Neurodivergente. Capire e coltivare la diversità dei cervelli umani
Neurodivergente è una guida che ci orienta alla scoperta della neurodiversità umana e della sua complessità.
Ogni essere umano ha un cervello, ma non tutti i cervelli sono uguali. Eppure, poche persone hanno un’idea realistica dell’infinita variabilità della neuropsicologia umana, e di quanto questa variabilità, se non considerata adeguatamente, possa favorire incomprensioni, sofferenze, marginalizzazioni. Le scienze biomediche, cognitive e psicologiche, le scienze umane e sociali hanno elaborato approcci diversi per descrivere e trattare questa diversità. Fuori dalle cliniche e dalle accademie, i movimenti sociali nati dalle comunità coinvolte hanno talvolta impiegato, talvolta reinterpretato e talvolta rifiutato radicalmente ciascuno di questi approcci. Eleonora Marocchini esplora tutte queste prospettive, cercando di mettere un po’ di ordine e di tenere insieme sia il punto di vista delle comunità scientifiche sia le discussioni interne alle comunità interessate.
DOPPIOZERO.COM
23 luglio 2024
https://www.doppiozero.com/cervelli-diversi
Opera di Kate Cooper, We Need Sanctuary 2018.
Cervelli diversi
“Professoressa ti ho sognata! Ho sognato che eri una ciambella!”
Questa è la frase con cui E. mi saluta tutti i giorni. È un’affermazione che mi fa sorridere, ma che allo stesso tempo mi porta a interrogarmi.
Perché mi vede come una ciambella?
Ho iniziato a lavorare nell’ambito del sostegno più per necessità che per vocazione poiché, nel mondo della scuola, tocca adattarsi.
Come spesso capita però ho completamente rivalutato le mie convinzioni.
Le ore di sostegno, inizialmente ritenute un passaggio obbligato per arrivare all’ambita cattedra di lettere, si sono rivelate preziose ed entusiasmanti.
Sono incappata quasi casualmente in Neurodivergente. Capire e coltivare la diversità dei cervelli umani(Edizioni Tlon), il bel saggio di Eleonora Marocchini (psicolinguista e ricercatrice in psicologia e scienze cognitive) che analizza la complessa questione delle neurodivergenze con un’attitudine, oltre che inconsueta, brillante e originale, facendo dialogare scienze mediche, studi sociali, post su blog e social network, celebri studiosi e movimenti dal basso.
Il saggio inizia spiegando che cosa si intende per neuroatipicità, vale a dire la parola che la comunità medica e psicologica utilizza per distinguere ciò che è tipico a livello cerebrale e cognitivo (nel senso di statisticamente comune) e ciò che non lo è.
Nel grande recipiente semantico che implica il termine neuroatipico, ritroviamo tutte quelle condizioni sia presenti dal neurosviluppo (autismo, disprassia, ADHD, DSA ecc.) sia acquisite in seguito a un trauma fisico o causate da una psicopatologia.
Un altro valore acquisisce invece il termine neurodiversità, attribuito alla sociologa Judy Singer secondo alcuni e allo scrittore Harvey Blume per altri. Non è importante chi dei due abbia per la prima volta generato questa espressione quanto l’idea comune ai due studiosi che ha portato a coniare la parola in questione.
“Proprio come la biodiversità è importante per la sopravvivenza della specie, così doveva essere la diversità umana per la specie umana”.
Neurodiversità è infatti un termine che affonda le sue radici nella volontà di dare vita a un movimento sociale, una comunità per gruppi neurologici marginalizzati che segua il modello e si inserisca tra i movimenti femministi, per la disabilità, per la liberazione omosessuale ecc.
Questa parola infatti, sin dalla sua nascita, si costituisce con il desiderio di integrare una pluralità di vissuti traducendosi quindi in un movimento sociale.
Estremamente influente è anche la sua diffusione attraverso i social network, che come ricorda l’autrice, hanno grandi effetti sulla cultura psicologica. I social per definizione sono accessibili a un’utenza vasta e variegata, a differenza della ristretta cerchia di contesti relativi alle scienze mediche e psicologiche.
Il termine neurodivergente diventa simbolo di un senso di appartenenza, di un vissuto intimo e spesso di una questione identitaria.
Inizialmente sul web ed in seguito offline, questa parola si è connessa all’attivismo e all’advocacy sulla disabilità. Oggi è diventata di uso comune tra le persone (anche non appartenenti alla comunità), nelle scuole e in ambito sanitario.
Un altro aspetto che è bene segnalare è come la nascita di comunità neurodivergenti abbia sollecitato una ricerca sul linguaggio anche in ambiente accademico e che in contemporanea molti gruppi scientifici abbiano iniziato a utilizzare paradigmi di ricerca più o meno partecipati o partecipativi volti a ridare equilibrio o quantomeno a interrogare gli squilibri di potere tra chi fa ricerca e chi è oggetto di studio.
Per quanto ancora (purtroppo) questa attitudine risulti rivoluzionaria, vi è stata una spinta all’ascolto, spesso anche complesso, delle comunità neurodivergenti (che sono molteplici e a volte anche in disaccordo tra loro) soprattutto per quanto riguarda la ricerca di un lessico adeguato, fondamentale non solo per questioni etiche, ma anche perché spesso alcune classificazioni desuete risultano inefficaci nel descrivere le sfumature dell’esperienza individuale.
Dopo lo scioglimento di questa importante questione linguistica, l’autrice sposta il focus su un discorso ancor più complesso, vale a dire il tema della funzionalità.
Nel 1980 venne pubblicata la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (ICF), che definisce il funzionamento di ogni persona in ogni dominio specifico come «un’interazione o una relazione complessa fra la condizione di salute e i fattori contestuali (cioè i fattori ambientali e personali)». L’ICF riconosce che l’interazione tra queste entità è dinamica e specifica e non sempre in una relazione biunivoca prevedibile.
Una persona può infatti avere “menomazioni” senza che queste abbiano influenza sulla sua performance (ovvero la difficoltà che incontra nel fare ciò che desidera nel suo ambiente) oppure può avere problemi nella performance senza menomazioni (un buon esempio può essere quello di una persona neurotipica, le cui abilità sociali sono diminuite in maniera significativa a causa di una lunga permanenza in un carcere o in un istituto di cura).
L’ICF si dichiara infatti neutrale rispetto alle cause, ma più interessato al funzionamento dell’individuo rispetto al suo ambiente.
Questo approccio dal quale non si può prescindere, anche nell’ambito del sostegno a scuola, rivela però dei limiti; è infatti complesso applicare questo sguardo nella pratica quotidiana che sia clinica o educativa.
Spesso l’ambito sanitario (medico, psichiatrico, psicologico) ha una visione chiara del contesto in cui l’utenza è immersa. D’altra parte chi ha un ruolo educativo (genitori compresi) o di docenza, di rado ha avuto una formazione (anche clinica) sulla disabilità.
L’autrice osserva inoltre che questo approccio, definito biopsicosociale, non è ancora realmente impiegato sul piano pratico. Continua ad essere prevalente un metodo, e allo stesso tempo una terminologia, più o meno medicalizzata (come si diceva prima), che relega il contesto sociale in una posizione di minore importanza.
A questo proposito trovo interessante e illuminante il ragionamento sul tema dell’ADHD, acronimo che, tradotto in italiano, sta per Disturbo da Deficit di Attenzione.
In molti ritengono che l’ADHD sia sovradiagnosticato nell’infanzia con l’intento di patologizzare una persona estremamente vivace (ADHD iperattivo) o particolarmente pigra (ADHD disattentivo).
È infatti piuttosto comune leggere articoli che spiegano come in una società caratterizzata da un grande aumento di stimoli e distrazioni, siano inevitabilmente aumentati i problemi di attenzione, che in fondo sono estendibili alla maggioranza della popolazione.
Sicuramente le pressioni capitalistiche alla produttività, l’impatto dei social media, della pubblicità e dell’uso costante di smartphone e altri dispositivi tecnologici ha aumentato il calo dell’attenzione. Velocità, intrattenimento, immersività, sono tutti aspetti che hanno reso la popolazione più deconcentrata e affaticata. Inoltre sia a scuola che nel lavoro è aumentato il bombardamento informativo e produttivo; la maggior parte dei lavori richiede capacità attentive maggiori rispetto al passato, fini competenze di pianificazione, abilità nelle relazioni sociali (pensiamo alle call continue che pretendono predisposizione a persone, situazioni e richieste diverse).