CONCETTO VECCHIO INTERVISTA LUCIO CARACCIOLO: “ Il ‘no’ a Scalfari ha cambiato la mia vita. Sono stato più fortunato con la geopolitica che con la Roma”

 

REPUBBLICA — 7 FEBBRAIO 2024
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70 anni di Lucio Caracciolo: “Il ‘no’ a Scalfari ha cambiato la mia vita. Sono stato più fortunato con la geopolitica che con la Roma”

 

 

Lucio Caracciolo (foto di Concetto Vecchio)Lucio Caracciolo (foto di Concetto Vecchio)

Intervista al direttore di Limes: “Quando arrivai a Repubblica pensavano tutti che fossi il figlio dell’editore, il principe Carlo, così ho scroccato qualche caffè. Io putiniano? No. M’interessa capire, non tifare”

Lucio Caracciolo, lei compie 70 anni e Limes va a gonfie vele, in molti pensano ancora che lei sia il figlio del principe Caracciolo, l’ex editore di Repubblica.

“Quando arrivai nella redazione di piazza Indipendenza lo pensavano anche diversi colleghi: ne ho approfittato per scroccare molti caffè”.

Com’è arrivato al giornalismo?

“Ero amico di Enrica Scalfari, la figlia fotografa del fondatore”.

La raccomandò?

“Eravamo insieme, al Tasso. Nell’estate del 1975 con un gruppo di amici andammo a Parigi, e mentre passeggiavamo a Saint Germain de Pres, mi disse che suo padre stava per varare Repubblica e cercava dei giovani da lanciare”.

 

Con il padre
Con il padre 

 

Fu subito assunto?

“No, fui messo alla prova, in un settore chiamato Rotor”.

Il Rotor?

“Non ho mai capito cosa significasse, fatto sta che eravamo in sessanta, giovani di belle speranze, alle dipendenze di un grande giornalista come Gianluigi Melega. Alla fine del tirocinio restammo in sei”.

Chi?

“Ricordo Mauro BeneAntonio CianciulloLaura Ballio”.

Non aveva esperienza?

“Militavo nella Fgci, la federazione dei giovani comunisti, e scrivevo già per Nuova Generazione, diretto da Renzo Imbeni, ma con uno stile giornalistico immaturo”.

Che ricordo ha di Scalfari?

“Era una specie di semidivinità. Un monarca alla cui volontà anche i più lontani dalla sua linea volentieri si assoggettavano”.

Non c’era discussione?

“Al contrario, in riunione Scalfari la sollecitava. Erano riunioni fluviali, poi lui chiamava il potente di turno e lo metteva in viva voce”.

 

Allo stadio
Allo stadio 

 

Tutti potevano ascoltare?

“Sì, ricordo telefonate con Pertini, con Cossiga. A me parve subito un segno della grande autorità di cui Scalfari godeva nel mondo politico: solo un direttore pienamente indipendente poteva permettersi una simile libertà”.

Quanti anni aveva?

“Ventidue. Avevo smesso di studiare filosofia, dando solo gli esami per evitare il servizio militare, e finii dentro il frullatore del giornalismo. Per fortuna non c’era il numero del lunedì, così la domenica la potevo dedicare alla Roma”.

Di cosa si occupava?

“Di politica interna. Mi misero a seguire i partiti minori, il Partito repubblicano, quello liberale. Cominciai a frequentare Montecitorio confrontandomi con i codici misteriosi della politica italiana”.

Perché misteriosi?

“Perché la logica del discorso era del tutto refrattaria ai dati di realtà. I politici si sentivano appartenenti a un ceto sacerdotale, riconoscendosi reciprocamente anche se partivano ideologicamente dalle posizioni più lontane”.

La politica già allora era lontana dal Paese reale?

“Nel linguaggio totalmente. E questi interna corporis cozzavano col mio carattere. Però ho imparato il mestiere: scrivere rapidamente e in maniera chiara”.

Poi lei diventa capo del politico, con Paolo Pagliaro.

“Sì, un giorno mi chiama Scalfari e mi affida questa responsabilità. Avevo 27 anni e dovevo coordinare mostri sacri come Miriam MafaiGiorgio RossiCarlo RivoltaFausto De LucaVanna Barenghi”.

Però divertente, no?

“Non mi divertivo. Quel tipo di lavoro contrastava con la mia pigrizia e la mia ansia da approfondimento. Tornai da Scalfari e gli dissi “il mio ciclo giornalistico è finito”.

Si dimise?

“Sì. Era il 1983. Avevo 29 anni”.

E Scalfari?

“Mi guardò come se fossi matto. Non capiva”.

Non la convinse?

“Ci scambiammo delle lettere appassionate, ma io rimasi sulla mia posizione. E lasciai Repubblica”.

Per fare cosa?

“Intanto mi sono laureato, con Paolo Spriano, con una tesi dal titolo “Rinascita e liquidazione della socialdemocrazia tedesca nella zona d’occupazione sovietica nel 1945-46”.

Non lavorava?

“Un giorno mi telefona Paolo Flores D’Arcais, che dirigeva Micromega con Giorgio Ruffolo, e mi propone di fare il caporedattore. Dissi di sì: finalmente potevo occuparmi di argomenti più sostanziali”.

Scopre lì la geopolitica?

“Sì, grazie a un dossier che facemmo coordinato da Angelo Bolaffi, in collaborazione con la rivista francese Hérodote. Fu una folgorazione. Uno dei loro autori, Michel Korinman, mi disse: “Ma perché non facciamo rivista di geopolitica in italiano?”.

Dove prese i soldi?

“Bussai alla porta di Carlo Caracciolo”.

Suo padre.

“Sì, sì (Ride). Mi ascoltò con attenzione e poi mi disse: “Facciamolo”. Ma nel suo sguardo divertito avvertii la convinzione che saremmo durati due numeri”.

 

Con la moglie Laura Canali
Con la moglie Laura Canali 

 

Che tipo era Carlo Caracciolo?

“Un vero editore, con una cultura larga e profonda, dotato di un grado di snobismo che lo aiutava a mantenere la distanza da se stesso”.

Che anni erano?

“Il 1993. C’era la guerra nei Balcani, a cui dedicammo il primo numero. Tirammo diecimila copie, che andarono esaurite subito”.

Quali sono i numeri che hanno venduto di più?

“Il primo numero sulla guerra in Ucraina 130mila copie. In media, inclusa online, veleggiamo sulle 50mila copie”.

Quindi non è vero che la politica internazionale non interessa?

“Ho sempre pensato che fosse un problema di offerta, non di domanda”.

Le dà fastidio quando la definiscono filo Putin?

“Per niente. M’interessa capire, non tifare. Quello che passa per putinismo è semplicemente il mio modo di valutare il punto di vista degli altri, compresi i più lontani da me: se non facessi così non capirei nulla”.

Era convinto che non ci sarebbe stata l’invasione.

“Mi sono sbagliato. In buona compagnia peraltro. Perché ero dell’idea che Putin aveva tutto da perdere da un’invasione. La conferma che la storia è piena di elementi di irrazionalità”.

Quindi anche un esperto come lei può sbagliare una previsione?

“È naturale. L’importante è non farsi schiacciare dalla logica del cui prodest”.

Cosa vuol dire?

“Trent’anni fa, quando pubblicammo il primo numero di Limes, mi venne a cercare un simpatico agente del Mossad. Ci vedemmo in via Veneto per un caffè, e lì lui mi diede un insegnamento che non ho dimenticato: le motivazioni profonde di un popolo dipendono dal contesto storico. Non esiste un punto di vista universale”.

I leader sono sopravvalutati?

“Tendiamo a schiacciare il conflitto nel duello Putin-Zelensky, ma il contesto nel quale agiscono è più importante di loro”.

Non è inevitabile schierarsi in un conflitto che minaccia anche i nostri valori?

“È un punto di vista, politicamente e moralmente comprensibile, ma il mio compito non consiste nello sventolare delle bandiere, bensì nel descrivere il campo di battaglia. Altrimenti non farei geopolitica”.

La geopolitica è una scienza?

“No. È un modo per soddisfare la curiosità verso le cose del mondo. Infatti su Limes ospito spesso articoli di cui non condivido il contenuto”.

Non è singolare?

“E perché? Ho sempre avuto una passione per le idee che non condivido, a tal punto che a volte io stesso non condivido le mie di idee”.

Contesta l’ideologismo?

“Penso che sia un effetto della nostra arretratezza culturale”.

Limes ora è anche una scuola.

“Siamo al quarto anno, le iscrizioni si chiudono l’8 marzo. L’hanno già frequentata in cinquecento”.

Quanto costa?

“All’anno 4950 euro, 5500 in due rate”

E chi sborsa 5000 euro?

“Imprenditori, militari, dirigenti pubblici, intelligence, studenti. Anche il presidente della Camera Lorenzo Fontana è stato nostro studente”.

Suo padre cosa faceva?

“Professore universitario, anche la mamma lo era. Sentirli discutere a tavola delle noie della carriera accademica mi ha convinto a scegliere un’altra strada”.

Educazione borghese quindi.

“Sì, ma molto di sinistra, in famiglia ero quello più a destra. Mi hanno mandato alla scuola svizzera, che ho frequentato dal Kindergarten fino alla terza media in via Marcello Malpighi 14: ne ho eccellenti ricordi”.

E poi c’è la sua passione per la Roma.

“Negli anni Sessanta mio padre il sabato mi portava a vedere la Lazio, allora in serie B, al Flaminio, e la domenica la Roma, all’Olimpico”.

Era laziale?

“No, romanista, ma mi è venuto il dubbio che fosse criptolaziale”.

E lei?

“Non ebbi esitazioni a scegliere i colori giallorossi. Ho l’abbonamento alla Tevere dal 1973, spesso la Roma è il mio primo pensiero la mattina. La Roma è un piacere ma fa anche soffrire”.

 

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