10 febbraio — Giorno del ricordo – // – ANPI III Municipio Roma “Orlando Orlandi Posti” @ANPIRomaPosti — 17.00 – 7 FEBBRAIO 2024 · ::: ARBE, LA AUSCHWITZ ITALIANA Giorno del Ricordo….di tutte le Vittime

 

Giorno del Ricordo, le iniziative in programma giovedì 10 febbraio | Comune di Pistoia

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ARBE, LA AUSCHWITZ ITALIANA
Giorno del Ricordo….di tutte le Vittime

 

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«Campo di concentramento non significa campo di ingrassamento. Individuo malato = individuo che sta tranquillo».
Generale Gastone Gambara

Mettiamola così: se un Paese mettesse in piedi un campo di concentramento rinchiudendovi in meno di 14 mesi circa 10mila persone, e facendone morire 1.500, passerebbe alla storia come aguzzino (il tasso di mortalità, del 15 per cento, è pari a quello del lager di Buchenwald). Se lo fa l’Italia, invece, niente.

 

Alzi la mano chi ha mai sentito parlare del campo di internamento di Arbe. Oppure di quelli di Gonars, Monigo, Renicci e vari altri. Probabilmente quasi nessuno. Eh già, perché l’Italia preferisce l’oblio quando il passato è imbarazzante. E invece bisogna ricordare. Anche gli italiani hanno commesso efferatezze, hanno ammazzato, hanno rinchiuso nei campi vecchi, donne e bambini facendoli morire di fame e di malattie.

 

Nel 1941 l’Italia invade la Jugoslavia e si annette una parte del territorio, nelle attuali Slovenia e Croazia. Alle popolazioni locali l’idea di essere dominati da una potenza straniera non piace granché e dopo quasi un anno di situazione relativamente tranquilla, comincia una furiosa guerriglia partigiana. La reazione italiana è durissima: rastrellamenti, fucilazioni, deportazione delle popolazioni civili dai villaggi delle zone dove sono attivi i partigiani. Viene creata una rete di campi di internamento (per chi volesse approfondire: Carlo Spartaco Capogreco, I campi del duce, Einaudi) dove sistemare le popolazioni deportate. Uno di questi campi sorge sull’isola di Arbe, nel golfo del Quarnero (oggi Rab, Croazia). Rispetto agli altri ha avuto un triste primato: quello di essere il più duro, quello dove sono morte più persone. È gestito dal Regio esercito, non da camice nere, milizie o quant’altro; non è un campo strettamente “fascista”, è un campo “italiano”.

 

Il primo gruppo di internati (240) ci arriva esattamente settant’anni fa, nel luglio 1942, poi ne giungono altri a gruppi, a fine agosto arrivano mille minori di 16 anni, tutti assieme. Quasi tutti sono vittime dei rastrellamenti in Slovenia, pochi i croati. Il campo sorge nel vallone di Sant’Eufemia, sul fondo della baia di Campora (Kampor), su un terreno paludoso, sottoposto all’azione dell’alta marea e a rischio inondazione (Arbe, contrariamente al resto della Dalmazia, è ricchissima d’acqua dolce).

 

Gli internati, come detto soprattutto vecchi, donne e bambini, vengono sistemati all’interno di tende. Le condizioni di vita sono durissime:

 

«Campo di concentramento non significa campo di ingrassamento», annota il generale Gastone Gambara, comandante dell’XI corpo d’armata che aveva giurisdizione sulla zona (naturalmente è morto senza mai dover rispondere delle sue azioni nei Balcani, e dopo esser stato reintegrato nell’esercito nel 1952). Condizioni di vita aggravate dal sadico comportamento del comandante del campo, il tenente colonnello dei carabinieri Vincenzo Cuiuli (condannato a morte dai partigiani, si taglierà le vene la notte prima dell’esecuzione). Gli interrogatori degli internati, dopo la liberazione del campo da parte degli jugoslavi, l’8 settembre 1943, sottolineeranno anche la crudeltà del cappellano, don Enzo Mondini, mentre rimarcheranno i tentativi messi in atto dagli ufficiali medici per alleviare almeno di un po’ le pene.

 

Gli internati di Arbe muoiono per denutrizione (la razione era 80 grammi di pane al giorno, più una brodaglia cucinata in ex bidoni di benzina), per malattie (il generale Gambara, enuncia il principio «internato ammalato uguale internato tranquillo» e fa distribuire paglia infestata dai pidocchi) e per calamità naturali.

L’episodio più grave avviene nella notte tra il 29 e il 30 settembre 1942 quando un furioso temporale provoca un’inondazione alta un metro che devasta il settore femminile, trascinando in mare tende, donne e bambini. Il giorno dopo vengono recuperati dalla baia decine di corpicini galleggianti. La sezione femminile e quella maschile sono divise da un ruscello che però è talmente infestato dai pidocchi da rendere impossibile non solo berne l’acqua, ma persino usarla per lavarsi. Gli internati inscheletriti dalla fame, cotti dal sole, sporchi all’inverosimile, suscitano l’intervento del Vaticano che cerca di alleviarne le spaventose condizioni, viene costruita qualche baracca, ma nulla più. Herman Janez, allora un bambino di sette anni, ricorda il terribile inverno passato sull’isola: «Le guardie ogni giorno facevano l’appello di noi ragazzini per poi portarci nella rada di mare antistante al campo e farci fare il bagno. Ci nascondevamo, ma poi questi ci stanavano e ci costringevano ad andare in acqua. Eravamo già deboli, pieni di zecche e di pidocchi, di piaghe purulente, puzzavamo di sterco nostro e altrui, e dopo questi bagni un semplice mal di gola ha portato tanti di noi al camposanto». La mortalità maggiore si registra quando il freddo pungente della bora porta via gli internati a grappoli. Non si sa esattamente quanti siano stati gli internati. Le stime vanno da 7.500 a 15.000. Teniamoci su una prudente via di mezzo e diciamo attorno ai 10mila. I morti accertati, con nome e cognome, sono 1.435, ma quasi certamente sono di più perché i sopravvissuti hanno testimoniato che poteva capitare di seppellire due salme in una tomba e che gli internati nascondessero il corpo di qualche deceduto per dividersi la sua porzione di brodaglia.

Gli ebrei, per lo più scampati agli ustascia croati, erano trattati meglio perché il Regio esercito non li considerava nemici, come invece accadeva per gli sloveni. Per esempio vivevano in baracche e non in tenda e non subivano le persecuzioni riservate agli altri.

Evelyn Waugh li menziona in un suo racconto, “Compassione”: «Con improvvisa veemenza la donna, la signora Kanyi, tacitò i consiglieri e si mise a raccontare la sua storia. Quelli là fuori, spiegò, erano i sopravvissuti di un campo di concentramento italiano sull’isola di Rab. Per la maggior parte erano cittadini jugoslavi, ma alcuni, come lei, erano rifugiati dall’Europa centrale. Alla fuga del re, gli ustascia avevano cominciato a massacrare gli ebrei. E gli italiani li avevano radunati trasferendoli sull’Adriatico. Con la resa dell’Italia, i partigiani avevano tenuto la costa per qualche settimana, riportando gli ebrei sul continente, reclutando tutti quelli giudicati utilizzabili, e imprigionando il resto».

Dal 1945 a oggi, mai un rappresentante ufficiale dello stato italiano è andato ad Arbe a deporre una corona di fiori, mai il console italiano della vicina Fiume (Rijeka) è andato a pronunciare un’orazione funebre, mai l’ambasciatore italiano a Zagabria ha sentito il dovere di chiedere scusa. Soltanto una volta un rappresentante dell’allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, è andato in forma ufficiale alle commemorazioni del campo di Gonars, in provincia di Udine. Ma mai l’Italia repubblicana ha preso definitivamente le distanze da quanto commesso ad Arbe e nei Balcani dall’Italia fascista.

Alessandro Marzo Magno – vedi sotto 

ALESSANDRO MARZO MAGNO

 

Venezia - Alessandro Marzo Magno
LATERZA 2022- RISTAMPA 2023

L’alfa e l’omega della parabola veneziana si vedono a Torcello: qua una lapide del 639, la più antica testimonianza scritta dell’esistenza di Venezia; là i banchetti acchiappaturisti di souvenir made in China. In mezzo, quasi mille e quattrocento anni: alcuni gloriosi e potenti, altri ricchissimi e splendenti, altri ancora declinanti e incerti.

Con il piglio del cronista e con il rigore dello storico, Alessandro Marzo Magno ci accompagna in un’avvincente passeggiata lungo i secoli per ricostruire la storia che ha portato alcune isolette della laguna adriatica a dominare per secoli mezzo Mediterraneo, e non solo. Una storia di Venezia come questa non la si è mai letta: ogni capitolo si apre con un reportage che racconta come oggi si presenti un luogo simbolo della Serenissima. Il libro ci porta in alcuni dei centri più importanti dello stato da Mar: Famagosta, Cipro, dove nel 1571 è stato scuoiato vivo Marcantonio Bragadin; Heraklion, Creta, assediata per 22 anni dagli ottomani; Zara, la città dalmata che nel 1204 i crociati conquistano per pagarsi un passaggio in nave verso Costantinopoli. Lo stato da Terra è raccontato, tra gli altri luoghi, dal Pizzo dei Tre Signori, la montagna che per tre secoli ha segnato il confine tra Venezia, Milano e la Svizzera; dall’università di Padova, 800 anni nel 2022; da Palmanova, fortezza sì, ma anche città ideale del rinascimento. La storia di Venezia non si ferma con la caduta della repubblica, nel 1797; queste pagine continuano con l’Ottocento, quando la città diventa un importante centro industriale, e arrivano all’oggi, con lo spopolamento che rischia di farla scomparire.

 

Alessandro Marzo Magno

Alessandro Marzo Magno, veneziano per tradizione e milanese per vocazione, si è laureato in Storia all’Università di Venezia Ca’ Foscari. Giornalista, dopo essere stato per quasi dieci anni responsabile degli esteri del settimanale “Diario”, dirige il semestrale “Ligabue Magazine” e collabora con “Il Gazzettino”. Ha pubblicato libri di argomento storico, tra i quali L’alba dei libri. Quando Venezia ha fatto leggere il mondo (Garzanti 2012, più volte ristampato e tradotto in inglese, spagnolo, giapponese, coreano e cinese). Per Laterza è autore di La splendida. Venezia 1499-1509 (2019), L’inventore di libri. Aldo Manuzio, Venezia e il suo tempo (2020, tradotto in giapponese e spagnolo) e Venezia. Una storia di mare e di terra (2022, tradotto in cinese, greco, polacco e russo).

 

Casanova

 

LATERZA  2023

 

 

L'inventore di libri

LATERZA 2022

 

 

La splendida

LATERZA 2021

 

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