ITALA VIVAN, Alla scoperta di sé nel volto del dominio– «L’ascaro. Una storia anticoloniale» di Ghebreyesus Hailu, Tamu Edizioni. –IL MANIFESTO  28 GENNAIO 2024 + LARA RICCI, IL SOLE 24 ORE– 17 NOVEMBRE 2023

 

 

tamu edizioni

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IL MANIFESTO  28 GENNAIO 2024
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Mappa Eritrea - cartina geografica e risorse utili ...

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Etiopia - Mappa

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La sopravvivenza delle idee. Maaza Mengiste si racconta a Ca ...

foto Ca’ Foscari
MAAZA MENGISTE ( Adis Abeba, 1971 ), ) è una scrittrice etiope. Ha pubblicato vari libri in italiano da Einaudi.  Scrive la Prefazione al libro di cui parliamo.

 

Uoldelul Chelati Dirar – EFBM

UOLDELUL CHELATI DIRAR ( nato ad Asmara in Eritrea ), ha fatto gli studi secondari e universitari in Italia, nel 1988 è tornato ad Asmara dove ha insegnato, nel 2003 tornato in Italia  professore associato di Storia africana presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Macerata.
https://www.efbm.org/en/speaker/uoldelul-chelati-dirar/

 

Alla scoperta di sé nel volto del dominio

 

ITINERARI CRITICI. «L’ascaro. Una storia anticoloniale» di Ghebreyesus Hailu, Tamu Edizioni. Il giovane abissino Tequabo si arruola e combatte con gli italiani durante l’occupazione della Libia (1911). Trattato come un essere inferiore nell’esercito, si accorge che di fronte non ha un nemico ma un popolo di pastori che difende il proprio territorio: un’umanità simile a lui. Scritto in lingua tigrina nel 1927, il racconto rimase nel cassetto per timore della censura e fu edito solo nel 1950 all’Asmara, e quindi tradotto in arabo e inglese nel 2012

 

 

Alla scoperta di sé nel volto del dominio

Il monumento agli ascari del 1927 a Dar es Salaam in Tanzania

 

 

 

 

Itala Vivan | Rivista Africa

foto Africa Rivista

 

Dentro un triplice scrigno formato dalla ricca introduzione storica e culturale di Uoldelul Chelati Dirar, dall’appassionata prefazione di Maaza Mengiste e dalla nota di Alessandra Ferrini si nasconde una perla, la novella L’ascaro. Una storia anticoloniale, dell’eritreo Ghebreyesus Hailu (Tamu Edizioni, pp. 144, euro 15).

Originariamente scritta in lingua tigrina nel 1927, rimase nel cassetto per timore della censura coloniale, venne pubblicata soltanto nel 1950 all’Asmara, e quindi tradotta in arabo e inglese nel 2012.

Si spera che molti lettori italiani attraverseranno i molteplici strati di questo guscio, posto quasi a protezione d’un segreto, e giungeranno a scoprire e gustare il testo che esso contiene, un vero gioiello di narrativa d’epoca coloniale, e però segnato da inconfondibili marcature di consapevolezza critica, come di chi guardi a ritroso alla storia alle proprie spalle. Perciò la versione italiana reca il sottotitolo «Una storia anticoloniale».

Si tratta d’un racconto d’un centinaio di pagine stilate con concisa brevità ma in modalità eleganti che si rifanno a tradizioni colte e però, allo stesso tempo, adottano stilemi desunti dalla parlata e dalla cultura popolare, creando un effetto di prospettiva e profondità tutte particolari.

La molteplicità dei punti di vista e dei linguaggi, infatti, arricchisce il testo senza intaccarne la semplicità naturale e lasciandolo scorrere con ritmo cristallino. Nel prologo l’autore spiega che la sua «scrittura è quella di una persona giovane» che riveste le reminiscenze della sua stessa giovinezza e di quella dei fratelli arruolatisi come ascari nell’esercito italiano ai tempi della campagna di Libia.

 

 

 

L'ascaro. Una storia anticoloniale - Ghebreyesus Hailu - copertina

TAMU, 2023

 

 

VENIVANO DETTI «ASCARI» gli africani reclutati negli eserciti coloniali in Africa Orientale, anche dai britannici e dai tedeschi. L’Italia ne fece largo uso, ed erano soprattutto eritrei, o habesha, abissini come Tequabo Habre-Mikael, il protagonista della nostra storia, che lascia la famiglia per arruolarsi e finire nel deserto durante la guerra per l’occupazione italiana della Libia del 1911.

Tequabo compare all’inizio del racconto mentre piega il ginocchio chiedendo la benedizione dei genitori. Loro lo guardano attoniti – intimiditi dalla sua divisa kaki, il tarbush rosso col fiocco, l’alta fascia di lana che gli stringe i pantaloni – e anche sgomenti per quella sua brusca, imprevista decisione di partire a far la guerra per gli italiani. Ma ormai Tequabo è già diventato un ascaro. C’è una sottintesa vanteria in quel suo presentarsi in divisa: il ragazzo in cui i due vecchi vedono ancora un bambino si è di colpo trasformato in un adulto, e si prepara ad andarsene per la sua strada.

È un momento carico di drammaticità, di forte emozione, come forse accade sempre, quando un figlio si stacca dai genitori (in questo caso, l’unico figlio di un’anziana coppia): ma qui, la leggerezza del gesto del giovane si inserisce in una storia brutale, di una guerra doppiamente insensata poiché combattuta per altri, i suoi padroni coloniali. Inoltre la decisione di arruolarsi non è neppure dettata da bisogno o ristrettezze economiche, dato che la famiglia è agiata.

 

LA PERFETTA combinazione di elementi generali e di specificità della situazione coloniale e del contesto storico geografico conferisce immediatamente spessore alla figura di Tequabo, e uno spiccato rilievo ai suoi movimenti. Tequabo è una persona libera, che tuttavia risulta determinata dal contesto culturale in cui si trova a vivere e che plasma e indirizza le sue scelte, offrendo una forma e una strada alla sete di avventura e al sogno di affermazione valorosa.

 

Il giovane sperimenta subito il gusto del viaggio e le novità dei luoghi e delle popolazioni, arrivando prima all’Asmara e poi alla rovente Massaua, dove si imbarca e scopre il mare, «una distesa infinita di colore uniforme, qualcosa di prodigioso, che travolge». «Credo – commenta l’autore – si possa esprimere così l’euforia estatica di qui momenti, il desiderio di poter godere della vista meravigliosa di questo mare per l’eternità, assaporandolo un pochino ogni volta».

 

Ben presto, però, le scoperte di Tequabo diventeranno amare: la durezza della vita militare, tanto più traumatizzante quanto più segnata dalla differenza di trattamento cui vengono sottoposti gli ascari, costretti a dormire sul ponte della nave, a marciare a piedi nudi sulle sabbie infuocate del deserto libico nutrendosi di cibo scarso e di scarto, e continuamente trattati come esseri inferiori, meno che bestie perché più spendibili di muli e cammelli.

 

Tequabo combatte e si fa onore, ma si accorge di avere di fronte non un nemico, bensì una popolazione di pastori che difendono il proprio territorio: una variante di umanità non diversa da lui, e non odiata (nonostante l’antica inimicizia del suo popolo nei confronti degli arabi). La sua avventura di guerra dura due anni, e si conclude dopo una disastrosa marcia nel deserto dove rischia di morire di sete insieme ai compagni.

Una classica storia di gioventù, avventura, e incontro con l’esperienza della guerra, in cui, tuttavia, la condizione di crudele soggezione e inferiorità in cui lo collocano gli ufficiali italiani gli fa comprendere in cosa consista l’ordine coloniale, e cosa si celi dietro la gloria dell’impero cui aveva ingenuamente aderito, in uno slancio di entusiasmo. giovanile.

 

LA FIGURA DI TEQUABO, così attraente per la sua sincera presa nella realtà della cultura e del tempo, risulta significativa per più versi nel panorama letterario.

Da un lato, è un giovane che si lascia travolgere da un simulacro di gloria e di potenza, per finire macinato nel gorgo di massacri insensati in eserciti mercenari, come accade ad altri come lui, dall’ingenuo Mene di Sozaboy del nigeriano Ken Saro-Wiwa al Birahima di Allah n’est pas obligé creato dal maliano Ahmadou Kourouma.

D’altro lato, Tequabo riempie di carne e sangue la figura dell’ascaro che nella narrativa coloniale è introdotto come uno stereotipo di sfondo, quasi una carta da gioco nelle mani di una cronaca incentrata su una vicenda di conquista e affermazione essenzialmente europea, in cui l’ascaro è semplice comparsa. Grazie alla propria esperienza personale e alla sottile conoscenza dello sfondo culturale in cui si colloca il racconto, ma anche alla consapevolezza critica con cui giudica il regime coloniale e la reazione degli stessi colonizzati, Ghebreyesus Hailu disegna un personaggio vivo e un testimone eloquente della storia coloniale, ben diverso dalle figurine di cartone delle narrazioni di marca europea, dove l’ascaro appare come un bravo amico degli italiani, pronto a morire per loro.

 

 

QUESTO AUTORE è un prodotto della condizione coloniale, ma anche della resistenza ad essa attraverso un cammino di ricerca ed affermazione personale che viene assai bene illuminata dall’attenta introduzione di Uoldelul Chelati Dirar, che merita di venir ringraziato per averci donato un testo che era rimasto sepolto per lunghi anni, dal 1927 in poi, durante il colonialismo fascista.

 

 

NOTA 1 .

PER LA PARTE CHE SEGUE ABBIAMO USATO  L’ARTICOLO DI LARA RICCI PER IL SOLE 24 ORE – link al fondo

Ghebreyesus Hailu (1906-1993) è stato una figura di riferimento nel panorama culturale eritreo del ’900. Un intellettuale eritreo che padroneggiava il ge’ez, la lingua della classicità degli altipiani eritreo ed etiope, il tigrino, l’amarico, il tigré così come il latino, il greco, l’italiano e il francese. Convinto unionista (affermava cioè l’indissolubilità di Eritrea ed Etiopia) aveva sfruttato i canali ecclesiastici per acquisire una formazione cosmopolita.

Allievo brillante, dopo studi cattolici, dal 1924 passò alcuni anni nel Collegio etiopico in Vaticano e assunse poi incarichi religiosi e politici tra l’Eritrea, Addis Abeba e Roma. In un Paese ingessato dalla competizione ìmpari coi lavoratori italiani e dalla segregazione razziale, infatti, per gli eritrei una minima mobilità sociale si poteva ottenere solo entrando nell’esercito o votandosi a un’istituzione religiosa (cattolica, protestante o musulmana), spiega Dirar nell’interessante introduzione.

In seguito ha assunto alcuni incarichi religiosi e politici tra l’Eritrea, Addis Abeba e l’ambasciata etiope a Roma. A partire dal 1975 ha fatto parte dell’Accademia nazionale di lingua amarica, che ha poi presieduto. Ha scritto numerose opere di argomento liturgico, teologico, linguistico e letterario. Tra i suoi testi, L’ascaro è il primo ad apparire in traduzione italiana.

 

 

Agghindato con un’uniforme color sabbia, il tarbush poggiato sul lato, i fianchi stretti in una fascia multicolore e in una di lana grezza, il giovane Tequabo chiede la benedizione dei genitori: si è arruolato di nascosto. Sgomenti, non riescono ad aprir bocca. La partenza dell’unico figlio che è riuscito a raggiungere la maggiore età li strazia. Supplicarlo non serve, è troppo tardi. Lo stanno ancora baciando quando gli ufficiali lo portano via. Vedendolo piangere la madre sviene e la gente lo maledice per aver abbandonato gli anziani genitori. Allora «a Tequabo si capovolsero il cielo e la terra. Fuggì via correndo».

«Erano tempi, quelli, in cui il sangue degli habesha (abissini, ndr) scorreva copioso per via della guerra che era in corso in un luogo chiamato Tripoli. Durante le danze i giovani cantavano con la testa eretta: Chi rifiuta di andare a Tripoli è una donna!/ Chi rifiuta di andare a Tripoli è una donna!», racconta la voce narrante, stigmatizzandone la cultura della mascolinità. E se all’inizio Tequabo si interrogava sul senso di tutta quell’eccitazione, pian piano si era fatto sedurre dalla speranza di compiere atti eroici «che gli avrebbero guadagnato un nome limpido e stimato» in tempi in cui l’ascesa sociale degli eritrei era quasi impossibile e l’umiliazione costante.

«Macchine nere» aspettavano lui e gli altri ascari. «Ruggendo come un leone affamato inghiottivano i giovani habesha strappandoli alla loro terra. Impaziente, la locomotiva fischiava e sferragliava con uno stridore assordante». Una bolgia di avventori cercava di dare loro un ultimo saluto, o portar loro cibo, ma era respinta a colpi di qurmasc («sì, proprio il qurmasc, come con le bestie da soma!»).

Hailu nel prologo dichiara che L’ascaro «rispecchia le emozioni che provai quando, diciottenne, attraversai il mare per recarmi in Italia a compiere i miei studi. Allo stesso tempo è manifestazione del ricordo dei miei fratelli arruolatisi nell’esercito coloniale che in quello stesso periodo attraversavano lo stesso mare»

Dopo il drammatico racconto della partenza, l’autore infatti narra il viaggio in nave dei giovani soldati, ribaltando il tòpos della letteratura di viaggio europea del XVIII e XIX secolo che, osserva Dirar, rifletteva «il processo di costruzione discorsiva dell’immaginario imperiale, ed era funzionale alla costruzione di dicotomie con le quali procedere a una classificazione tassonomica del mondo e delle sue popolazioni» e che favorì l’affermarsi di una lettura esotizzata del resto del mondo: «la varietà e ricchezza delle diverse culture veniva ridotta a una contrapposizione semplicistica tra civiltà e barbarie, progresso e staticità, tradizione e modernità, cultura e natura» rafforzando «relazioni asimmetriche tra chi viaggia e chi è oggetto o destinazione del viaggio, tra chi osserva e chi è osservato».

A osservare, in questo caso, non è infatti l’europeo, ma l’ascaro, non privo dei pregiudizi del tempo, e la voce narrante dell’autore il quale – a differenza di Tequabo «che non appartiene più a sua madre e a suo padre», come nota Maaza Mengiste nell’eloquente prefazione – è ancora ben radicato nella cultura e nelle tradizioni della sua terra d’origine e al contempo molto istruito sulla cultura occidentale. Una voce dunque priva di sudditanza culturale che confronta sullo stesso piano i due mondi senza incorrere nell’errore che Dirar imputa al politico e scrittore senegalese Léopold Sédar Senghor quando, riferendosi alla sua scrittura, «parla del francese come lingua della razionalità e del wolof come lingua dell’emozione, stabilendo così una partizione tra culture della razionalità e dell’istinto di implicita matrice coloniale».

 

Per gli ascari degli altipiani la prima rivelazione è il mare. Pastori nomadi, osservano ammutoliti all’alba le onde della bassa marea che «infrangendosi tra loro – come capre senza pastore che si muovono libere e disordinate cozzando l’una contro l’altra – sollevano una piacevole brezza che accarezza il volto, accordandogli una tregua dalla calura di Massaua».

Salpati, invece dei «pesci enormi simili ai cani (pescecani) che mangiano le persone» incontrano i delfini «considerati amici dell’uomo» di cui «si dice che se un uomo cadesse in mare loro prontamente lo aiuterebbero». Questa osservazione, assieme alla metafora della luna che «una volta sorta (…) aveva finito per ingiallire l’acqua del mare», il quale «a sua volta, al pari di un animale domestico che reagisce grato alle carezze arruffando il pelo, rispondeva con lo sciabordio delle sue onde» suggerisce gli ultimi momenti di tenerezza per i giovani sprovveduti. E di bellezza: «di notte, in mezzo a un mare di cui non si intravede né l’inizio né la fine, l’improvviso farsi largo della luce»

Sbarcati nel deserto libico la narrazione, tra citazioni leopardiane, bibliche e proverbi abissini, si fa irreversibilmente drammatica. Scalzi come sono si ustionano sulla sabbia rovente, ma gli italiani li fanno marciare per giorni. Non importa se alcuni di loro muoiono per strada. Dagli ascari, quando non li mandano a morire, i bianchi si fanno servire. «Se già adesso soffriamo così tanto, che ne sarà di noi tra due anni? (…) Due anni! Due anni in questo luogo infuocato come le terre dell’inferno e attraversato da folate di un vento malvagio, carico di sabbia fine come la farina».

Portano l’acqua per gli italiani ma non ce n’è per loro: moriranno di sete e stenti oltre che nelle battaglie per “pacificare”, così diceva la propaganda, i beduini, pastori nomadi come gli ascari.

«Il colonizzato, usato come strumento di colonizzazione altrui, era venuto fin qui non per trarre un beneficio per sé o per il proprio paese, ma per sottomettere invece questi conterranei che, anche se distanti, erano pur sempre figli d’Africa».

Si stanno ponendo, osserva Hailu, le premesse per uno spargimento di sangue senza fine. «Gli arabi avrebbero insegnato ai propri figli e questi, ancora, ai loro figli: “Dimenticati pure qualsiasi cosa, ma non dimenticarti del sangue degli habesha”». Oggi come allora «Vite umane strumentalizzate, corpi usati come armi per il guadagno politico dell’Italia e di altri Paesi europei», osserva Mengiste in un parallelismo coi migranti.

L’epilogo, amarissimo, non contiene solo la schiacciante consapevolezza dell’errore cui furono indotti gli ascari ma anche una riflessione sugli effetti psicologici che tali comportamenti causano in tutti i colonizzati, non solo in chi si è arruolato (e in generale nelle categorie oppresse). «La nostra coscienza è morta», afferma il narratore. Spezzati, implosi per aver tradito la propria umanità, gli eritrei non appartengono più a loro stessi.

 

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  1. DONATELLA scrive:

    Finalmente è crollata la leggenda rasserenante di ” Italiani brava gente” un grande passo verso la verità storica.

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