MAURETTA CAPUANO ( giornalista culturale Ansa ), Aurore D’Hondt, racconto a fumetti la deportata Ginette Kolinka- ANSA.IT —  27 GENNAIO 2024 — 20.01 + GUIDO CALDIRON, GINETTA KOLINKA, IL MANIFESTO 11 GENNAIO 2020

 

 

 

 

Ginette Kolinka: la testimonianza di una sopravvissuta ad Auschwitz-Birkenau - Aurore D'Hondt - copertina

 

 

Ginette Kolinka: la testimonianza di una sopravvissuta ad Auschwitz-Birkenau

Becco Giallo, 2024

 

Arrestata perché ebrea nel marzo 1944, Ginette è stata deportata nel campo di concentramento e sterminio di Auschwitz-Birkenau, dove le hanno tatuato il numero 78599 sul braccio. Unica sopravvissuta della sua famiglia, condivide con noi la sua storia e ci avverte: «Ecco dove ci porta l’odio.» Età di lettura: da 12 anni.

 

Ginette Kolinka, sopravvissuta alla Shoah: «Non ci credevo ...

GINETTE KOLYNKA
FOTO CORRIERE

Ginette Kolinka nasce a Parigi nel 1925. Dopo la guerra, ha tenuto per molti anni un banco di articoli di maglieria al mercato di Aubervilliers insieme al marito. Dai primi anni Duemila si dedica a tramandare la memoria della Shoah.

 

Ritorno a Birkenau - Ginette Kolinka,Marion Ruggieri - copertina

PONTE ALLE GRAZIE, 2020

 

 

ANSA.IT —  27 GENNAIO 2024 — 20.01
https://www.ansa.it/sito/notizie/cultura/libri/2024/01/26/aurore-dhondt-racconto-a-fumetti-la-deportata-ginette-kolinka_280f1043-d8eb-461e-a810-7c844a7172b1.html

 

Aurore D’Hondt, racconto a fumetti la deportata Ginette Kolinka

Con l’incoraggiamento di una delle ultime sopravvissute

 

 

ANSACheck

- RIPRODUZIONE RISERVATA

 

di Mauretta Capuano

 

AURORE D’HONDT, GINETTE KOLINKA.
    TESTIMONIANZA DI UNA SOPRAVVISSUTA AD AUSCHWITZ-BIRKENAU (BECCO GIALLO, PP 240 EURO 22).

È diventa un graphic novel la storia di Ginette Kolinka deportata a Birkenau quando aveva 19 anni, una delle ultime sopravvissute della Shoah in Francia, quasi centenaria, che porta tatuato sul braccio il numero di matricola 78599.

A realizzare il fumetto è stata una giovane disegnatrice autodidatta, Aurore D’Hondt che ha portato avanti il progetto dopo aver sentito la testimonianza della Kolinka in un incontro all’Isen di Brest, una scuola di ingegneria informatica, nell’aprile del 2019. All’epoca Aurore aveva 19 anni, la stessa età di Ginette quando è stata arrestata.
“Per me è stato un vero schiaffo in faccia. Sentendo questa anziana signora parlarmi dei suoi 19 anni all’epoca in cui io ne avevo 19, non potevo rimanere insensibile al suo discorso.
Mentre ascoltavo la storia di Ginette non potevo fare a meno di pensare che gli anni che stavo vivendo le erano stati portati via nel modo più orribile possibile. Questo pensiero mi ha accompagnato durante tutta la creazione di questo fumetto” racconta all’ANSA Aurore D’Hondt che è stata incoraggiata dalla Kolinka a proseguire con il fumetto.

Studentessa di ingegneria, specializzanda in tecnologie biomediche, D’Hondt, che ora ha 24 anni e vive tra Brest e Parigi, ha incontrato la deportata diverse volte per la realizzazione della biografia a fumetti ‘Ginette Kolinka.

Testimonianza di una sopravvissuta ad Auschwitz-Birkenau’ arrivata in libreria per BeccoGiallo, nella traduzione di

“L’idea di questo fumetto è nata da un progetto scolastico che ho realizzato durante il mio primo anno di ingegneria. Per prepararci alla visita della signora Kolinka – che ogni anno veniva a parlare nella mia scuola – i miei insegnanti ci hanno incoraggiato a creare progetti che rendessero omaggio alla sua testimonianza. Agli studenti è stata data carta bianca. Dato che fin da piccola ho avuto una passione per il disegno, è stato naturale per me realizzarne una serie che ripercorressero la storia della sua deportazione. Questo progetto è stato poi selezionato insieme ad altri per far parte di una mostra in un museo non lontano dalla mia scuola” dice Aurore del suo primo graphic-novel. “La signora Kolinka era presente all’inaugurazione della mostra. Quindi la prima volta che l’ho incontrata di persona è stato davanti ai miei disegni. Qualcosa si è cristallizzato in quel momento. Mi ringraziò per aver disegnato alcuni passaggi della sua storia, e ricordo di aver pensato tra me: ‘Ma signora, è tutta la sua vita che voglio disegnare per renderle omaggio’. È stato da quel giorno in poi che mi è venuta l’idea per questo fumetto” spiega.

Da quel momento Aurore ha fatto di tutto per rivedere Ginette che il 4 febbraio compirà 99 anni “ma è sempre in movimento, a testimoniare nelle scuole, ha un’agenda da ministro!” dice la disegnatrice. “Ogni volta che ha visitato la mia regione la ho incontrata per mostrarle lo stato di avanzamento del mio lavoro.
Successivamente ho ottenuto il suo numero di telefono e il suo indirizzo. Così abbiamo iniziato una piccola corrispondenza. Per me era importante mostrarle cosa stavo facendo. Non sarei potuta andare avanti senza conoscere la sua opinione”.
Sopravvissuta ai campi di concentramento dove è stata da aprile del 1944 a giugno 1945, Ginette Kolinka nata Cherkasky, che per molti anni è rimasta in silenzio, nella nota d’apertura si rivolge ai lettori ai quali dice:

“È la mia storia, l’ho subita.
    Tanti sono morti (tutta la mia famiglia), non sono più tornati.
    Un odore non si descrive. Le percosse non potete sentirle. Io sì. Le ho ricevute. Non potete vedere colei che le subisce svenire ai piedi dell’aguzzina”.

Nato in collaborazione con la Fondazione per la Memoria della Shoah, candidato al prestigioso Premio Une Case En Plus 2024, il fumetto è una testimonianza visiva e narrativa cruda e asciutta e per questo ancora più incisiva, accompagnato anche da brevi schede storiche. “È molto importante continuare a tramandare queste storie, per non dimenticarle. Sono una delle ultime generazioni ad avere la fortuna di ascoltarle da testimoni viventi. Dopo di loro toccherà a noi raccontare le loro storie. Il dovere di ricordare è più che importante, per evitare che la storia si ripeta” sottolinea Aurore per la quale se c’è una frase da ricordare nella testimonianza di Ginette è: “‘Ecco dove porta l’odio’. Non ha senso odiare gli altri perché sono diversi. Siamo tutti umani. Questo pensiero è l’essenza della testimonianza di Ginette”

 

 

 

 

IL MANIFESTO  11 GENNAIO 2020

https://ilmanifesto.it/ginette-kolinka-per-ricordare-chiudo-gli-occhi-e-rivedo-tutto-davanti-a-me

 

 

Ginette Kolinka: «Per ricordare chiudo gli occhi e rivedo tutto davanti a me»

L’INTERVISTA. Parla l’autrice di «Ritorno a Birkenau», pubblicato da Ponte alle Grazie, presentato alla Casa della Memoria di Roma. A 95 anni è una delle ultime sopravvissute alla Shoah. Nel lager ha perso il padre, un fratello piccolo e un nipote. A Parigi fu denunciata ai nazisti con la famiglia perché comunista. E nuovamente a Avignone perché ebrea

 

Ginette Kolinka: «Per ricordare chiudo gli occhi e rivedo tutto davanti a me»

Ginette Kolinka

 

«Un tempo mi commuovevo anche solo leggendo un romanzo rosa, ma dopo Birkenau ho smesso di piangere quasi del tutto». Sorride, un’espressione serena che le illumina il volto, mentre scandisce con calma le parole. Ginette Kolinka ha 95 anni, ma quando racconta la sua storia torna ad essere la ragazza, ne aveva 19 all’epoca, che nel marzo del 1944 fu arrestata dalla Gestapo e dalla Milizia di Vichy e deportata nel lager di Birkenau dove trascorse sei mesi prima di essere evacuata a Bergen-Belsen e quindi a Theresienstadt. La sua famiglia, denunciata ai tedeschi in quanto comunista era già fuggita da Parigi nell’estate del 1943 per rifugiarsi a Avignone nella cosiddetta «zona libera», dove, questa volta perché ebrei, lei, suo padre, il suo fratellino Gilbert di 12 anni e un suo nipote saranno nuovamente vittime di una delazione che li porterà prima a Drancy e quindi in Polonia. Solo Ginette farà ritorno a casa, gli altri finiranno nelle camere a gas appena arrivati nel campo. Dopo aver lungamente custodito quei terribili ricordi, questa donna coraggiosa, sopravvissuta a stento alla deportazione, che al momento della liberazione pesava solo 26 chili, ha scelto negli ultimi vent’anni di raccontare ai giovani ciò che ha vissuto. Dopo che la sua seconda vita era trascorsa vendendo insieme al marito articoli di merceria al mercato di Aubervilliers, la banlieue operaia del nord di Parigi dove è nata, ha deciso di sostenere l’attività dell’Union des déportés d’Auschwitz partecipando agli incontri nelle scuole e accompagnando gli studenti nei «viaggi della memoria». Nei giorni scorsi ha presentato il suo libro Ritorno a Birkenau, scritto con la giornalista Marion Ruggeri, appena pubblicato da Ponte alle Grazie (pp. 90, euro 12) alla Casa della Memoria e della Storia di Roma.

 

Nelle prime pagine del suo libro l’arrivo nel campo è descritto così: «fin lì eravamo ancora esseri umani». Poi, cosa succedeva?

Che in poco, pochissimo tempo si diventava «niente». Appena arrivate venivamo ammassate in una grande sala e costrette a spogliarci completamente. Ricordo ancora la vergogna di essere nuda davanti a delle estranee. Cercavo di coprirmi come potevo con le mani, ma una delle addette mi prese il braccio per tatuare la matricola: 78599. Altre donne cercavano di grattare via quel numero, pensavano di poterselo togliere, ma io ero sopraffatta dal pudore, pensavo solo al fatto di essere nuda. Poi venivamo rasate, prima la testa e quindi il pube. Infine ci davano dei vecchi vestiti per coprirci in qualche modo. Non le divise a strisce che si vedono nei film. No, per le prigioniere ebree a Birkenau perfino quello era considerato un lusso. Così, a poche ore dal nostro arrivo tutto era cambiato intorno a noi. Umiliate in ogni modo, la mente svuotata, ci preparavamo a fare della sopravvivenza il nostro solo orizzonte. La nostra umanità era stata spazzata via.

In «Ritorno a Birkenau» lei descrive proprio cosa abbia significato, giorno dopo giorno questa lotta per la sopravvivenza…

Non ci sono parole né film per descrivere davvero ciò che abbiamo vissuto nel lager. Ciò che l’odio ha spinto i nazisti a fare, ciò che ci hanno fatto subire. È impossibile anche solo da immaginare. Al risveglio, i colpi di frusta che spezzano le ossa, l’appello, la fame, questa zuppa che assomiglia a dell’acqua sporca raccolta in una ciotola arrugginita, la sete, il freddo, il lavoro, ancora i colpi subiti, le punizioni. Il fumo che esce dall’edificio vicino al nostro blocco e quell’odore di carne bruciata e di sporcizia. A ripensarci, mi sento morire. Ma, all’epoca, cercavo solo di sopravvivere. Avevo fame e trovare da mangiare era la prima e talvolta l’unica preoccupazione che avevo in testa. Per anni, una volta tornata a casa mi ritrovavo a frugare nella pattumiera in cucina alla ricerca di qualcosa di commestibile.

Donne ebree di fronte alle loro baracche ad Auschwitz

 

 

Da tempo lei racconta ciò che ha vissuto ai ragazzi delle scuole francesi e li accompagna nelle visite al campo di Auschwitz-Birkenau. Si è chiesta cosa provino ascoltandola?

È difficile rispondere al loro posto. Quello che posso dire è che mi ascoltano, non credo riescano ad addormentarsi mentre parlo, ma potrei anche sbagliarmi. Di una cosa però sono sicura: qualcosa è cambiato con il passare degli anni. Un tempo l’atteggiamento era spesso del tipo: «meno male c’è l’incontro con quell’ex deportata così saltiamo l’interrogazione o l’ora di matematica». Adesso invece, forse perché anche i professori sono stati a loro volta formati e sanno come parlare agli studenti di questi temi, come prepararli all’incontro, perché sanno che le cose che mi sentiranno dire sono dure, difficili da digerire per un ragazzo… Beh, ora qualcosa è cambiato, i ragazzi sono attenti, partecipi, fanno molte domande, spesso mi chiedono cose su cui io stessa mi pongo ancora degli interrogativi. Cercano di immaginare come potessimo farcela in un tale inferno, ma mi domandano anche come facevamo a lavarci o, soprattutto le ragazze, come facevamo quando arrivavano le mestruazioni. È facile rispondere in questi casi. Non ci lavavamo affatto e il ciclo si era bloccato da solo una volta arrivate nel campo.

Per quei giovani incontrare una testimone come lei può fare la differenza per comprendere davvero cosa è stato l’Olocausto. Come trasmettere questa memoria in futuro?

Mi chiedo spesso chi potrà farsi carico della testimonianza di ciò che accadde allora quando noi sopravvissuti non ci saremo più. Se ne parlerà di meno, si smetterà di parlarne del tutto? Mi ricordo di un ragazzo che, durante un incontro a scuola mi chiese, quasi con sospetto: «Ma come fa a ricordarsi tutto con questa precisione?». La risposta è che parlo tenendo gli occhi chiusi, mentre rivedo scorrere tutto davanti a me. Ricordo bene alcune cose, altre le ho dimenticate. Su altre ancora non sono più così sicura. Così, mi sembra di ricordare che una volta alla settimana i nazisti ci davano qualcosa in più da magiare: una semplice fetta di salame o un cucchiaio di marmellata. Però, forse, questo piccolo ricordo felice me lo sono semplicemente immaginato.

I responsabili della deportazione erano tedeschi, ma furono aiutati dai collaborazionisti locali. E francesi come lei erano anche le persone che vi denunciarono ai nazisti. Cosa ha pensato di costoro in tutti questi anni?

Sì, certo, furono dei francesi a denunciarci. Forse dei vicini di casa, forse qualcuno che ci aveva visto lavorare al mercato. Cosa penso? Che nella vita ci sono persone per bene e disgraziati, allora come oggi. Perché lo hanno fatto? Per caso? Perché un bambino suo coetaneo ha visto che il mio fratellino era circonciso e lo ha raccontato ai genitori. Per interesse? Dei collaborazionisti si sono presi la casa dove viveva la mia famiglia dopo che siamo fuggiti da Parigi. Per odio? Siamo stati denunciati una prima volta perché comunisti e in seguito in quanto ebrei. In realtà, una volta tornata a casa non ci ho pensato su granché, magari erano persone che vivevano ancora intorno a me. Però mi sono sempre ripromessa una cosa: se fossi riuscita a sapere chi era stato gli avrei solo voluto chiedere: «Perché?».

In Francia l’antisemitismo è tornato d’attualità, ci sono state violenze e perfino omicidi. Come è possibile a più di settant’anni dalla liberazione di Auschwitz?

Non c’è un tempo per l’odio, le persone ce l’hanno dentro, quasi non sanno neppure perché ma è lì pronto a venir fuori in ogni momento. Ci sono individui che crescono immersi nell’odio, ne fanno quasi la propria ragione di vita e talvolta lo tramandano da una generazione all’altra. Del resto, si sa, quando le cose vanno male la gente non pensa mai di essere responsabile delle proprie sventure: è sempre colpa di qualcun altro. E l’«altro» è sempre una minoranza, a cominciare dagli ebrei.

 

Quando incontra gli studenti per raccontare cosa accadeva a Birkenau le è mai capitato di respirare questo clima, ha mai percepito dell’ostilità?

Direi che mi è capitato solo una volta, con un ragazzo. Anche se si deve considerare che ci vorrebbe proprio un bel coraggio a dire «l’incontro con lei, un’ex deportata mi ha lasciato del tutto indifferente», o peggio. I gesti antisemiti, non va dimenticato, in genere accadono di notte, non di giorno, alla luce del sole. Il problema è che i pregiudizi sono duri a morire. In un’altra occasione, un ragazzino mi disse «io no, ma i miei nonni sono antisemiti». «Ah davvero, e perché?», gli chiesi. «Ma perché voi ebrei siete tutti ricchi, siete sempre in televisione e siete nel mondo degli affari». Ecco, questo è il genere di idiozie che circolano e che possono finire per influenzare le persone. Detto questo, nessun bambino nasce antisemita: lo diventa in base all’ambiente nel quale cresce e alle idee che gli mettono in testa.

 

 

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1 risposta a MAURETTA CAPUANO ( giornalista culturale Ansa ), Aurore D’Hondt, racconto a fumetti la deportata Ginette Kolinka- ANSA.IT —  27 GENNAIO 2024 — 20.01 + GUIDO CALDIRON, GINETTA KOLINKA, IL MANIFESTO 11 GENNAIO 2020

  1. DONATELLA scrive:

    Penso che la ricerca della verità sia tra le cose più preziose che si possano fare contro la “banalità del male”.

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