea per quando sarò vecchio. Devo pur badare alla pensione; mica posso continuare a fare il cantautore fino a sessant’anni.»

 

Diavolo d’un Guccini! Due parole e mi aveva spalancato un orizzonte sconosciuto, un mondo da brividi. Eh già, anche i cantautori sono fiorellini che vanno ad appassire, futuri nonnetti destinati alle rughe, alle crepe, agli stenti: come non averci pensato prima? E mi immaginavo con raccapriccio Lucio Dalla suonare il clarino per le vie di Bologna, un cupo Natale del 2000; e il Guccini medesimo ridotto a cibarsi di bacche e gramigne dell’Appennino dopo aver dato fondo a tutti i risparmi, alle bottiglie più remote della cantina, perfino alla collezione integrale di Paperino in americano.

 

Ecco, forse questo ricordo spiega tutto. Da buon latinista montanaro, Guccini sa che disca volant, scripta manent e per garantirsi appunto qualcosa che manet si è assicurato con la Feltrinelli, usandola come un Fondo Pensioni. Brillante idea che peraltro, dal mio punto di vista, capovolgerei volentieri. Io ci provo: cedesi avviata attività giornalistica in cambio di contatto con multinazionale discografica, ingaggio pronta cassa, primo LP pronto per Sanremo.

 

 («Cuore», 2 ottobre 1989)

 

Ora, mi sembra chiaro che era tutto uno scherzo. Mi era piaciuta quest’idea dei «signori della canzone» ridotti a stracci e caldarroste e ci avevo ricamato un po’ su, partendo da un aneddoto vero: perché, il Francesco se l’è dimenticato ma io no, quella cena in trattoria c’era stata davvero, alla fine dei ’70, combinata dall’allora direttore editoriale della Mazzotta, Andrea Rivas, che aveva intuito in anticipo la strada dei «cantautori scrittori» e voleva saggiare un po’ il terreno. Parlando della cosa, era venuta fuori per davvero quella frase («mica farò il cantautore fino a sessant’anni») che a tradimento avevo rispolverato dieci anni dopo, usandola come grimaldello per i miei scassi. Ueh, niente di cui vergognarsi: credo che nessuno fra i cantautori-leader di quegli anni pensasse di durare nel tempo, e mica solo i cantautori. Pete Townshend lo sfottono ancora adesso per aver scritto in gioventù «spero di morire prima di diventare vecchio»: hai cinquant’anni, fottuto bugiardo, cosa aspetti a crepare?

 

Guccini però se la prese. E la situazione peggiorò all’annuale raduno del «Club Tenco», di lì a poco, quando Roberto Vecchioni lo prese perfidamente in giro interpretando in scena una sua canzone «molto attuale, visto un recente articolo»: Il pensionato. Da San Remo mi giunsero notizie bellicose e per un attimo temetti un «Ritorno del figlio dell’Avvelenata part 2 – La vendetta», che sinceramente anche le mie spalle Miketysoniane non so se avrebbero sopportato. Cercai disperatamente Guccini prima che accadesse l’irreparabile e per fortuna lo trovai un po’ sulle sue ma non così incazzato. Argomentai, spiegai, ricordai – e, porco Giuda, possibile che tu sia così allergico alla mia penna e che ti vengan fuori i puntini rossi al secondo aggettivo?

 

Qualche mese dopo il Francesco compì cinquant’anni e io gli regalai, anziché un rasoio elettrico o una torta di ribes, un articolo ancora su «Cuore» tutto garrulo e affettuoso, a chiudere la disfida e a fumare un’altra volta il calumet della pace. «Francesco Guccini ha compiuto cinquant’anni e a Vignola gli hanno consegnato la Ciliegia d’oro» scrivevo. «Non so giudicare il premio ma per non sbagliare dico di sì, che va benissimo. Il Francesco la Ciliegia se la merita, anzi, stiamo larghi come Totò con Peppino (‘Punto. Macché: due punti!’); si merita anche il Culatello d’argento, il Tartufo di platino, la Castagna di peltro e tutte quelle targhe, coppe, medaglioni che l’Italia delle Pro Loco e degli assessori elargisce volentieri». E chiudevo: «Auguri, Francesco. Sei durato più del muro di Berlino e questo, Diobono, deve pur significare qualcosa.»

 

Un po’ lo facevo per medicare lo sgarbo ma molto, lo dico with the coeur in man, mi veniva spontaneo. Perchè, lo so che adesso non ci crederete, lo so che siete maliziosi e pensate sempre male, ma a me Guccini piace e sta simpatico. Giuro, parola di lupo. L’ho anche scritto di recente, e motivato, in un articolo per «Linus» (1) che mi ha consentito di spiegare una volta per tutte cosa penso di lui e delle sue canzoni, premesso e sottolineato (due volte) che la sua musica e i dintorni dei cantautori non sono proprio la mia passion. Proprio perchè ho scritto quelle righe «una volta per tutte», mi perdonerete qui se le riprendo praticamente pari pari, senza peraltro la noia della citazione diretta. Servono a completare il quadro e a rispondere agli impazienti (agli spazientiti), che immagino con la carta in bocca e la domanda in aria: «Sì, va bene tutte queste chiacchiere e intrichi, ma, al dunque, stringi stringi, cosa pensi di Guccini?»

 

Dunque la prima cosa che mi viene in mente, per connotare il personaggio e spiegarne il successo e l’affetto che lo avvolge, è l’assoluta trasparenza, il fatto cioé che il Guccini vero è esattamente sovrapponibile al Guccini che si ascolta nei dischi, senza reticenze o finzioni. D’altro canto, uno che intitola un suo disco «Via Paolo Fabbri 43» 43 e poi abita veramente a quell’indirizzo, be’, è uno che la sincerità la pratica fino al masochismo. E mica è solo questione di residenza: di Guccini conosciamo l’albero genealogico, la casa delle vacanze, gli amori di ieri e di oggi, la figlia, i vicini, il bar sotto casa, grazie a canzoniche volano sì nei cieli della fantasia ma non così in alto da perdere il contorno della realtà e della vita vera. E’ proprio questa sincerità, credo, una sincerità mai spataccosa e ostentata ma molto pudica, difficile, da vero montanaro, a rendere Guccini vicino a chi ascolta e a far quindi scattare in chi ascolta un sentimento di complicità e trasporto. E questo non solo nei confronti dei suoi/miei coetanei, della ingombrante obsoleta generazione 1940-1955, ma anche nei confronti dei più giovani e perfino dei teenager. E se è logico che fra quaranta/cinquantenni venga facile il dialogo per affinità di temi e ricordi (Auschwitz piuttosto che l’atomica cinese, «un Dio che è morto» o «la giustizia proletaria») credo che a un ventenne l’avvicinamento a Guccini riesca solo in virtù di un acrobatico salto con l’asta della fiducia e della curisoità, ma roba davvero da finale olimpica.

 

Questo è un mio vecchio pallino, che torna in ballo tutte le volte che penso a Guccini. Faccio fatica a trovare un artista meno moderno e «alla moda» di lui, e meno interessato a esserlo. Musicalmente Francesco viene da prima del rock, cioé dal pleistocene inferiore, e i suoi grandi amori di gioventù, è lui a dirlo, non furono Elvis e i maestri neri ma una dimenticata banda di pop jazz, i Firehouse 4+2; e poi sì, arrivò Dylan con il suo nuovo folk ma prima c’era stato l’innamoramento ben più intenso e profondo con Brel, con Brassens, con gli chansonnier francesi – insomma, monete musicali più difficili da cambiare del renminbi cinese e che anche dal numismatico guardano storto. Lo stesso con i versi, con quel che è giusto chiamare «le liriche», che han forma e sonanze auliche, eleganza ricercata, come da ore di seria letteratura italiana in un Liceo Classico di una volta. La generazione di Internet non parla in quel modo, fra un po’ nemmeno leggerà più così, neanche nelle aule di contenzione delle superiori l’anno della maturità. Eppure la stessa generazione trainspotting e cyber-pulp è disposta ad ascoltare, sono i materiali della tournèe di questi mesi, variazioni sul Cirano di Edmond de Rostand (che, sia chiaro, non ha mai giocato nel Paris St. Germain), citazioni dal Libro di Isaia e dal Cantico dei Cantici, testi che parlano di «chiasmi filosofanti» e in cui «paese» fa rima con «maggese», per tacere degli omaggi al babbino putativo, il già citato Pascoli, o a Guido Gozzano, quel dark torinese che scrisse L’isola non trovata quando il signor Edison non aveva ancora inventato il fonografo, altro che il cd. Chi sia Guccini per quelle verdi orecchie, uno stravagante istrione un melodioso fossile un punto interrogativo, io non so dire. Mi viene però da pensare che lo considerino uno vero, e qui torniamo al punto; le sue canzoni possono essere anche distanti come i frammenti di Eraclito ma vengono percepite come opere originali e coerenti, pezzi di vita e non «prodotti», e quindi degne di interesse. Credo che risultato migliore Guccini non potesse augurarsi: lui che ha sempre amato cantare la terra e le vere cose di sempre, lui che inizia il suo ultimo disco celebrando ciliegi fioriti e grida di rondini, ora con orgoglio può constatare che le sue canzoni son diventate di quella stessa fatta e chi le assaggia sa di non gustare polvere di Pvc ma, chissà, «il sapore dell’uva rubata a un filare».

 

Di un tal metaforico grappolo io sono onorato di essere un acino, per quanto piccolo, stortignaccolo e brusco, di quelli che è facile che vadano di traverso. Diogene Laerzio racconta che Aristotile morì di un cosino del genere, nel 322 a.C., il che a ben pensarci potrebbe servirmi per un audace paragone fra filosofi greci e cantautori italiani. Ma forse è meglio di no, forse è meglio che mi fermi qui sennò una Avvelenata part 2 (1998 Veltroni Remix) non me la leva nessuno.

(1) Canzone dei veleni e dei fiori, su Linus, gennaio 1997.

 

 dall’articolo “La vera storia dell’Avvelenata” di Riccardo Bertoncelli (1998)

 

 

per chi fosse ” troppo ” curioso come noi…

 

DELMORE SCHWARTZ E LOU REED: NEI SOGNI COMINCIANO LE RESPONSABILITÀ

 

 

È da poco in libreria Topi Caldi (Giunti), una raccolta di scritti di Riccardo Bertoncelli fra musica e letteratura. Pubblichiamo un pezzo sulla raccolta di racconti Nei sogni cominciano le responsabilità di Delmore Schwartz, ringraziando l’autore e la casa editrice (fonte immagine).

 

di Riccardo Bertoncelli

 

Ci fu un tempo in cui i dischi (in vinile) si ascoltavano per una vita e la loro esplorazione durava più di un viaggio di Livingstone in Africa. Si studiavano note, fotografie, ogni particolare. Si cercavano collegamenti, la fantasia ronzava. Nascevano leggende. In un angolo di un disco del genere, il primo Velvet “con la banana”, trovai il nome di Delmore Schwartz.

 

Era accoppiato alla canzone più brutale e traumatica, European Son, e “canzone” è un pietoso pour parler; una sorta di Chuck Berry pelle e ossa uscito da uno scantinato della Lower East Side che dopo una manciata di versi precipitava per sei minuti da un’alta scogliera di rumori e distorsioni. Chi era Delmore Schwartz? Un musicista ispiratore, un amico, uno magari della Factory che Warhol aveva imbucato in quel party?

 

Non c’era Internet allora, non cercai abbastanza. Ma il nome e la dedica mi rimasero impressi, anche se venni poi travolto dalle molte altre sirene di quell’album, dai conturbanti intrecci di arte droga musica cinema e dalle trivialissime quisquilie della copertina cult e dalla foto di quarta.

 

Ora so chi è Delmore Schwartz e mi è chiaro che di tutte quelle storie e storielle “intorno alla banana” è la più avvincente e favolosa. Lo so perché la sua opera si è insinuata anche nel nostro provinciale buco di mondo, perché Lou Reed non ha mai smesso di parlarne e perché Neri Pozza ce lo ricorda (ri)pubblicando la più famosa antologia di racconti, Nei sogni cominciano le responsabilità, che Serra & Riva aveva già edito nel 1990 in versione leggermente più corta e con titolo diverso (Il mondo è un matrimonio).

 

LOU REED by MICK ROCK LOU REED, TRASNFORMED ALBUM COVER, LONDRA, 1972 - Wall of Sound Gallery - Fine Art Music Photography

LOU REED–1972
Wall of Sound Gallery

 

 

ARTRIBUNE- REDAZIONE – 27- 10-2013

CON ALCUNE SUE FOTO

È morto Lou Reed. A settantuno anni se ne va il cantautore, polistrumentista e poeta americano creatore dei Velvet Underground, da anni anche celebre fotografo

 

 

 

 

L’introduzione è appunto di Lou Reed, e leggendola (così alata, poetica, per niente “da studioso”, piuttosto da amico ancora coinvolto) ho pensato che sarebbe stato un bel pendant con la dedica di European Son, e se fosse stata nelle note “della banana” avrebbe cambiato forse il corso letterario di tanti della mia generazione. Ma ci voleva tempo, Schwartz era appena morto e Lou non aveva ancora elaborato il lutto e soprattutto i chilotoni di materia atomica acquisiti con quell’amicizia.

 

 

Schwartz, Delmore (1913-1966) | Harvard Square Library

foto da Hatvard Square Library

(1) dallo stesso link. Hravard Square Library, pubblichiamo al fondo una sua poesia che cci pare faccia capire molto di lui

 

Delmore Schwartz era un ebreo rumeno nato a Brooklyn nel 1913 che già nel 1937 aveva sconvolto le cronache letterarie con un breve racconto, Nei sogni cominciano le responsabilità, elogiato da una fila di letterati e accademici fra cui alcuni famosi signornò, da Ezra Pound a T.S. Eliot. In quel racconto Schwartz immaginava di assistere all’incontro tra i genitori come se fosse lo spettatore di un film; partecipe ma anche atterrito dalle conseguenze, sconvolto dall’idea di poter risalire il tempo con la fantasia, proiettandone le immagini sullo schermo della mente senza poterne mutare il corso.

 

Sarebbe stata una delle costanti della sua opera: la potenza del passato, raccontato spesso con toni mitologici, e l’imprevedibilità del futuro, sofferta con un misto di rassegnazione, malinconia e scarti di umor nero. Quel gusto, con un che di più astratto e sulfureo, Schwartz conservò anche nelle opere della maturità, passando dalla prosa alla poesia. Lo leggevano, lo consideravano, nel 1959 fu il più giovane premiato nella storia di un prestigioso premio di poesia come il Bollingen.

 

Lui però era sordo agli elogi e distante da tutto, da tutti. Il mondo lo infastidiva, viveva isolato e ciò che più amava era bere, e trangugiare pillole per estraniarsi in una bolla di letteratura in cui campeggiava la stella dell’adorato Joyce. Raccontano che il giorno dell’insediamento di Kennedy alla Casa Bianca ci fosse anche lui tra gli invitati del bel mondo letterario; ma riuscirono a recapitargli l’invito solo quattro mesi dopo, facendo la posta in uno dei bar dove ogni tanto si rifugiava e leggeva ad alta voce le pagine preferite.

 

Fu allora che Lou Reed lo conobbe, 1961, quando la Syracuse University invitò Schwartz a insegnare scrittura creativa, non senza polemiche; parte del corpo accademico e degli studenti lo guardava in cagnesco, altri erano incantati. Lou capeggiava gli entusiasti. Era un figlio della piccola borghesia ebraica vessato da genitori crudeli, che lottavano per estirpare in lui il seme degenerato dell’“arte” e gli infliggevano elettrochoc perché guarisse dalla dichiarata bisessualità.

Schwartz fu il primo a dargli fiducia, aveva intuito in lui la tempra dello scrittore e lo ricopriva di attenzioni, lo spronava mentre gli schiudeva meravigliosi orizzonti insegnandogli Dostoevskij, Shakespeare, Yeats e naturalmente Joyce, il Finnegan’s Wake, l’Ulysses. “Dicevi che il modo migliore per vivere la propria vita era consacrarla a Joyce”, scrive Reed oggi ancora inebriato da quelle lezioni.

 

“Oh Delmore, quanto mi manchi. Sei tu che mi hai incoraggiato a scrivere. Eri l’uomo più grande che avessi mai incontrato. Riuscivi a esprimere le emozioni più profonde con le parole più semplici”.

Le lezioni si tenevano in aula ma sempre più di frequente nei bar, e l’allievo accompagnava il maestro fin dalla mattina, ammaliato da quei discorsi alti che presto diventavano farneticazioni, fisime, distorti ricordi per tornare chissà come folgoranti e significativi. “Il Mozart della conversazione”, lo avrebbe definito Saul Bellow, premio Nobel 1976 anche grazie a un romanzo, Il dono di Humboldt, incentrato su quella figura maledetta e sfuggente.

 

Nella sua fantasia Delmore era diventato Von Humboldt Fleisher, simbolo della purezza artistica e della sua fragilità, dissipatore di un talento che peraltro nessun letterato abile e assennato, Bellow per esempio, avrebbe saputo conquistare. Lou Reed assisté di persona a quella dissipazione, seguendo per un paio d’anni l’inabissarsi di Delmore, discepolo amico complice, prima di abbandonarlo perché altre sirene suonavano – il rock & roll per esempio.

 

Schwartz per inciso odiava la musica e al bar non sopportava i sottofondi sonori. “Il juke-box che detestavi – i testi erano così patetici”. Il maestro sapeva dell’amore rock di Lou ma lo considerava una malattia infantile che il tempo e la letteratura avrebbero guarito. L’allievo la pensava diversamente; perché invece non mettere insieme rock e letteratura?

 

Delmore Schwartz morì d’infarto all’hotel Columbia di New York, una sera del luglio 1966. Rimase tre giorni all’obitorio prima che ne reclamassero il corpo. Lou lo seppe mentre era in ospedale a curare un’epatite che rischiò di tagliarlo fuori dai VU. Gli avevano prescritto tre altre settimane di degenza; lui si fece portare jeans neri, camicia nera, giacca nera, stivaletti neri e andò alla veglia dell’amico per non tornare più in reparto. Non vedeva Schwartz da tempo, quasi non lo riconobbe per il gonfiore e gli sfregi di alcol e pillole. Fu quel giorno forse che decise di dargli retta (“Lou deve diventare uno scrittore!”), però a modo suo, con la musica e senza perdersi in nebbie di infelicità.

 

L’“album con la banana” era finito ad aprile, la dedica di European Son venne aggiunta poi considerando la natura del pezzo e la brevità del testo. Se Delmore lo avesse ascoltato da qualche juke-box, ragionò Lou, avrebbe avuto poco da recriminare.

 

Lou Reed non ha mai smesso di onorare Delmore Schwartz, in una bella canzone dimenticata (My House, su Blue Mask) lo ha anche ospitato spiriticamente tra le mura di casa. Ha sempre espresso la sua riconoscenza, lo ha amato e riverito con l’umiltà del discepolo. “Volevo scrivere. Un solo verso che fosse all’altezza dei tuoi. La mia montagna. La mia fonte d’ispirazione”. Forse è stato così grande perché non ha mai dimenticato l’innamorata maledizione del maestro. “Tu hai il dono della scrittura ma se ti venderai e scriverai per soldi, sappi che dovunque io sia verrò a perseguitarti”.

 

 

IL VERO AMERICANO

 

Jeremiah Dickson era un vero americano,
Perché era un ragazzino che capiva l’America, perché sentiva di dover
pensare a tutto; perché è tutto ciò a cui pensare,
Conoscendo immediatamente l’intimità della verità e della commedia,
Sapendo intuitivamente come il senso dell’umorismo fosse una necessità
Per tutti coloro che vivono in America. Così, in modo nativo e
naturale quando una domenica di aprile in una gelateria a Jeremiah
fu chiesto di scegliere tra una coppa di gelato al cioccolato e una banana split,
rispose senza esitazione, senza bisogno di pensarci
Essendo un vero americano, determinato a continuare come aveva iniziato:
Rifiutò l’o-o di Kierkegaard e di molti altri europei;
Rifiutando di accettare alternative, rifiutando di credere alla scelta tra;
Rifiutando la selezione; negando il dilemma; eleggendo l’affermazione assoluta: conoscendo
nel suo petto
L’infinito e l’oro
Della frontiera infinita, l’immortale Occidente.
“Entrambi: li avrò entrambi!” dichiarò questo vero americano
a Cambridge, Massachusetts, in una domenica di aprile, istruito
dai grandi magazzini, dal Five-and-Ten,
istruito dal Natale, dal circo, dalla volgarità e dalla grandiosità delle
Cascate del Niagara e del Grand Canyon,
istruito dalla grandiosità, dalla volgarità e dall’infinito appetito appagato e
splendente nell’oscurità del chiaro di luna
il sabato con i doppi spettacoli al cinema,
il coronamento delle pubblicità dell’immaginazione della luce
che è com’era: l’infinita fede nella speranza infinita di Colombo,
Barnum, Edison e Jeremiah Dickson.

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