LARA RICCI, Itala Vivan: un’italiana nel sogno della rinascita africana. L’africanista che ha portato in Italia i maggiori scrittori del continente…IL SOLE 24 ORE.COM, 29 settembre 2023

 

 

 

 

IL SOLE 24 ORE.COM– 29 settembre 2023
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Itala Vivan: un’italiana nel sogno della rinascita africana.

L’africanista che ha portato in Italia i maggiori scrittori del continente racconta gli anni entusiasmanti dell’indipendenza, anni che ha vissuto in prima persona, e i grandiosi autori che vi hanno preso parte

 

 

di Lara Ricci, 

italo-canadese, cura La Domenica – Cultura, Il Sole 24 ore, insegna a Losanna

 

Itala Vivan: un'italiana nel sogno della rinascita africana ...

Itala Vivan tra Gcina Mhlophe ( a sinistra ) e Napo Masheane ( a destra ) a Festivaletteratura di Mantova

Il nome di Itala Vivan non può sfuggire a chi si occupi di letterature postcoloniali. Ogni volta che si vanno a cercare le prime edizioni dei maggiori scrittori africani, compare. È stata lei a portare in Italia i più grandi autori del continente, lei a farli pubblicare, a farli tradurre quando in Italia non si sapeva neppure chi fossero. Quando il Nobel e i maggiori premi per la letteratura internazionale non si erano ancora accorti di quanta cultura, di quanta arte, di quanta genialità si dispiegassero in questi Paesi appena nati che, sulle macerie della colonizzazione, cercavano di costruirsi. Itala Vivan ha curato la pubblicazione di romanzi e di raccolte di racconti per le case editrici Giunti, Feltrinelli, Adelphi, Baldini Castoldi Dalai. Ha fondato e diretto la collana di letterature africane e caraibiche «Il lato dell’ombra» per la casa editrice Edizioni Lavoro, e poi ha fatto parte del comitato che ha fondato Astrea, proponendo i primi tre titoli. Ha studiato, e tuttora studia, gli esiti letterari dei nuovi scrittori italiani di origine africana. Tra gli autori da lei curati vi sono

Wole Soyinka, Nadine Gordimer, Chinua Achebe, Nagib Mahfuz, Olive Schreiner, Elsa Joubert, Buchi Emecheta, Pepetela, Mia Couto, Thomas Mofolo, Richard Rive, Tahar Ben Jelloun, Sipho Sepamla, Zoe Wicomb, Bessie Head, Amadou Hampâté Bâ, Amos Tutuola, Rose Zwi, Ken Saro-Wiwa, Nuruddin Farah, Driss Chraïbi, André Brink, Peter Abrahams, Arthur Maimane, Lisandro Otero, Abdelkébir Khatibi, Abdlewahab Meddeb, Rachid Boudjedra, Cyprian Ekwensi, Jean Jacques Alexis, Jacques Roumain, Maryse Condé, Sony Labou Tansi e moltissimi altri.

 

L’abbiamo incontrata a Mantova nel giardino di Palazzo Castiglioni, durante Festivaletteratura, con cui collabora da molti anni per individuare i più interessanti autori da invitare. Era seduta a un tavolino e ci guardava con occhi penetranti.

È bastato fare una sola domanda e, seguendo il filo della sua voce, siamo stati proiettati nell’entusiasmante stagione delle indipendenze africane, che lei, abbiamo scoperto, ha vissuto in prima persona. Una storia interessantissima e ancora misconosciuta. Non abbiamo voluto interromperla, seguendola in ogni porta che apriva su questo percorso da lei raccontato con una proprietà di linguaggio tale che pareva leggesse un saggio stampato, e che non abbiamo voluto alterare.

 

Come è successo che ha iniziato a occuparsi di letteratura postcoloniale, credo ancor prima che venisse coniato il termine postcoloniale?

Sì, prima che si iniziasse a usare questo termine. Sono nata come comparatista ( cultura, diritto, altro che si studio in comparazione ad altra cultura, diritto ecc ): con una borsa Fulbright andai negli Stati Uniti, perché in Italia gli studi comparatistici non esistevano, erano stati eliminati dalla riforma Gentile. Andai nel 1961 spinta da un forte interesse per la letteratura americana. Restai tre anni per un PhD sulla letteratura puritana, quella della prima America, sconosciuta in Europa, dove era considerata un prodotto provinciale, non degno dal punto di vista letterario. Io credevo invece fosse interessante. Il ’600 americano significa l’esodo dall’Europa delle frange più radicali della Riforma calvinista inglese e la fondazione della nuova Gerusalemme, della nuova Canaan, del mondo nuovo. Tutto questo portava con sé un discorso molto interessante anche dal punto di vista sociopolitico. Infatti in tale contesto si trasferirono, naturalmente, molti modelli europei e dunque anche la credenza nella stregoneria e il rapporto rigido con le istituzioni religiose, che poi lì, nella prima America, si trasformarono addirittura in teocrazia. Ciò generò frange di contestazione molto interessanti, che tra le donne si espressero molto spesso come comportamenti più che come prese di posizione teoriche (salvo un’eccezione, Anne Hutchinson, che fu una grande teorica). Tutte le altre erano persone che avevano dei comportamenti trasgressivi: la trasgressione era di per sé un’affermazione di tipo sociopolitico, antisistema e di innovazione, di sperimentazione di direzioni diverse.

 

Tutto questo fece sì che io mi interessassi al fenomeno della colonizzazione e alle problematiche non solo politiche ma anche culturali che questo fenomeno implicava. Perché colonizzare significava non soltanto occupare un territorio, significava imprimere la propria orma culturale, trasformare, magari eliminare la cultura precedente, possibilmente anche fisicamente, in molti casi, perché c’era l’occupazione territoriale e via dicendo. Trasportare una propria cultura che poi si trasformava, perché il contesto territoriale era diverso, i modelli su cui si superimponeva erano diversi e quindi si creava quella che oggi noi chiamiamo una cultura coloniale, che in molti casi si affermava con rapidità e che era sempre molto violenta. Mi resi conto nel contesto dei miei studi che questa violenza che caratterizzava l’America, gli Stati Uniti, e che io avevo riscontrato anche vivendoci, era una violenza “genetica”. E credo ancora oggi che sia così, che sia una violenza che appartiene alla radice stessa di quella società, non è un fenomeno superficiale: non è che cambiando una legge sia possibile sanare questa violenza, perché è parte della matrice stessa di quella cultura, di quel sistema economico, di quel sistema di pensiero, di quel sistema di vita.

Naturalmente poi negli Stati Uniti c’era la sovraimpressione della grande ondata di deportazione degli schiavi che aveva accresciuto e reso ancor più tragica questa storia (anche se nella prima America questa cosa si vedeva poco, perché la deportazione degli schiavi era appena cominciata).

In questo contesto io mi formai come comparatista molto legata agli studi di antropologia e di sociopolitica. E quando poi ritornai in Europa era chiaro che il mio orientamento, anche se la formazione era una formazione letteraria, si era spostato di asse e venne a combaciare con quella che poi negli anni ’70 fu la grande ondata di politica anticoloniale, soprattutto nella sinistra europea e italiana, in modo molto particolare.

Risale ai primi anni ’60 l’ondata delle ultime indipendenze delle ex-colonie, e segnatamente di quelle africane, ed ecco perché nacque il mio interesse per l’Africa: perché proprio l’Africa in quegli anni vide la trasformazione delle colonie in Paesi indipendenti e quindi automaticamente, io come molti altri, rivolgemmo la nostra attenzione a queste nuove entità statuali, ma anche a queste culture nella inconscia speranza che ex Africa semper aliquid novi, cioè che dall’Africa ci venisse un nuovo discorso. Che queste nuove indipendenze portassero a dei nuovi Paesi, cosa che sappiamo bene non è stata. Anche se lo credo possibile ancora oggi guardando, à rebours, a ritroso, con senso critico.

E quindi l’arco della mia osservazione va da questo retroterra di preparazione letteraria e di attenzione politico-culturale, i due elementi fusi assieme, che poi si trasferirono su una zona che presentava al calor bianco la realtà di una ulteriore trasformazione: la fine delle colonie, la fine dei grandi imperi europei e l’attesa di costruire qualcosa di diverso.

 

Ho poi vissuto molto fuori d’Italia, molto in America, molto in Inghilterra, ho avuto diversi rapporti con i francesi con cui avevo molti progetti di lavoro, di studio, e quindi la mia attenzione nei confronti delle culture extraeuropee era facilitata, perché in Italia si sapeva poco di quanto stava avvenendo altrove, mentre in Inghilterra il grande impero che crollava era una realtà, palese, palpabile: l’impero crollò, andò a fondo, in quegli anni.

Allora successero molte cose interessanti. Tra le altre il fatto che i figli dell’impero decisero di andare nella testa dell’impero, di muoversi verso l’impero. La grande immigrazione cominciò in Inghilterra nel ’48 e in Francia negli anni ’60, da noi è incominciata solo negli anni ’90. Io cominciai ad andare in Africa di persona, anche per periodi molto lunghi, dai primi anni ’70 in poi, mentre vivevo a Londra, dove abitai molti anni. Ero attachée all’Istituto italiano di cultura.

E in Africa ho avuto modo di vedere molte cose. Per esempio per me è stata una grande lezione rimanere a lungo in Tanzania, questo nuovo Paese che allora era molto interessante. Le prendo come esempio la Tanzania perché è un caso di studio. Era un ex protettorato, un territorio protetto dalla Gran Bretagna, che questa aveva tenuto in poco conto. Era anche una ex-colonia tedesca, il Tanganica, fino alla fine della prima guerra mondiale – per un periodo breve, perché i tedeschi entrarono nel gioco imperiale molto tardi, anche se con grande crudeltà e violenza. Poi la Tanzania si configurò come Paese indipendente, prima con molta turbolenza e con difficoltà di aggregazione delle sue parti – ci fu la questione di Zanzibar, tutto il discorso dell’Africa Orientale, del rapporto con gli arabi (di queste cose racconta molto bene Abdulrazak Gurnah) – e poi divenne uno Stato socialista con Julius Nyerere.

Era molto interessante vedere che cosa ne aveva fatto Nyerere. E in questo Paese che era stato sì colonizzato, ma come dicevano i miei amici tanzaniani, “troppo poco colonizzato”, era interessante vedere cosa dicevano le persone, cosa facevano, cosa succedeva, che rapporto avevano con gli altri movimenti anticoloniali. Difatti lì incontrai membri del Frelimo (il fronte di liberazione del Mozambicondr) che combattevano attivamente contro la dominazione coloniale portoghese in Mozambico, incontrai i rappresentanti dell’Anc (African national congress, il partito di Nelson Mandela, ndr) sudafricano con cui mi legai politicamente, con cui rimasi, rimango tutt’ora legata, perché il Sudafrica era l’ultimo grande baluardo del razzismo bianco, durato fino agli anni ’90, fino a che ci sono state le elezioni democratiche. Ed era proprio in Tanzania che c’erano i campi dell’Anc e del Frelimo. Il Frelimo, per esempio, aveva istituito delle scuole con grandi innovazioni teoriche – oggi di queste cose si parla poco, ma erano aspetti interessantissimi di quel periodo, del primo postcolonialismo.

In questo contesto mi resi conto che stavano uscendo degli scrittori importanti, che davano voce a tutta questa turbolenza, a questa attesa di novità, e in fondo il loro sguardo era uno sguardo implicitamente di speranza, perché c’era un senso di futuro, cosa che oggi non c’è più, perché siamo in un momento molto diverso.

 

Questa cosa mi entusiasmò. Inoltre erano scrittori molto bravi ed era molto interessante come usavano l’inglese. Cioè, affermavano il loro diritto a usare qualsiasi lingua loro volessero: se gli stava bene l’inglese usavano l’inglese, se gli stava bene il francese usavano il francese. Non è che si potesse contestarli perché usavano le lingue coloniali: l’inglese era la loro lingua, come rispose Soyinka una volta, molto arrabbiato, quando gli dissero «ma tu perché usi la lingua dei coloniali?». Era un dibattito straordinario, era un dibattito vivo, perché si discuteva di teoria, ma poi la teoria combaciava anche con la realtà sociopolitica, pratica, vera di questi Paesi. Paesi che dovevano decidere quale era la loro lingua ufficiale, quale lingua insegnare a scuola, in quale lingua redigere i loro documenti ufficiali. Non erano soltanto discorsi teorici, importantissimi anche quelli, lì si trovavano entrambi. Così vidi che stavano nascendo grandi scrittori.

 

Per esempio chi?

 

Per esempio scrissi nel ’76 Interpreti rituali (Dedalo editore, purtroppo esaurito, ndr) in cui parlavo del romanzo dell’Africa nera e gli scrittori di cui trattavo erano

Amos Tutuola, Chinua Achebe, Ngũgĩ wa Thiong’o, Wole Soyinka, Ezekiel Mphahlele.

Tutti grandissimi scrittori, scrittori assolutamente entusiasmanti, che avevo già individuato. Naturalmente questo in Italia veniva del tutto ignorato. C’era stata qualche traduzione, ma si traduceva per esempio un libro di Peter Abrahams, un libro di qualcun altro, senza nessuna volontà di contestualizzare questo prodotto letterario, che doveva invece essere contestualizzato, perché la gente doveva capire da dove venivano e cosa volevano dire questi autori, dove portavano, quale tipo di attenzione chiedevano ed esigevano.

Nacque a questo punto a livello internazionale il discorso postcoloniale, che originariamente partiva dal discorso politico. All’inizio quando si diceva “postcoloniale” si intendeva definire un’entità politica che era nata dopo l’esperienza della colonizzazione. In principio il vocabolo fu usato dagli studiosi indiani, perché l’India aveva smesso di essere una colonia nel 1947 e aveva attraversato una storia postcoloniale di estrema difficoltà e di estremo interesse, avendo alle spalle una grande tradizione antecedente e delle lingue portanti nazionali: l’urdu e l’hindi – cosa che molti Paesi africani non avevano, perché erano un coacervo di identità etniche messe assieme dai coloniali.

Prendiamo ad esempio la Nigeria: ci sono gli hausa, gli ibo, gli yoruba, gli edo, gli ewe e circa duecento altri gruppi molto diversi l’uno dall’altro, con lingue proprie molto importanti. India e Paesi africani erano delle realtà molto diverse.

Comunque questo vocabolo coniato in India passò poi agli studi letterari, e qui c’è un altro snodo: in quegli anni – a partire dagli anni ’50 – nel contesto britannico, era nata e si era sviluppata la tradizione degli studi culturali che fu ricchissima di fermenti e di significati per la riflessione di quegli anni.

Una tradizione squisitamente inglese molto interessante per me perché era di matrice marxista, e divenne poi anche molto gramsciana ( questi inglesi conoscevano Gramsci meglio degli italiani). Associavano la lotta di classe al discorso dell’analisi socioculturale ed erano tutti studiosi di matrice umanistica, molti di loro letterati, come Raymond Williams o Richard Hoggart. Fu una temperie molto particolare che si alleò al discorso postcoloniale, che divenne una riflessione specificamente letteraria, mentre gli studi culturali analizzavano la società attraverso la cultura: per esempio con il concetto di rivoluzione culturale di Raymond Williams e la – diciamo – “scoperta” della working class culture.

 

Tali filoni teorici furono alleati, si combinarono insieme. Non che tutti i postcolonialisti fossero anche culturalisti, ma certo erano movimenti affini. Così come è avvenuto per il femminismo: il femminismo che prese vigore in quegli anni è chiaramente una linea di pensiero che è molto vicina al postcolonialismo, che è molto vicina agli studi culturali. Difatti noi dell’area lavoriamo sempre in parallelo, e il discorso porta sempre verso una rivoluzione culturale.

 

Andando in Africa, cominciando a conoscere sempre meglio questi Paesi, ho iniziato a rendermi conto della stranezza della situazione, perché c’è colonizzazione e colonizzazione.

Noi europei abbiamo colonizzato praticamente tutto il globo, ma l’atteggiamento coloniale dei grandi imperi europei è stato molto diverso a seconda che si trattasse dell’Asia, dell’Australia o dell’Africa. Se in Asia gli europei si sono trovati di fronte a culture antichissime, cui hanno anche reso omaggio(per esempio il rapporto degli inglesi con l’India è stato intimo e di grande attenzione – non che questo gli abbia impedito di fare massacri e violenze); se in Australia hanno detto «qui non c’è nessuno» e hanno semplicemente raso il terreno distruggendo tutto quello che c’era, e che si muoveva, e che emetteva un qualche suono (quando il capitano Cook arrivò in Australia disse «abbiamo trovato questi abitanti che emettono suoni come tacchini»); in Africa – che peraltro era il continente più vicino all’Europa, il continente da cui l’homo sapiens proviene, quindi un continente con il quale avremmo dovuto avere un rapporto importante – invece ci fu questa colonizzazione devastante che alterizzò completamente l’oggetto colonizzato. Difatti l’altro per eccellenza è il nero. Questo naturalmente fu funzionale anche alla strumentalizzazione estrema della schiavitù.

Una volta in Africa ci si accorge di tante cose. Ci si accorge delle grandi culture che ci sono, culture molto diverse dalle nostre – quindi anche molto interessanti dal punto di vista dell’analisi teorica-: questa grande tradizione di culture visive straordinarie, molto ricche di valori formali; e poi questi grandi scrittori, che io trovavo molto più interessanti di certi scrittori contemporanei inglesi o italiani. Chinua Achebe per esempio mi parlava di più.

Naturalmente mi resi rapidamente conto che in Italia questo non era percepito, i pochi testi tradotti o erano ballons d’essai casuali oppure erano per esempio raccolte di poesie legate alla battaglia politica, come quelle curate da Joyce Lussu, o da Pasolini, o anche la poesia di combattimento sudafricana,ma non c’era un’analisi sistematica di quello che era stato prodotto. Allora cercai di convincere qualcuno in Italia a pubblicare Chinua Achebe, per esempio. Andai da Feltrinelli e loro mi dissero che io avevo questa grande passione, ma che non avrebbe avuto storia.

E così fu che Achebe venne pubblicato da Jaca Book, che traduceva molto male e che, essendo una casa editrice creata da Don Giussani, figlia di Comunione e liberazione – per cui tutto doveva ritornare utile al fine della dimostrazione che il mondo era cristiano – imprimeva sugli autori un marchio straniante. Ebbero il coraggio di pubblicare Ngũgĩ wa Thiong’o definendolo «uno scrittore cristiano». Ora, se c’è uno scrittore marxista questo è Ngũgĩ… A un certo punto tutto ciò divenne veramente eccessivo. Allora colsi il destro di una proposta che mi venne fatta di curare alcuni libri per la casa editrice di un sindacato, le Edizioni Lavoro, e creai la collana. Chiesi una condizione: fatemi fare una collana di classici africani, che per piacere siano tradotti bene e abbiano un’introduzione che contestualizzi le opere.

Cioè: se io pubblicoChaka di Thomas Mofolo, che è un romanzo del 1925, non posso pubblicarlo così, darlo al pubblico così nudo, bisogna spiegare in che condizioni è stato scritto. E soprattutto qual è il tipo di ibridazione che rappresenta questo romanzo e quale tipo di ironia postcoloniale presenta. E così nacque una collana che mi risulta fu molto ben accolta, soprattutto dai giovani, che erano più curiosi e che durò fino al duemila. Pubblicammo 36-37 libri: grandi classici passati e contemporanei. C’erano tutti i grandi scrittori meno quelli che ormai erano diventati così famosi che non potevamo permetterci di pagare i diritti, come Soyinka, che nel frattempo aveva avuto il Nobel.

Io ho sempre accompagnato questo tipo di ricerca a un grande lavoro di divulgazione, che i miei colleghi disprezzavano. Mi è sempre sembrato molto utile, l’ho visto anche politicamente utile. Quindi ho sempre lavorato molto con gruppi di insegnanti, ho creato dei progetti, mi sono fatta finanziare da privati per dei progetti culturali che portassero questi libri nelle scuole, pubblicato sui giornali (anche questo allora veniva visto molto male nel mondo accademico).

L’Africa era un terreno di osservazione di grande interesse e io sono convinta che lo sia ancora, in modo diverso, perché l’evoluzione di questi Paesi postcoloniali non è stata quella che noi credevamo avrebbe potuto essere ma è comunque un fatto e io credo che i Paesi che vengono venduti come catastrofici come la Nigeria siano Paesi con un grandissimo potenziale. Anche perché sono Paesi che producono molta cultura.

Mi impegnai in modo particolare per il discorso sudafricano perché a un certo punto stabilii un rapporto personale di tipo politico con l’Ance quindi mi concentrai molto sulla lotta dell’Anc che era straordinariamente importante in quegli anni e che portò all’abbattimento del sistema dell’apartheid nel contesto della caduta del Muro – furono contemporanei – e poi alla creazione del nuovo Sudafrica con tutte i problemi che noi ancora oggi vediamo sussistere in quel Paese.

 

Riprendendo la sua frase su: «l’inconscia speranza che dall’Africa venisse un nuovo discorso e ci portasse dei nuovi Paesi», si può dire che sia venuto un nuovo discorso, almeno a livello culturale, anche se non i nuovi Paesi che si speravano allora?

Sì un nuovo discorso è il loro discorso. Noi eravamo convinti che ci fossero molti modi di fare democrazia. Eravamo convinti che questi nuovi modi dovessero essere anticapitalistici. In questo senso no, non è venuto, perché questi Paesi sono caduti nella rete del neoliberismo e del capitalismo.E qui entra in gioco una riflessione molto più articolata e complessa sul rapporto con l’Europa che c’è stato, sulla funzione degli Stati Uniti… ma dal punto di vista culturale l’Africa è emersa. Io credo che oggi nessuno possa ignorare che l’Africa è un grande interlocutore culturale, a livello degli altri continenti, cosa che fino ad allora non era stata. Non era stata perché non era stata vista, era stata colonizzata, repressa, cancellata. Basti pensare che nelle colonie francesinon c’erano università. Se una persona – per esempio Léopold Sédar Senghor – voleva fare l’università, doveva andare a Parigi. Gli Inglesi avevano fatto parecchie università, difatti Soyinka, Achebe, Ngugi, avevano studiato in università africane, Makerere (a Kampala, in Uganda, ndr), a Ibadan, in Nigeria, e così via. Nelle colonie portoghesi invece era il deserto, lì non c’era neanche l’alfabetizzazione, c’era un analfabetismo del 99,9%, erano situazioni pazzesche.

Io oggi non mi pongo più questo problema, mi rendo conto tuttavia che la grande rete del capitalismo è tutt’ora molto forte e per certi aspetti è ancora più violenta. Si parlò, a fine ’800, della «corsa all’Africa», la corsa per appropriarsi del territorio, ora c’è una nuova corsa all’Africa per appropriarsi delle risorse minerarie (e anche di territori). Ma io credo che la storia abbia dei tempi lunghi, e il discorso non è certo chiuso.

Vivendo in questi Paesi si può osservare ad esempio la grande capacità di elaborazione culturale della township africana ( ” comunità di neri ” ), piuttosto che della stampa in Nigeria – la prima volta che andai in Nigeria scoprii un numero straordinario di pubblicazioni periodiche che dall’Europa non avevo avuto certo modo di individuare -, e poi anche la straordinaria ricchezza dei linguaggi, dell’incrocio dei linguaggi, di questa capacità di creare nuovi linguaggi, di assorbire e di trasformare.

Da questo punto di vista un romanzo come Sozaboy di Ken Saro-Wiwa è emblematico, con la sua lingua incredibile di invenzione.

In Italia ci sono e c’erano atteggiamenti tremendi: quando Soyinka vinse il Nobel era l’86, e sul Corriere della Sera uscì un articolo in cui si affermava che questo libro era inspiegabile, perché lo scrittore scriveva cose che non avevano senso e che se uno provava a leggere i suoi romanzi non riusciva a andare oltre pagina 17 perché non si capiva niente… Io risposi, con una lettera, che probabilmente l’autore dell’articolo si era fermato a pagina 17 perché ne aveva avuto abbastanza di leggere e non aveva soprattutto letto l’originale, perché la traduzione di Soyinka era pessima. Certo Soyinka è uno scrittore difficile, ma tanti scrittori lo sono, anche Thomas Mann è uno scrittore difficile, Herman Melville, Giacomo Leopardi…

E allora pubblicarono la mia lettera con questo titolo: «Io Tarzan tu Jane», perché io avevo detto che Soyinka accusava questi critici che non volevano leggere l’altro di “tarzanismo”… L’atteggiamento era questo. Ora il fatto che il Nobel andasse nell’86 a uno scrittore nigeriano fu una cosa importantissima, perché costrinse il mondo intero a guardare a queste letterature. A parte il fatto che Soyinka è non solo un grandissimo artista della parola – soprattutto di teatro –ma è anche un grande intellettuale e un grande uomo di cultura e di politica, cioè è una figura molto importante.

Come non accorgersi di questo? Come essere così ciechi da non avvertire questa statura ? Significa molto peggio che essere provinciali, significa essere incolti. Poi naturalmente tutto questo si alleava con il fatto che la cosiddetta “avventura” coloniale italiana era stata completamente dimenticata – «Noi eravamo passati dall’Africa, una breve avventura, peraltro un romanzo piacevole, eravamo stati benvenuti, accolti» diceva Montanelli:«Una grande avventura, un’avventura giovanile»…

Il problema non erano persone come Montanelli che oramai erano perse, non si poteva convincerle, ma la mentalità generale: i ragazzi che a scuola non studiano tuttora la storia coloniale, la gente comune che diceva «noi italiani brava gente» (e appunto poi uscì il libro di Del Boca, con questo titolo)
Questa era la mentalità. Non si diceva per esempio che quando noi eravamo in Somalia c’era una legge che obbligava tutti i somali ad andare scalzi. Perché gli europei potevano portare le scarpe, ma gli africani no. Era proibito il matrimonio interrazziale, però era ampiamente consentito il rapporto sessuale interrazziale e il madamato ( = una relazione temporanea more uxorio tra un cittadino italiano e una donna nativa delle terre colonizzate, chiamata in questo caso madama ), con conseguente creazione di figli illegittimi.

Per non parlare dell’iprite che proprio in quegli anni venne rivelata. E del resto erano gruppi dei nostri movimenti politici che tirarono fuori la storia dell’iprite, che era nascosta nelle pieghe della documentazione. Il problema era un viluppo di cose… ( iprite, vedi, se non lo sai, in fondo )

Io credo che la grande scrittura letteraria sia sempre molto trasgressiva, in modi diversi, a seconda delle epoche, delle culture, delle situazioni. Noi oggi leggiamo Melville come un genio, ma sappiamo benissimo che nessuno più di Melville era trasgressivo. E assolutamente ignorato e disprezzato ai suoi tempi. Tuttavia oggi lo riconosciamo come una delle grande pietre miliari della letteratura americana, del rinascimento americano dell’ ’800.

La grande letteratura più è grande e più è trasgressiva. Si impadronisce delle regole per trasgredirle, per creare al di fuori di queste regole e farsi le proprie regole. Quindi quando tu vedi un autore come Achebe che forza le regole, pur mantenendosi nell’ambito del romanzo, prendendo il modello dal romanzo e però facendone una cosa tutta sua, e un tipo di epica tutta sua, ti rendi conto di trovarti davanti a un grandissimo scrittore.

Poi naturalmente pubblicai tanti altri libri con altre case editrici, e fondammo Astrea. Il primo libro di Astrea fu di Olive Schreiner, una grandissima scrittrice sudafricana dell’ ’800 che scrisse questo romanzo: Storia di una fattoria africana nel 1883, a 18-19 anni, e che naturalmente in Italia era ignorata. Lo feci tradurre per la prima volta. Lo tradusse Riccardo Duranti, venne una bellissima traduzione, e fu il numero uno di Astrea. Questo libro è un romanzo di straordinario interesse, un romanzo molto trasgressivo, perché è una romanzizzazione di una riflessione filosofica, ed è un grande romanzo femminista. Schreiner fece storia come femminista.

I libri li pubblicavamo con l’introduzione. Adesso pubblicano la Schreiner senza introduzione, ed è un grave errore, perché un testo del 1883 è un testo molto difficile. Non si puà capire se non si sa il contesto, storico, politico, ma anche culturale di questo personaggio eccezionale che era la Schreiner. Lei andò in Inghilterra con il suo manoscritto sotto il braccio e trovò un grande editor, che tra l’altro era un grande scrittore, che appoggiò la pubblicazione del libro. Pubblicò con uno pseudonimo, naturalmente uno pseudonimo maschile, perché mai sia che una donna… e divenne famosa.

In breve tempo scoprirono che la vera autrice era questa ragazza sudafricana, fu ricevuta dal primo ministro eccetera. Poi entrò nell’ambiente socialista, fu amica della famiglia Marx e scrisse dei grandi testi femministi. Poi, pensi, ritornò in Sudafrica dove le donne crearono un movimento per il voto alle donne. Era il primo ’900. Fu nel comitato fondatore, ma a un certo punto si rese conto che le sue colleghe non volevano dare il voto alle donne nere, volevano dare il voto solo alle donne bianche! Allora clamorosamente sbatté la porta e uscì.

Sa, oggi queste cose si raccontano e sembrano normali, ma allora erano delle cose veramente straordinarie, significava aver capito tutto, aver capito veramente cosa c’era dietro…

 

Che le femministe americane non capirono, ad esempio, neanche cent’anni dopo…

Neanche cent’anni dopo. Esatto. Perché l’Africa è anche questo, scrittori molto diversi, culture molto diverse, che sono culture molto antiche, ci sono stratificazioni molto interessanti. Viene sempre chiamata Africa, in modo collettivo, ma è un grande continente che comprende cose molto diverse, idee molto diverse…

 

Come si è sviluppata la letteratura afrodiscendente in lingua italiana?

Questo è un altro fenomeno molto interessante. Naturalmente in Italia è successo molto più tardi rispetto ad altri Paesi europei per le ragioni che abbiamo detto: noi non abbiamo avuto, se non in misura molto ridotta, l’ondata dei nostri ex soggetti coloniali, nulla da paragonare all’ondata dei caraibici che sono arrivati sin dal ’48 in Inghilterra, o tutti gli algerini, i tunisini, i senegalesi che sono andati in Francia – e sia nel caso della Francia sia nel caso dell’Inghilterra avendo diritto a farlo, perché erano figli dell’impero – non dimentichiamo che in Inghilterra fino a un certo punto i cittadini delle ex colonie erano parte del Commonwealth e quindi avevano diritto a andare in Gran Bretagna (a un certo punto il governo inglese pose fine a questo, però per molti anni fu così nonostante le resistenze interne, i rigurgiti razzisti molto forti che ci sono stati).

In Italia invece sono arrivati alla chetichella, sono arrivati gli eritrei, i somali, gli etiopi, in numeri maggiori o minori, a poco a poco all’inizio, alcuni perché provenivano da famiglie legate all’Italia, per esempio erano figli di genitori misti oppure perché erano politicamente legati all’Italia – prendiamo il caso di Kaha Aden, suo padre era una grande figura della politica somala, molto legato alla storia italiana, italofono anche lui, quindi quando la situazione divenne pericolosa per l’ondata di repressione di Mohammed Siad Barre, Aden portò la famiglia in Italia e Kaha crebbe qui. Altri avevano un genitore italiano e l’altro africano, come Gabriella Ghermandi. Situazioni molto diverse, non omologabili a quelle che riscontriamo in altri Paesi europei ex imperiali.

E poi anche un’altra differenza è che mentre i caraibici o i nigeriani che arrivavano in Inghilterra, oppure i senegalesi o gli ivoriani che arrivavano in Francia conoscevano la lingua, perché parlavano francese, anche se era un francese un po’ diverso – i camerunesi con i loro we, anziché oui – il francese africanizzato in certi casi è anche molto interessante, molto bello, in Italia no, arrivavano e non conoscevano la lingua, a parte quelli che erano di famiglia mista o proprio figli della colonizzazione, ma le generazioni successive no.

E quindi quando uno, due, tre di loro hanno provato il desiderio di raccontarsi si sono trovati davanti una lingua nuova che avevano imparato soltanto oralmente, parlando con la gente. Cominciarono raccontando la loro esperienza di migranti, come Pap Khouma, inIo, venditore di elefanti, o altri suoi coetanei, e poi cominciarono i racconti più complessi, romanzati. Ma restava una lingua orale, una lingua che prescindeva da qualsiasi apprendimento strutturale antecedente, ma anche – cosa più importante – prescindeva dalla cultura letteraria da cui la lingua nasce, per dirla con una breve frase: nessuno di questi scrittori aveva letto Pinocchio I promessi sposi. Mentre i figli della colonizzazione avevano frequentato la storia francese, avevano letto Racine o Camus, o magari anche Sartre, insieme a Fanon e a Senghor.

Era una situazione tutta diversa e mi interessai molto di questi prodotti e fu molto curioso perché quando nacquero questi libri vennero totalmente ignorati dagli italianisti. Sembrava che proprio non ci fossero. Mi sono sempre chiesta – perché non potevano ignorare che esistessero – se probabilmente aspettavano di vedere se diventavano importanti o no. Mi sono sempre chiesta quale fosse il perché. Poi a un certo punto quando si resero conto che la migrazione prendeva piede e che diventava una cosa importante allora alcuni di loro diedero attenzione, molto spesso più per ragioni politico culturali che per ragioni letterarie.

Oggi in Italia la situazione è molto cambiata perché le case editrici pubblicano molto volentieri romanzi africani, anche se nel presentare questi romanzi talvolta fanno degli svarioni, confondono la Nigeria con il Kenya…Però pubblicano, per esempio ora non c’è solo Isabella Ferretti con 66thand2nd che pubblica tanti romanzi africani, c’è la Nave di Teseo, Einaudiche si sceglie i grandi, i Coetzee, Feltrinelli,che si era scelta la Gordimer. Quello che io ho criticato è che fino a un certo momento avevano molta poca cura delle traduzioni. Per esempio ogni libro della Gordimer, che è una grandissima scrittrice, veniva affidato a un traduttore diverso: con Toni Morrison non l’avrebbero mai fatto. Perché allora allora con la Gordimer lo facevano?

Comunque adesso vedo che La Nave di Teseo per esempio ha affidato Abdulrazak Gurnah a Alberto Cristofori, che è un ottimo traduttore, anche l’ultimo libro di Ngugi wa Thiong’oIl mago dei corvi è tradotto molto bene… le cose vanno migliorando.

Questi autori sono più difficili degli autori inglesi, perché il contesto culturale, e il linguaggio sono più complicati. Servono grandi traduttori, per esempio per Sozaboy, di Ken Saro-Wiwa, che io seguito fin dall’inizio perché è stato un testo dirompente – tra l’altro lui era un grandissimo intellettuale, una figura di artista molto interessante -, e che però io non ho proposto a un editore di tradurlo fino a che non ho trovato qualcuno che potesse farlo, qualcuno che già scriveva di proprio, e che quindi aveva una grande mano di scrittura, ma che anche conosceva il pidgin, e quindi era in grado di renderlo.

Adesso c’è la figlia che scrive, Noo Saro-Wiwa…

Ah, sì, è molto simpatica. Deve essere stato terribile vivere quell’esperienza (l’impiccagione di suo padre, senza un vero, processo durante la dittatura di Sani Abacha, ndr)…quella morte fu spaventosa… un Paese che uccide i propri poeti… Come quando morì Pasolini, l’uccisione fu una cosa veramente tragica. Solo che naturalmente nel caso di Ken Saro-Wiwa fu chiaramente un delitto politico perché lui era un resistente contro Abacha e un sostenitore dell’indipendenza degli Ogoni (il suo popolo, localizzato soprattutto nel delta del Niger, ndr), denunciò questo scempio del delta del Niger, davanti a cui tutti rimanevano indifferenti.

 

Mi ricordo che allora insegnavo a Scienze politiche e organizzammo un panel e un dibattito intorno a questa terribile morte.La stampa pubblicò l’annuncio di questa commemorazione di Ken Saro-Wiwa – lui fu ucciso nel 1995 – e immediatamente fummo contattati dall’Eni che ci disse: noi abbiamo dato molto alla Nigeria. Noi rispondemmo: ma voi siete stati parte dello scempio del Delta, loro ribatterono che no, che loro avevano “compensato”. Compensato… questo era il discorso. Faceva venire i brividi: noi abbiamo compensato, cioè noi gli abbiamo dato soldi, tra l’altro questi soldi tutti sapevano a chi andavano, andavano a queste classi mangione e orribili che erano al potere… Mi ricordo che una delegazione dell’Eni venne alla commemorazione, stamparono anche un librettino per descrivere quel che l’Eni faceva in Africa, per sostenere che era una benemerita…

È passata più di un’ora e dobbiamo interrompere l’intervista, anche perché quel che resta da dire non si può esaurire in pochi minuti. La salutiamo augurandoci di poter scrivere presto una seconda puntata.

 

 

 

nota sull’

Iprite 

Il tioetere del cloroetano, più noto come iprite, è uno dei gas impiegati per la guerra chimica; è conosciuto anche come “gas mostarda” per il suo caratteristico odore.

L’iprite fu utilizzata per la prima volta durante la prima guerra mondiale nel settore belga di Ypres, da cui il nome, il 12 luglio 1917 per iniziativa di Erich von Falkenhayn e Alberto di Württemberg dell’esercito tedesco; già l’anno precedente i francesi ne avevano preso in considerazione l’impiego scartandolo però per difficoltà tecniche: la produzione su scala industriale ebbe inizio in Francia solo nel giugno 1918 e in Gran Bretagna nel settembre dello stesso anno.

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effetti sulla pelle di un agente vescicante come l’iprite
User:ClockworkSoul – English Wikipedia

Nel 1919 venne impiegata dall’Inghilterra contro i ribelli dell’Hadramaut e nel 1922, in grandi quantità, dalla Spagna per contrastare la ribellione del Rif spagnolo.

Dal dicembre 1935 al maggio 1936, durante la guerra d’Etiopia, le forze italiane impiegarono l’iprite contro gli etiopi principalmente tramite bombe tipo C.500.T, dal peso di 280 chilogrammi, sganciate dagli aerei: circa mille bombe, ciascuna delle quali contenenti circa 220 chilogrammi di iprite, furono impiegate sul fronte settentrionale contro i concentramenti di truppe, i reparti in ritirata e lungo le vie di comunicazione, mentre sul fronte della Somalia furono sganciate 95 bombe C.500.T e 186 bombe più piccole, da 21 chilogrammi. Circa l’efficacia i rapporti sono discordanti e mancano studi dettagliati in merito: in generale, per quanto gli etiopi abbiano attribuito la disfatta delle loro armate principalmente all’uso degli aggressivi chimici, il ruolo dell’iprite e delle altre armi chimiche impiegate (arsina e fosgene) fu importante in alcune azioni (come la Battaglia dell’Amba Aradam) ma di per sé non decisivo nel complesso del conflitto, dove pesò maggiormente la superiorità tecnologica italiana (  Giorgio Rochat, Le guerre italiane 1935-1943, Milano, Einaudi, 2008).
Nella seconda guerra mondiale l’iprite non fu utilizzata sui campi di battaglia.
Assieme alla tossina botulinica e al tallio, l’iprite (per la sua capacità di danneggiare il sistema immunitario) fu probabilmente usato nel Cile di Pinochet per assassinare l’ex Presidente Eduardo Frei Montalva nel 1982.

Test sull’uomo—

segue nel link wikipedia : https://it.wikipedia.org/wiki/Iprite

 

 

NOTA IL SOLE 24 ORE 

Venerdì 29 settembre 2023, in occasione della Notte europea delle ricercatrici e dei ricercatori, il Museo nazionale Scienza e tecnologia Leonardo da Vinci (via S.Vittore, 21, Milano) organizza una serata a ingresso libero. In particolare alle ore 20 nella Sala delle Colonne al I piano, sarà presentato numero 18-19 della rivista «Storia delle Donne» curato da Chiara Vangelista e Itala Vivan, sul tema «Oltre il limite. La storia delle donne rivela orizzonti e costruisce avventure». Studiose di varie discipline rifletteranno su come, nel corso della storia, le donne abbiano trasformato la chiusura-clausura, e persino la soglia del baratro, in occasioni di esplorazione, trasgressione, conoscenza, crescita intellettuale e sociale.


Intervengono:
Itala Vivan (Università degli Studi di Milano) e Chiara Vangelista (Università di Genova), curatrici del n.18-19 della rivista «Storia delle Donne» dedicato ai temi del limes
Paola Govoni (Università di Bologna)
Elena Dell’Agnese (Università di Milano Bicocca), Presidente Associazione Geografe e Geografi Italiani
Lidia De Michelis (Università degli Studi di Milano)
Maureen Matthews (University of Manitoba, Canada)
Introduce:
Laura Ronzon, Museo Nazionale Scienza e Tecnologia
• La rivista «Storia delle Donne» è reperibile free access sul sito https://oaj.fupress.net/index.php/sdd/index

 

NEL LINK SOPRA,

purtroppo trovate, purtroppo, solo quelli si chiamano ” Abstracts ” ( schemi- riassunti cortissimi )- Si capisce, vogliono che la rivista sia comprata anche per sostenere le spese..

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