LUCIO CARACCIOLO – 1 GIUGNO 2024 TITOLO :: L’EUROPA CHE NON C’E -ma comincio subito a dirvi che la ricerca per noi è appana iniziata .. Domani la leggeremo con calma- e /se siamo in grado – sottolineremo un punto o un altro- nella speranza di esservi utili– altrimenti, a me dà pena che dopo aver letto il testo ognuno per conto proprio, non nasca ” impetuosa ” la voglia di uno scambio — Ma pazienza !

 

 

 

( nel link di )

REPUBBLICA.IT — 1 GIUGNO 2024- 7.30

UN VIDEO  ( per me muto )

https://www.repubblica.it/esteri/2024/06/02/news/unione_
europea_europa_nazionalismi_democrazia-423121596/

 

” L’Europa che non c’è “

 

LUCIO CARACCIOLO  E CARTINE DI LAURA CANALI

 

Ci sono parole di due tipi. Quelle che spiegano le cose e quelle che le mascherano. In questa stagione prevalgono le seconde. Sarà il clima woke per cui si “discute” solo con chi si è già d’accordo, in comunità sempre più strette, fisicamente e mentalmente. Camere dell’eco. Sarà perché la distanza fra parole e cose riduce la possibilità di contraddirsi e soprattutto di essere contraddetti. Sarà infine perché è confortevole abdicare al buon senso per nuotare nell’oceano del senso comune, inteso mancanza di senso.

 

IL PODCAST

“Europa” è termine del secondo tipo. Strausato per scopi diversi, anche opposti, senza curarsi di indagarne sfera semantica e pregnanza euristica. Un osservatore scettico ma non avverso, il grande storico anglo-neozelandese John Greville Agard Pocock, sostenne che Europa è una di quelle parole che servono a bloccare ogni discussione su di essa. Forse dagli antipodi si coglie l’Europa meglio di quanto possiamo noi europei che la vediamo da dentro. Su sponda alquanto differente, il francese Jacques Delors, forse il più celebre fra i presidenti della Commissione Europea, lui stesso monumento all’europeismo quale ideologia del termine che non si spiega, sillabò un giorno la frase svelatrice: “L’Europa avanza mascherata”. Non deve esporsi allo sguardo degli europei giacché è per, non con loro. Parole pronunciate in perfetta onestà da chi credeva l’Unione Europea cosa buona e giusta, non necessitante dimostrazione. Evoluzione del motto del suo conterraneo Jean Monnet, padre con Robert Schuman delle Comunità Europee: “L’essenziale non è sapere dove andare, è andarci”. Chiudete gli occhi, avanzate pensando europeo, il resto non conta.

Tutto per premettere che quando cerchiamo di stabilire che cosa sia l’Europa inciampiamo nei suoi paradossi. Forse anche per questo in Italia l’Europa era un tempo trattata come bene in sé, mentre oggi è spesso ridotta a capro espiatorio di quanto ci disturba o atterrisce. Per capirci qualcosa, cominciamo a fissare l’unico punto di consenso fra chi ne tratta nella nostra comunicazione pubblica: l’Europa è l’Unione Europea. D’accordo, se varcate il confine di Chiasso lo svizzero base vi prenderà per matto: noi siamo europei quanto e più di voi. Ma restiamo a casa nostra ed esponiamo tre tesi utili alla nostra indagine.

Prima. L’Unione Europea/Europa non è soggetto della politica fra le nazioni perché non è nazione, tantomeno Stato. È organizzazione internazionale sui generis. Irripetibile.

Seconda. La famiglia europea è pressoché identica a quella atlantica. Questa quasi omologia, sviluppata dopo la fine della guerra fredda con le espansioni semiparallele di Nato e Ue, esprime la cifra geostrategica di questo spazio: siamo parte della sfera d’influenza americana in Europa, di cui la dimensione militare atlantica, fondata nel 1949, è espressione diretta, mentre la derivata economica comunitaria (1957, Trattati di Roma) ne è conseguenza indiretta.

Terza. Il nostro spazio comunitario è conseguenza della sconfitta di tutte le potenze europee, dominatrici del pianeta fino al doppio suicidio del 1914-45, e da allora in rapida deriva verso l’impotenza. Senza la scelta degli Stati Uniti di restare qui, da superiore potenza in Europa occidentale, in contrapposizione all’Unione Sovietica e al comunismo, Bruxelles sarebbe solo capitale del Belgio. Mentre oggi ospita i quartier generali di Nato e Ue, figli dello stesso padre a stelle e strisce.

La nostra analisi deve considerare insieme questi dati di realtà, per non finire prigioniera di miraggi che potrebbero condurci a sbattere contro le repliche della storia.

 

Perché non possiamo contare

 

Quante volte, nelle crisi e nelle guerre, sentiamo dire “l’Europa è divisa”, “l’Europa non conta”, “dov’è l’Europa?”. Non se ne può più. L’accusa è ingiusta perché suppone che si possa dare un’Unione Europea unita, autorevole, dotata di un interesse proprio, come tale riconosciuta e ricercata sul mercato delle potenze. La logica di questa critica equivale ad accusare un elefante di non volare o un semaforo rosso di non essere verde. I protagonisti decisivi della competizione internazionale sono in età moderna gli Stati – nazionali, imperiali o quant’altro – che si riconoscono reciprocamente sovrani (finzione che vale anche per quelli che non lo sono).

Inoltre, numero e qualità degli associati all’Ue è variabile in entrata e in uscita (Brexit), giacché nessuno è autorizzato a stabilire in via di principio chi sia o non sia europeo. L’Ue è un cantiere sempre aperto, Sagrada Familia in giallo e blu. Ovvio che rispetto al tempo dei Sei fondatori, tra cui noi, in tanta pletora oggi è molto più arduo stabilire compromessi.

Prendiamo il dramma che ci preoccupa più di ogni altro, la guerra in Ucraina e la sua possibile involuzione al grado nucleare, di cui noi europei saremmo le prime vittime. Caso limite, giacché l’insieme comunitario è stato concepito nella pace e per la pace. Per complessione e cultura, l’architettura europea funziona con il bel tempo. Non si può d’un colpo convertire alla tempesta. Soprattutto, l’esiguo spazio europeo esibisce la massima concentrazione mondiale di storie, identità e rivalità diverse, con tendenza alla balcanizzazione crescente – festival dello staterello sempre più piccolo e improbabile. Ciò almeno da quando, allo scadere del secolo scorso, con le guerre di successione jugoslava è riemersa la tentazione di risolvere le nostre dispute armi in pugno.

Come mostra la carta 1, nell’Unione Europea e nella Nato vi sono approcci diversi, in alcuni casi opposti, su come reagire all’invasione russa e sostenere il popolo ucraino. Ci soffermiamo su quelli strategici, di medio-lungo periodo, al netto delle propagande e degli aggiustamenti tattici in corso.

 

Faglie europee nella guerra d’Ucraina

di Laura Canali

 

La mappa ha uno strato colorato blu che rappresenta i paesi Nato europei, nell’area russa il colore è giallo mentre l’Ucraina è violetta. Questi tre colori rappresentano anche le parti in campo, ma all’interno della Nato si evidenziano posizioni diverse sulla guerra in Ucraina. L’Ungheria e la Slovacchia sono vicine alla Russia mentre scandinavi e baltici, insieme a Polonia, Repubblica Ceca, Romania e Bulgaria rappresentano il fronte Est della Nato, decisamente antirusso. La Polonia è il paese di riferimento per gli Usa anche perché divide la Germania dalla Russia. La Turchia è gioca un ruolo proprio, diverso da tutti gli altri paesi nonostante faccia parte della Nato, ispirata dalla sua cultura imperiale. È un importante riferimento strategico per lo stesso Putin. Il Regno Unito, tutore occidentale antirusso, è schierato per principio con gli Usa, spesso assumendo posizioni radicali. I “Balcani balcanici” sono Bosnia Erzegovina, Serbia e Kosovo, sempre sul filo dell’instabilità e del conflitto. L’”EuroQuad”, nel quale collochiamo Spagna, Francia, Italia e Germania, è storicamente più disponibile al dialogo per la sicurezza e la stabilità europea e a riallacciare in futuro un rapporto con la Russia. Nella classifica mondiale 2023 di Sipri Military Expenditure Database il Regno Unito è sesto come spese militari, la Germania settima, l’Ucraina ottava, l’Italia dodicesima e la Polonia quattordicesima. Nella mappa figurano la Libia e la Siria, paesi ormai spaccati al loro interno in diversi territori in contrasto tra loro. In quel che resta della Libia troviamo i turchi in Tripolitania e i russi in Cirenaica. Anche la Siria ormai fratturata sperimenta sul suo territorio le influenze di Stati Uniti, Turchia, Federazione Russa e Israele.

 

In primo luogo, l’avanguardia antirussa, come Biden ha definito i paesi che dall’Artico scendono al Mar Nero, a ridosso del fronte ucraino e della Federazione Russa. Ad animare questo raggruppamento è l’idea che la guerra non debba finire solo con il ritiro dei russi da tutti i territori occupati, ma con la fine della potenza russa. Anzi, della Russia tout court. Vastissimo programma. Riassunto da un diplomatico scandinavo in risposta alla domanda su che cosa volesse dai russi: “Debbono sparire”. Storia e geografia accomunano scandinavi, baltici, polacchi e romeni, in ricorrente, plurisecolare disputa con i “moscoviti”. Paesi e popoli che hanno nel dna il timore dell’imperialismo russo in tutte le sue forme – zarista, sovietica, putiniana – e vedono nella resistenza ucraina lo strumento per liberarsi dalla prigionia di quest’incubo. Il sostegno a Kiev dev’essere illimitato, anche a costo di rischiare lo scontro diretto fra euroatlantici a guida americana e coppia russo-bielorussa (tacciamo dei cinesi).

La Polonia è punta di diamante di questa compagnia. Chiunque visiti oggi Varsavia ha immediata la sensazione di un paese che si prepara alla guerra. La postura polacca è in linea con la vicenda storica di una nazione che nei secoli appare o scompare a seconda del grado di conflitto o intesa fra tedeschi e russi. Gli Stati Uniti considerano oggi la Polonia il paese di massimo valore strategico in ambito europeo. L’alleato più fidato quando all’ordine del giorno è contenere la Russia. Sicché lo sostengono e armano di conseguenza. Varsavia conta di affermarsi nel prossimo decennio quale massima potenza militare europea. Tornano in evidenza le storiche pulsioni imperiali della Polonia, che ambisce a una propria sfera d’influenza dal Baltico al Mar Nero. La resistenza dell’Ucraina è condizione inaggirabile di questa aspirazione.

Nel cuore dell’Europa centrorientale troviamo però anche Ungheria e Slovacchia, soci euroatlantici che rifiutano lo scontro con la Russia, pongono condizioni al sostegno pro Ucraina, tengono aperte le comunicazioni con Putin. Per ragioni essenzialmente tattiche, legate al colore e al tono dei loro governi, ma anche economiche (flussi energetici). Causa tale inclinazione verso Mosca, entrambe sono trattate con diffidenza da Washington. Specie Budapest, dove Orbán si erge a protettore dell’esigua minoranza magiara in Transcarpazia, in nome del sogno grande-ungherese che tuttora considera la spartizione dell’Ungheria già asburgica sancita nel 1920 un obbrobrio da sanare.

I maggiori paesi dell’Europa occidentale hanno storicamente un approccio aperto alla Russia, persino cooperativo. A cominciare dalla Germania e dalla Francia, che si allontanano o avvicinano a Mosca in funzione dei loro molto altalenanti rapporti. Berlino è traumatizzata dal 24 febbraio e ancora non s’è ripresa. Malgrado la svolta epocale subito annunciata dal cancelliere Scholz, le sue Forze armate sono in stato pietoso. Anche a causa delle lotte intestine alla maggioranza di governo, il sostegno a Kiev è a singhiozzo. I fatti raramente seguono la retorica dell’appoggio all’Ucraina. Le armi promesse sono un elenco, quelle consegnate un altro, per tacere di quelle fornite e disperse nei meandri del contrabbando. Quanto all’economia tedesca, abituata a fruire da mezzo secolo dell’aggancio al gas russo e più di recente al mercato cinese, è in crisi strutturale.

La Francia ne profitta per riprendere il ruolo di leader della “coppia” inaugurata da de Gaulle e Adenauer, quando il Generale si riferiva alla Grande Nazione quale cocchiere e alla Bundesrepublik come cavallo da tiro del carro franco-tedesco. Sul piatto, Macron getta il suo apparato militare, il più potente del Vecchio Continente, e ne offre l’arsenale atomico quale ombrello per tutti i soci europei. Quasi potesse surrogare quello americano, se a Washington si affermasse la linea del ritiro dalla Nato. Macron lancia messaggi contraddittori, schierandosi per l’uso delle armi fornite dall’Occidente all’Ucraina contro bersagli in territorio russo, addirittura evocando l’invio di militari francesi nel paese invaso, salvo poi, unico fra gli europei, spedire un proprio inviato al Cremlino per assistere all’ennesima incoronazione di Putin.

L’Italia è più o meno nelle condizioni della Germania, non avendone le dimensioni economiche. La fitta rete di rapporti fra Roma e Mosca è stata sconvolta dall’invasione russa. Il Cremlino ci battezza “paese nemico” – con un pizzico di ironia. Il governo oscilla fra allineamento euroatlantico, reso più complicato dalle incertezze e dalle contraddizioni del capocordata americano, e aspirazione a chiudere la guerra il prima possibile. Il sottotesto, condiviso da molti sia a Parigi che a Berlino, è che comunque alla cessazione delle ostilità debba seguire la lenta ma paziente ricucitura di un sistema di sicurezza paneuropeo, per definizione comprendente la Russia. E che prevederà la leadership americana, a meno che Washington non impazzisca.

Se alla lista aggiungiamo Regno Unito e Turchia, pilastri della Nato quindi parte integrante del club euroatlantico, la maionese antirussa finisce di impazzire. Mentre Londra è schierata per principio con Washington e si offre nume tutelare dell’avanguardia antirussa, Ankara veleggia nella sua disinibita dimensione neoimperiale. Schierata con Hamas contro Israele e intermedia fra Kiev e Mosca, non accetta tutele americane né si illude più di integrare l’Unione Europea. Ma si guarda bene dal rompere i legami con l’Occidente.

Insomma, il continente europeo sta riprecipitando nelle sue classiche nevrosi. LUnione Europea, insieme alla Nato, è vestito di Arlecchino. Come è possibile? Uno sguardo retrospettivo ci aiuterà a intendere le derive correnti.

 

Tra utopia e nostalgia

Il sentimento di appartenere a uno spazio di civiltà europeo ha origini lontane.

Quando però ci mettiamo in cerca del “progetto europeo”, l’orologio della storia deve essere riportato indietro di un secolo. Precisamente al 1923, anno di pubblicazione di Pan-Europa, manifesto protoeuropeista dovuto alla penna appassionata di un aristocratico nippo-boemo, conte Richard Nikolaus Coudenhove-Kalergi. La tesi: dopo il crollo degli imperi europei, il mondo apparterrà ai grandi spazi di taglia continentale o superiore. Coudenhove-Kalergi premette: “Il mondo s’è emancipato dall’Europa”. Di più: “L’egemonia mondiale dell’Europa è crollata per sempre”. Per evitare che il nostro continente sia spartito tra americani, che lo vogliono comprare, e russi, che intendono conquistarlo, urge creare gli Stati Uniti d’Europa. Il conte li immagina quinto Grande planetario, con gli imperi americano, britannico, russo e sino-giapponese (sic, forse intendendo lo sbarco nipponico in Cina).

Idea elitaria, che troverà augusti sostenitori come Thomas Mann e Albert Einstein, ma non uscirà mai dai salotti e dalle conferenze promosse dal coraggioso agitatore, nel frattempo passato dal passaporto cecoslovacco al francese. Ibridazione identitaria che scatenerà i complottisti, tuttora convinti che si tratti di cabala massonica. A Coudenhove-Kalergi, pur sempre di severa educazione asburgica, va riconosciuta pignoleria geografica: la sua Pan-Europa va dalla Polonia al Portogallo e comprende le colonie africane e levantine delle potenze europee. L’idea d’Eurafrica, che i francesi intenderanno fino ai primi anni Sessanta come obiettivo della Comunità Economica, trascorrerà fino agli europeisti del secondo dopoguerra. Robert Schuman vi accenna nella sua celebre Dichiarazione del 9 maggio 1950, vangelo del moderno europeismo – in alcune pubblicazioni brussellesi è stata censurata perché geopoliticamente scorretta.

Pan-Europa è testo che merita l’attenzione degli storici. Date la sua premessa – l’egemonia degli europei è finita – conteneva in sé l’annuncio della sua irrealizzabilità.

L’altro testo di culto dell’europeismo è invece frutto del secondo trauma, la guerra hitleriana. Opera di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, cui contribuiscono Eugenio Colorni e Ursula Hirschmann. Vergato nel 1942 su carta di sigaretta al confino di Ventotene, questo manifesto s’intitola infatti all’isola pontina. Vi si rilancia l’obiettivo degli Stati Uniti d’Europa, con toni e intenti radicali, libertari, più qualche assonanza leninista in campo organizzativo. Di Coudenhove il gruppo di Ventotene condivide l’elitismo, inteso avanguardia rivoluzionaria. Partito di professionisti della rivoluzione europea: “Attraverso questa dittatura del partito rivoluzionario si forma il nuovo stato, e intorno ad esso la nuova vera democrazia”. Scopo: “La definitiva abolizione della divisione dell’Europa in stati nazionali sovrani”. Ancora una fine della storia. A differenza di Pan-Europa, il Manifesto di Ventotene evita di determinare i territori che dovrebbero costituire gli Stati Uniti d’Europa, intesi Federazione.

L’idea degli Stati Uniti d’Europa non è tuttavia morta. Anima élite che non riescono ad allargare il consenso per tanta avventura. Soprattutto, manca una strategia per muoverci da qui all’imprecisato lì. L’utopia è nostalgia di un passato che non fu, in attesa che qualcuno, a dispetto dell’assenza di un popolo e di un’opinione pubblica europea, ne faccia la propria bandiera.

 

 

 

L’espansione versto est della Nato

di Laura Canali

 

 

Se l’America ci saluta

Riassumiamo: quel poco o molto di Europa oggi disponibile dipende dalla decisione americana di restare da noi dopo il 1945. Questa scelta, dovuta al timore del comunismo, quindi votata a sbarrare la strada all’Urss nel caso tentasse di penetrare l’Europa occidentale e a scongiurare una rinnovata intesa russo-germanica, è alla radice delle istituzioni comunitarie. Consideriamo le date chiave del consolidamento della nostra Europa, ai tempi della cortina di ferro. Prima il Piano Marshall (1947), impegno di Washington nella ricostruzione della “sua” Europa perché non cedesse a tentazioni filosovietiche. Poi la Nato (1949), garanzia dell’ombrello nucleare a stelle e strisce sempre in chiave antimoscovita. Poi la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (1951), premessa della Comunità Economica Europea e dell’Euratom (1957).

Qui giocano un ruolo anche gli europeisti europei, pur mossi da obiettivi diversi. Per la Francia l’Europa serviva a controllare la Germania, dovutamente spartita, e ad affermare sé stessa come leader continentale, con velleità terzaforziste. Per la Germania di Bonn, guidata da un cattolico renano che detestava Berlino, la Prussia e i comunisti, era la leva per la riabilitazione internazionale. Argomento valido anche per l’Italia. Con i tre del Benelux (Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo) si costituiva un nucleo neocarolingio destinato a durare per tutta la guerra fredda e ad accompagnare l’espansione di Ue e soprattutto Nato verso est, profittando del suicidio sovietico (carta 2 L’espansione verso est della Nato).

Che cosa resta oggi di quelle intenzioni? Non molto, salvo l’interesse americano a sconnettere la Germania dalla Russia e dalla Cina, testimoniato dal misterioso attentato al gasdotto baltico Nord Stream che portava l’idrocarburo moscovita direttamente al cliente germanico. La guerra ha sconvolto formule e ritualità comunitarie. E ne ha riscoperto le rivalità storiche. Le faglie europee non sono occasionali. Testimoniano della profondità delle identità veterocontinentali, mai sepolte.

 

L’istmo d’Europa

di Laura Canali

 

L’istmo d’Europa vuole rappresentare i due schieramenti che si scontrano nella guerra di Ucraina: i paesi Nato che sostengono Kiev contro la Federazione Russa, che con la Bielorussia compone il fronte opposto. Le due linee nel centro della mappa sono molto importanti. La linea rossa, anche denominata Linea Putin, unisce i porti di Kaliningrad e della Crimea, passando per Tiraspol’. La linea attraversa il punto più stretto dell’Europa, tra Mar Baltico e Mar Nero, per questo denominato istmo. A est della linea rossa si sconfina nell’area considerata dai russi come propria zona di sicurezza. Il centro di addestramento “euro-atlantico” di Yavoriv in territorio ucraino – paese non Nato – dista circa dieci chilometri dal confine polacco ed esiste dal 1940. La linea rossa di Putin è fronteggiata dall’altrettanto importante asse euro-atlantico (Danzica-Costanza), che i russi non devono valicare. La ferrovia Rail2Sea rientra negli assi di sviluppo del progetto dell’Iniziativa dei Tre Mari (Baltico, Nero, Adriatico), necessari al collegamento delle basi militari Nato e Usa. In Romania si trovano diverse basi di pertinenza alleata o statunitense e per questo è in costruzione anche un’autostrada che corre lungo l’asse euro-atlantico proprio per potenziare i collegamenti verso la Polonia e le regioni mitteleuropee dell’Ucraina. Kaliningrad e la Crimea sono fondamentali per le flotte della Federazione Russa anche se nel Mar Nero la Russia ha subìto gravi perdite e sta cercando di proteggere le proprie imbarcazioni costruendo una nuova base navale in Abkhazia (territorio separatista filorusso della Georgia). Il Mar d’Azov e il Mar Nero sono fondamentali per la Russia.

 

La cortina di ferro è saltata. Se ne sta costituendo una nuova, che potrebbe svelarsi d’acciaio, lungo l’istmo d’Europa che lascia fra Russia e Nato cuscinetti esigui, quasi inesistenti (carta 3 L’istmo d’Europa). Quando la guerra d’Ucraina produrrà infine il taglio decisivo fra Russia/Bielorussia e Nato/Ue dovremo abituarci a convivere con un’instabilità intensa e rischiosa. Non è troppo presto per concepire e promuovere, a ostilità cessate, un assetto di sicurezza paneuropea. Per noi italiani, un bel salto oltre la linea d’ombra. Dall’adolescenza alla maturità. Alle responsabilità che non possiamo scansare quando ci giochiamo la vita.

 

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