Oggi l’unica cosa che volevo leggere e condividere con voi, erano questi antichi racconti della nostra DONATELLA !

 

 

 Altezze.


Fin da piccolo mi è sempre piaciuto arrampicarmi su qualcosa di alto. Era un richiamo irresistibile: non potevo vedere una sedia, uno sgabello, un mobile che dovevo salirci sopra, anche se erano decisamente al di sopra delle mie possibilità. Mia mamma, poverina, era terrorizzata e cercava di eliminare dal mio raggio d’azione qualsiasi cosa che fosse più alta di mezzo metro. Mi circondava di cuscini, di tappeti, di giochi sul pavimento. Nella mia cameretta il letto era raso terra, i mobili erano pressoché inesistenti, nessun lampadario pendeva dal soffitto, ma dei minuscoli faretti si affacciavano da un controsoffitto. Tutte le finestre di casa erano state fornite di inferriate da quando i miei mi avevano sorpreso con immaginabile orrore sul davanzale della cucina a guardare giù. Diventando più grande ebbi bisogno di un piano d’appoggio per fare i compiti, ma i tavolini che usavo erano sempre molto bassi rispetto alla lunghezza delle mie gambe. Mi sembrava di essere in quelle case giapponesi che oggi sono tanto di moda. Io le odio e potete comprendere bene il perché. A scuola, almeno fino alle superiori, gli insegnanti erano avvisati della mia strana inclinazione: il mio posto era sempre lontano dalle finestre e la mia classe era sempre inesorabilmente al pianterreno. Ricordo che alle medie la mia classe rappresentò  “Il barone rampante” ed io, sponsorizzato dalla prof di lettere che aveva un debole per me, interpretai il curioso protagonista in cerca di libertà. Fu uno dei momenti più belli della mia carriera scolastica ed anche della mia vita. In qualche modo riuscii a dare un senso a quella mia smania di vedere le cose dall’alto, capii che c’era sotto qualcosa che valeva la pena di esplorare e che mi dava gioia. Durante gli anni delle superiori pensai seriamente di fare il pilota di aerei. Guardavo nelle sere limpide il cielo stellato e pensavo che tutto quello spazio con i suoi misteri sarebbe stato la mia casa futura. Mi innamorai del ” Piccolo Principe” e lessi tutto del suo autore. Una cosa però non mi piaceva: che volando sopra le nuvole non si potesse vedere nulla al di sotto. A me piaceva la terra, con le sue case, i suoi campanili, le piazze e le vie con la gente che le rende vive, i boschi che sembrano una coperta verde e dentro cui si immagina la vita degli animali. Insomma, dovevo trovare un compromesso tra la terra e il cielo, perché entrambi gli elementi mi attraevano. Decisi così di costruire tetti. All’inizio non fu facile, perché dovetti fare il muratore generico, partendo dalle mansioni più pesanti e più semplici, come il manovale. Però pian piano, andando dove nessun altro osava andare, aiutando i carpentieri, portando su gli attrezzi e il materiale, riuscii a rubare il mestiere ed ora finalmente faccio quello che ho sempre voluto: sono specializzato in tetti e sono chiamato dappertutto, anche all’estero, per il mio lavoro. So che questa mia passione è qualcosa di molto personale, che difficilmente è comunicabile. Non potete immaginare cosa si vede dall’alto dei tetti di una città. Potrei dire com’è l’anima di un paese, avendo vissuto per un po’ sulla sua testa. A me piacciono di più i tetti dei paesi nordici, così inclinati, così difficili da conquistare. Mi sembrano una sfida per virtuosi e mi danno il brivido della difficoltà da superare. Ho amato profondamente i tetti delle città del nord, forse perché sono stati i primi che ho affrontato e mi hanno fatto da scuola. Ho capito da lì che le case, le città e quindi le persone che le hanno costruite e che vi abitano, hanno mille sfaccettature. Quei piani inclinati paurosamente verso il basso sono un po’ la spia di un carattere schivo, difficile da conquistare. I tetti della Liguria sono invece contraddittori: a volte ancora coperti di tegole d’ardesia, grigi e apparentemente uniformi, si aprono poi su magnifici terrazzi pieni di luce rivolti verso il mare. Quelle aperture inaspettate mi riempiono di una gioia infinita e, se non fosse che devo comunque lavorare, starei lì ore ed ore a godermi la pace piena di vita che mi sale dentro. I tetti di alcune città sono la loro parte più espressiva: non esisterebbe il fascino di Parigi o di Praga senza quei meravigliosi tetti che sono la loro vera anima : grigi, severi, alti quelli della capitale francese, rossi, dorati civettuoli, con qualcosa che già prelude alle meraviglie orientali , quelli della capitale ceca. Lavorando e viaggiando mi sono fatto una cultura, soprattutto ho preso il meglio da ogni città o paese: è come se tutte le volte scremassi il latte e ne prendessi la parte migliore. Un giorno, quando non potrò più avere l’agilità necessaria per questo lavoro, mi ritirerò da qualche parte, all’ultimo piano naturalmente o sulla roccia più alta in vista del mare e mi riempirò gli occhi con i voli dei gabbiani.

 

Antichi cavalieri.

Ha un nome bellissimo, con un suono nobile e armonioso, da cavaliere antico o da esploratore : Sereno Giobatta Rambaldi.

Quel nome è come un’onda, ogni parola si allenta e si perde nell’altra, verrebbe da pensare agli hidalghi della meseta, oppure a quegli esploratori che fecero per primi il giro del mondo, facce diverse di una stessa insofferenza per il quotidiano. Lui invece non ha nulla di insofferente, è calmo e asciutto come un tronco di ulivo centenario. E’ un ligure autentico, di quelli che, pur non essendo stati marinai, non potrebbero rinunciare a vedere il mare ogni giorno. Da giovane ha viaggiato molto. Racconta di scorribande, di avventure, di donne che lo volevano per sempre, di viaggi fatti per allegria e per amicizia. E’ ancora adesso un bell’uomo e ha passato da un bel po’ la settantina. Veste con una certa cura. Ha un accento ligure pieno, asciutto ma non aspro. E’ un ligure di città, anche se, quando era giovane lui, la città era paese, le vie avevano a fianco gli orti, nel porto i barconi scaricavano ancora barili di cancarun, vino da poco per povera gente, i turisti erano nobili che la rivoluzione russa avrebbe travolto o lord inglesi, di più duratura fortuna. Ogni tanto pronuncia qualche parola che noi giovani non capiamo più, e gli fa piacere spiegarcela.Ci racconta di personaggi stravaganti, tutti del paese, uomini un po’ strambi, oppure soltanto un po’ fuori dalle regole, che poi, dopo averne fatto più di Carlo in Francia e quando ormai la pignatta era rotta, prendevano il mare e chi s’è visto s’è visto. Per America lui non intende gli Stati Uniti, ma l’America Latina. Ci racconta perché venga da sempre soprannominato ” U Generale “, grado conquistato sul campo di battaglia in imprese di giovanile esuberanza, non certo in imprese guerresche, da cui ogni ligure che si rispetti si tiene sapientemente alla larga.

Sereno Giobatta Rambaldi, generale della Quinta Armata del Messico : così si era autonominato e così spiegava a chi gli chiedeva, non sapendo del soprannome, quale corpo comandasse. Ride sommessamente, pensando a quei vecchi scherzi, e gli occhi gli brillano di divertimento. Racconta di un tale, Amilcare Bonfanti, suo coetaneo, diventato prete per volontà della madre, ricco, più che di soldi, di donne e di invenzioni. Un giorno, sopraffatto da tutta la situazione, preferì prendere il largo, non prima però di avere venduto la sua casa ad almeno dieci persone diverse ed avere lasciato ad un numero superiore di donne il ricordo di un figlio. Qualcuno del paese, che andò per lavoro in Venezuela, giurava di averlo visto a Caracas, vestito da vescovo, con un’aria molto solenne e con una bella croce d’oro al collo. Chiacchiere di concittadini invidiosi, eppure raccontate proprio come verità. E’ bello sentire quelle lontane follie, quelle storie bizzarre, che fanno tornare paese la città un po’ estranea, che non ha più una storia e una propria lingua in cui esprimersi.

Il Generale sa cantare bene. Canta romanze antiche, che parlano dell’amore, delle stagioni della vita che si susseguono, della lontananza e della gioia di ritrovarsi, di antichi cavalieri e di ragazze ingenue. Ma anche di donne a cui non si poteva resistere. Sul tavolo c’è pane, salame e del vermentino un po’ asprigno. Smettiamo di mangiare. La musica è troppo bella, anche se non c’è nessuna chitarra ad accompagnarla. La voce è calda, sicura. E’ ancora giovane e ferma e va diritta al cuore. La melodia è rotonda, fa pensare al ciclo della vita che sempre si ripete con lo stesso stupore e la stessa normalità. Ci viene da pensare al respiro del mare, che ci porta il desiderio di terre lontane, alle colline che alla sera si stagliano nitide contro il cielo ancora chiaro, alle giornate eterne di sole. Sul terrazzo che guarda verso il mare scende la sera. Si fa più intenso il profumo del basilico e del gelsomino. Questa notte ci addormenteremo con quelle romanze nel cuore e i nostri sogni saranno più leggeri.

Arianna e la polvere.

Si ricordava che quando era piccola e la mamma le insegnava a fare le faccende domestiche, la cosa che più detestava era “ levare la polvere”. C’erano degli stracci apposta per quell’operazione: mutande vecchie, strofinacci ormai lisi, grembiuli definitivamente stracciati. In casa sua non si buttava mai niente e ogni cosa deperibile era accompagnata con garbo verso una fine lenta e naturale. Allora non lo sapeva, ma la sua famiglia era cinquant’ anni avanti per il riciclo dei materiali. Altro che Verdi e Lega Ambiente! Ad ogni modo lei non avrebbe mai voluto spolverare; quando lo faceva, era un’operazione che restava a metà. Controluce si potevano vedere sui mobili larghe chiazze di polvere, che rivelavano la sua malavoglia. In certo qual modo era affascinata da quei piccoli granelli di chissà cosa, si chiedeva da dove avessero avuto origine, che cosa sarebbero ulteriormente diventati… Quando poi riusciva a vedere la polvere attraverso un raggio di sole, si perdeva in quella contemplazione, perché i corpuscoli avevano ciascuno una vita propria e se ne andavano da tutte le parti, con un movimento continuo e irriducibile. Chissà se così era nato l’universo, per aggregazione di tutti quei puntini, che ora si stavano disgregando e creando magari altri corpi. Crescendo ebbe sempre meno tempo per la meditazione fine a se stessa. Ormai adulta e con una famiglia propria, vi furono periodi in cui non avvertiva nemmeno più la polvere, troppo presa dalle varie incombenze: il lavoro, la casa, i figli. Ogni tanto, quando il senso di colpa della cattiva casalinga la prendeva, agitava sui mobili più in vista un panno giallo, dopo avervi spruzzato una sostanza cattura-polvere. Gli anni della maturità passarono indenni tra polveri casalinghe, polveri industriali che si respiravano nella grande città, polveri sottili, ossido di carbonio e altre schifezze. Quando giunse alla pensione ed i figli erano ormai cresciuti, ebbe di nuovo il tempo di soffermarsi sulla polvere. Aveva molti libri, ovviamente invasi da quei granellini eterni che erano i veri padroni di casa. Dato che lei teneva molto ai suoi libri ( di ognuno ricordava qualcosa di piacevole o di interessante che aveva letto), dedicò molto tempo alla loro pulizia. Comprò perfino un aspirapolvere speciale che si insinuava tra un libro e l’altro e non permetteva a quel nemico fastidioso di annidarsi tra i volumi. Passò molto tempo a fare piazza pulita della polvere. Quando ebbe spolverato i libri uno per uno ( erano qualche migliaia), si accorse di dovere ricominciare da capo, perché nel frattempo i primi ad essere stati ripuliti si erano di nuovo ricoperti di quello strato subdolo e grigiastro. A quel punto capì che il suo odio infantile per levare la polvere era stato in realtà un’intuizione geniale: contro nemici che non si possono sconfiggere è meglio fare una tregua, se non proprio la pace. Soprattutto la cosa più saggia è ignorarli. E così si consegnò armi e bagagli, impotente e piena di meraviglia, a quel nemico invincibile: la polvere!

Benni il coniglietto.

 

Benni era un povero coniglietto, tutto pelo e niente ciccia. Pesava un etto, pelo compreso, e la sua più grande preoccupazione era di nascondersi da un terribile mostro chiamato Giorgino. Non riusciva a capire come poteva essere finito in quella situazione: si trovava in una gabbia di ferro e tra le sbarre ogni tanto appariva una zampa minacciosa. Era la zampa del mostro. Il mostro era peloso come lui, però aveva un odore strano e faceva dei versi orribili. Le sue unghie erano ad uncino e lui le aveva evitate per un pelo, è il caso di dirlo. La sua mamma ( non era la sua vera mamma, ma la giovane donna che l’aveva portato via dal negozio) chiamava quell’orco Giorgino. Certo che gli umani sono strani nell’affibbiare i nomi: lui, così piccolo, Benni ed invece quell’essere grande e grosso finiva in ino, come pasticcino, topino, carino, piccolino…. Meno male che il cibo era abbondante, anche se poco variato. Gli piaceva rosicchiare, perciò gli davano quei cilindretti duri e saporiti. Però avrebbe preferito ogni tanto qualche carota, un pezzo di mela, una nocciola. Nella sua gabbia c’era l’acqua, ma gli veniva nostalgia del latte della sua mamma, la prima che aveva avuto. Si ricordava di un liquido tiepido e un po’ dolce, che poteva succhiare da una pelle morbida e meravigliosa. E’ vero che doveva dare dei grandi spintoni e riceverne, perché aveva un sacco di fratellini e sorelline che come lui erano affamati di latte e di vita. Però si ricordava di un tepore che ancora adesso lo faceva andare in estasi e che gli tornava in mente tutte le volte che stava per addormentarsi. Che sensazione magnifica! L’orco però era ritornato alla carica e lo guardava con degli occhi terribili, verdi-gialli, che non promettevano nulla di buono. Fu allora, quando ormai pensava di essere stritolato da una zampata, che Giorgino gli parlò: “ Ciao, Benni. Non avere paura di me. Io sono un gatto, un po’ diverso da te, ma in tante cose siamo uguali: abbiamo il pelo, i baffi, ci piace mangiare anche se non riesco a capire come fai a mandare giù quelle schifezze. Beh, possiamo essere amici. Non avere paura delle mie unghie, so tenerle a posto con chi non voglio offendere. Io sono più grande di te, conosco di più il mondo e se vuoi possiamo farci compagnia. Posso essere per te un fratello maggiore o un giovane zio, come preferisci. Lo so, il mio alito puzza un po’ di pesce, ma sono le scatolette che mi danno da mangiare, e poi anche tu in quanto a mandare odori, non scherzi. Se sei d’accordo, adesso ti apro la gabbia, esci fuori e ci facciamo compagnia”. Fu così che Francesca, la mamma umana dei due ormai amici, li trovò uno accanto all’altro, che dormivano beatamente. Giorgino teneva tra le sue zampe Benni e lei avrebbe giurato che facevano gli stessi sogni.

 

 

 

Bugie.

 

Era nato bugiardo, non ci poteva fare nulla, anzi nessuno ci poteva fare nulla. Era nella sua natura e se non avesse potuto dire bugie si sarebbe ammalato o qualcosa di peggio. Già nella pancia di sua madre si era provato a dire bugie : lui si girava da una parte e, mentre sua madre, estatica, diceva al padre: ” Guarda come il nostro piccolo muove i piedini”, lui in realtà muoveva i pollici delle mani. Appena nato sputò il latte materno,” per una incompatibilità congenita”- dissero i pediatri. In realtà era lui che fingeva di non volere quel latte naturale per attirare su di sé l’attenzione e per gustare altre prelibatezze. Non crediate che lo facesse con malizia: lo faceva perché così gli veniva e non avrebbe concepito un modo di vivere diverso: troppo noioso. All’asilo vi fu solo una maestra che lo capì a fondo: lei si limitava ad interpretare al contrario quello che lui diceva e tutto filò meravigliosamente. Le scuole successive furono più dolorose, soprattutto con quegli insegnanti che la mettevano sul piano morale e non capivano il lato puramente creativo delle sue menzogne. Avevano un gran spiegare i suoi genitori di come le sue bugie fossero innocenti: non c’era verso che quei noiosi vedessero il lato paradossalmente giocoso di quelle storie e inchiodavano il piccolo bugiardo alle proprie responsabilità. Finalmente si concordò tra scuola e famiglia una soluzione: si sarebbe interpretato il contrario di quello che l’incorreggibile Pinocchio avesse detto o scritto: se diceva a casa che gli insegnanti lo avevano interrogato, voleva dire che nessuno gli aveva chiesto niente, se diceva che non aveva avuto verifiche era perché ne aveva fatto almeno due nella mattinata. Insomma, non era facile vivergli accanto. I genitori si erano fatti una lista dei contrari e la consultavano quando erano un po’ incerti nella decifrazione. Pinocchio ( ormai tutti lo chiamavano affettuosamente così e lui non se ne dispiaceva) diceva che la nonna era sul punto di morire? Semplicemente la nonna scoppiava di salute ed aveva appena prenotato una crociera ai Caraibi. Se diceva di non avere fame, avrebbe ingoiato chili di roba, se diceva di non stare troppo bene, voleva dire che sprizzava di gioia di vivere, se diceva di avere segnato due goal nella partita con la scuola avversaria voleva dire che aveva sbagliato un rigore; quando diceva di non avere sonno si addormentava di colpo sul letto. Insomma, avrete capito che in fondo si trattava semplicemente di decifrare quello che diceva e che non c’era malizia in lui: semplicemente il nero era bianco e il bianco nero. Quando cominciò l’età degli amori, ebbe la vita semplificata, perché, nelle schermaglie amorose, quando le ragazze gli chiedevano se voleva loro bene e lui rispondeva di no, queste si innamoravano pazzamente di lui. Una però fiutò la preda e capì che c’era da divertirsi: quando Pinocchio le disse che l’odiava, non lo lasciò più andare via e divenne la sua fata Turchina. Anche nel lavoro ebbe grosse soddisfazioni: si mise molto presto in politica, perché aveva intuito che la verità interessava a ben pochi. Le storie che lui raccontava facevano bene alla gente. Le persone erano sfiduciate, oppresse dalle difficoltà della vita, preoccupate per il futuro? Bastava che lui sorridesse e dicesse che nei prossimi anni tutto sarebbe andato per il meglio, che il Paese aveva un rigurgito di ottimismo, l’indice della borsa saliva, i consumi si impennavano e la gente faceva più figli. Divenne l’idolo delle folle e durante gli anni del suo governo, che lasciò completamente vuote le casse dello Stato, ci fu una crescita demografica enorme, perché si investiva in figli, convinti che bisognasse far godere il più possibile la razza umana in quella nuova età dell’oro. Quando fu sul punto di morire annunciò in televisione che il medico gli aveva detto che sarebbe scampato ancora per cent’anni e che tutti quindi dovevano stare tranquilli e felici come sempre. Era così convinto di quello che diceva che era già morto da qualche giorno e non se ne era accorto. Fu il suo segretario che lo vide particolarmente pallido a dare l’allarme.

 

 

Cieli profondi

 

Prima che me lo chiediate voi chi sono, mi presento io: sono un lama, sì, avete capito bene, un lama delle Ande. L’ho subito specificato perché tanti, per fare gli spiritosi, giocano sull’equivoco del lama tibetano. E’ da quando sono nato che questi scherzi da asilo mi perseguitano e anche se cerco di stare calmo, come mi hanno sempre raccomandato i miei, preferisco prevenire la battuta idiota piuttosto che avere delle reazioni troppo violente. L’altra domanda che in genere mi viene fatta è cosa ci sto a fare in Italia, visto che la mia patria è così distante. Mi piacerebbe domandarlo a chi mi ha portato qui, per dire che non è certo stata una mia scelta. Forse la cosa più breve è cominciare dall’inizio. Sono nato sull’altopiano andino, in una giornata di sole ma molto fredda. Mi sembra ancora adesso di sentire il vento che mi sferza ed io che sto attaccato a mia madre per succhiare il latte e per ripararmi. Da noi la vita è molto dura: appena nati dobbiamo imparare contemporaneamente un sacco di cose, ma la più difficile è stare in piedi e tenere il passo dei grandi. Non ci sono alternative e vi assicuro che a una scuola di quel genere uno fa di tutto per imparare. Ad ogni modo la mia infanzia ebbe anche dei momenti piacevoli: quando si giocava con gli altri piccoli, quando mia madre mi teneva stretto contro di lei per ripararmi dal freddo della notte, quando mi insegnava a non mangiare certe erbe che erano velenose oppure mi faceva vedere i passaggi più facili per passare da un pascolo all’altro. Non ci posso pensare troppo perché mi commuovo e allora succede che non sono abbastanza coriaceo per affrontare la vita che mi sta attorno. Ho nel cuore quello spazio sconfinato che ho visto dal momento in cui ho aperto gli occhi e in certi momenti sembra risucchiarmi da dentro. Devo fare attenzione perché mi capita come una vertigine, credo di perdere per qualche secondo la coscienza del presente. Tutto ciò è molto pericoloso, non me lo posso permettere. Ho scoperto però che se mi addormento pensando alle mie montagne, mi succede di sognarle e allora sto bene per intere giornate.

Non vi ho ancora detto come ho fatto ad arrivare fin qui. Mi ci hanno portato, naturalmente, e senza chiedere il mio parere. Un giorno, mentre facevo colazione coi miei amici ( mia madre mi aveva appena detto che stavo aspettando un fratellino), sentimmo uno strano rumore nell’aria, ma non era né il vento né qualche stormo di uccelli. Era un aggeggio luccicante, che faceva un baccano infernale man mano che si avvicinava e che seppi, in seguito, chiamarsi elicottero. Cercai di scappare, ma ero così curioso che mi attardai qualche istante di più per veder lo strano uccello. Sentii una fitta sul dorso, come se una pianta spinosa mi avesse punto. Quando mi risvegliai, ero impastoiato e con la testa confusa. Stavo rannicchiato senza potermi muovere sul fondo dello strano uccello che mi aveva rapito. Sentivo un rumore terribile e c’erano degli strani esseri (seppi in seguito che erano degli animali terribili, con poteri enormi e che si chiamavano uomini). Non posso dire che mi abbiano trattato male, anzi, una volta arrivati di nuovo sulla terra, erano molto preoccupati del mio stato di salute. Mi misero dentro un recinto, con altri lama che erano stati catturati come me. Per parecchi giorni non mi mossi dal suolo e non presi l’erba che due volte al giorno venivano a mettere nelle mangiatoie. Poi una femmina mi si avvicinò e mi disse: “Non fare così, se no morirai o ti abbatteranno loro. Ci prendono per venderci in posti lontani, dove non siamo conosciuti e altri uomini pagano per vederci. Cerca invece di stare bene, perché tanto è lo stesso. Se ti lasci morire nessuno piangerà la tua mancanza; solo noi qui dentro saremo un po’ più tristi e tua madre, anche da distante, sentirà che non ci sei più e non si darà pace. Se vivi invece potrai magari fare in modo che altri come noi non facciano la nostra fine. Non tutti gli uomini sono come quelli che ci hanno preso; altri, vedendoci in questo stato, avranno pietà di noi e cercheranno di impedire che queste malvagità accadano”. Mi lasciai convincere, forse perché mi ricordava mia madre, forse perché era come me ma più coraggiosa. Successe come quando, appena nato, avevo deciso di tenere il passo degli adulti. Ancora una volta scelsi di vivere, così, istintivamente.

Da allora di cose me ne sono successe: ho fatto dei lunghi viaggi in aereo, sono stato per molto tempo in uno zoo in una grande città che mi hanno detto che si chiama Roma. Non è che ci si stia poi tanto male, ma mi ha sempre dato fastidio il fatto di dovere vivere in vetrina, con tutta quella gente che ti fissa e non pensa che potrebbe esserci lei dall’altra parte del recinto. Dopo un po’ di anni sono stato ceduto ad un piccolo circo ambulante perché gli zoo non sono più di moda. In qualche modo la femmina che mi aveva convinto a vivere aveva avuto ragione: gli uomini, per quanto interessati quasi solo al denaro, hanno capito, anche se non tutti, che ogni essere vivente va lasciato nel suo ambiente. Altri miei compagni di sventura mi hanno voluto dire invece che l’animo degli uomini è sempre lo stesso, solo che con la televisione si possono veder tutti gli animali di questo mondo. Ad ogni modo, in questo piccolo circo io sto bene, sono rispettato, anche coccolato perché, insieme ad un dromedario un po’ spelacchiato sono l’unica risorsa della famiglia che mi ha comperato. Viaggiando vedo sempre cose nuove, perché nel nostro furgone (mio e del dromedario) c’è una piccola finestrella. Nella città ero sempre nello stesso punto; invece adesso quasi ogni giorno cambiamo paese. Ho rivisto dopo tanti anni delle montagne in lontananza e, quando si fa sosta per riposarsi o mangiare, se il posto è tranquillo, mi lasciano andare un po’ in giro a brucare l’erba fresca. Mi si risveglia allora una nostalgia terribile e il dromedario, che anche da giovane non deve essere stato molto sveglio, mi guarda con un po’ di fastidio e mi dice: ” E’ possibile che ti commuovi per un po’ di erbetta? Se vedessi allora le mie dune di sabbia!”. I primi tempi ho cercato di spiegargli che la mia erbetta valeva la sua sabbia, ma poi ho visto che non capiva, anzi rischiavo di rovinare il rapporto e così adesso non dico più niente. Mi limito ad andarmene un po’ più in là e a godermi in pace la mia nostalgia. C’è una bimbetta molto carina, la più giovane della famiglia, che mi viene vicino, mi parla, mi racconta di quando la sua famiglia è dovuta andare via dal paese perché c’era la guerra. Mi ha detto che c’erano degli uomini molto cattivi che volevano ucciderli tutti: dicevano che erano stranieri, zingari mi pare, che rubavano ed erano di un’altra religione, perciò dovevano sloggiare. Ho capito da lei che gli uomini trattano male non solo noi animali, ma anche quelli della loro specie che hanno la colpa terribile di essere poveri. La bimba mi guarda e mi chiede” Tu mi capisci, no? Raccontami di come sei venuto qui. Chissà la tua mamma, poverina, quando sei andato via. Io almeno la mia mamma ce l’ho. Raccontami dove sei nato.” Stiamo così per un po’ di tempo, ci guardiamo negli occhi e credo che lei mi capisca, perché mi accarezza dolcemente, mi dà bacini, è come se mi volesse in tutti i modi consolare. Io mi godo quella tenerezza e quando mi addormento sogno le mie montagne sotto un cielo terso.

 

Coccobrillo.

 

Sono un bellissimo coccodrillo, verde smeraldo. Abito nell’acqua fangosa di un grande fiume, praticamente dove sono nato. La mia mamma, che aveva curato molto il nido quando noi eravamo ancora uova, appena usciti dal guscio ci informò dei pericoli che avremmo incontrato: essere mangiati da altri coccodrilli più grandi, stare sdraiati al sole e addormentarsi alla sua tiepida carezza, magari dopo un pranzo troppo abbondante, mentre un gruppo di cacciatori ti sta puntando da lontano, venire travolti dalle piene del fiume, dare troppa confidenza ad altri animali quando ti dicono che hanno conosciuto i tuoi parenti. Mi ricordo ancora punto per punto le precise e fiere parole di nostra madre:

Bambini, ricordatevi che voi siete dei coccodrilli, appartenenti alla nobile specie dei sauri. I nostri antenati nell’antico Egitto erano considerati divinità, erano onorati e venerati. Da ciò deriva che abbiamo diritto a tutto il rispetto possibile da parte delle altre specie viventi, compreso quel tanghero dell’uomo che si considera il re dell’Universo ( ma poi, chi glielo avrà mai detto?). Noi, divinità destinate al possesso dell’intera Terra ( del resto l’ abbiamo già avuta per milioni di anni), dobbiamo mantenere tutto il decoro possibile e non scordarci mai da dove proveniamo. Ed ora andate, fate attenzione a quelli più grandi di voi, non fidatevi di nessuno e ricordate cosa vi ho detto. Ho saputo di borse, cinture, scarpe fatte con i cadaveri scorticati dei nostri simili. Cercate di non diventare uno di quegli oggetti e soprattutto, vendete cara la pelle! “. Sparì nell’acqua con un gran colpo di coda e noi rimanemmo come orfani.

Io per tenermi su, cercai subito di giocare un pò con i miei fratelli e sorelle, ma non mi degnarono di uno sguardo. “Procurati un pranzo e una cena decenti, altrimenti morirai di fame. I coccodrilli non giocano tra di loro, altrimenti sarebbero già spariti dalla faccia della Terra! Tutto il tempo lo occupano a lavorare, cioè a cacciare e poi a digerire quello che hanno divorato. Ricordati le parole della mamma. D’ora innanzi faremo finta di non conoscerci. Da soli siamo meno individuabili, sotto l’acqua diventiamo invisibili!”

Se ne andarono tutti, seguendo la corrente del fiume. Pensai che non li avrei mai più rivisti, ma dopotutto non era una grande perdita. Cominciai a guardarmi intorno: il paesaggio era piacevole, del resto c’ero nato. Un albero, con grosse radici scoperte, faceva una deliziosa ombra, l’acqua era fangosa ma non tanto da non potere vedere sul fondo pesciolini, granchi e frutti caduti dagli alberi che circondavano quella specie di pozza, formata dall’ansa del fiume, che la riforniva regolarmente di acqua pulita. Ringraziai i miei antenati e mia mamma in particolare per avermi dato una dimora così incantevole. Perché avrei dovuto andarmene da quel paradiso in cui ero nato, per andare a uccidere altre creature come me? Se volevo mangiare, lì ce n’era in abbondanza: un po’ di granchi, di pesciolini, di frutti. Pian piano sono diventato anche vegetariano, di quelli che mangiano solo ciò che cade spontaneamente dalle piante. Non ho le lunghe digestioni che caratterizzano i miei parenti, non piango quando digerisco e sono amato da tutti gli animali della foresta. Qualche volta succede che un coccodrillo passa di lì , si ferma un po’ a riposare e mi racconta che cosa succede nel mondo. So che quasi tutti i miei fratelli e le mie sorelle hanno fatto strada, sono arrivati dove il fiume bagna una grande città e loro così hanno una dieta molto varia, da privilegiati, perché la gente butta di tutto nel fiume. Purtroppo tre o quattro di loro sono stati divorati da colleghi più grossi ma hanno fatto in tempo a lasciare tanti figli e nipotini.

Mia mamma ha sempre detto in giro di avere fatto un figlio strano, che sarei io. Mi chiama Coccobrillo ( le piace appioppare dei soprannomi) perché dice che solo uno fuori di testa poteva rifiutare quella bellissima eredità genetica trasmessami da lei e da e mio padre ( non ho mai saputo chi fosse, perché all’inizio,quando lo chiedevo, mia mamma ha sempre cambiato discorso).  Adesso anche altre bestie della foresta mi chiamano Coccobrillo, perché le scimmie, che sono curiosissime e girano di albero in albero, lo sono venute a sapere e hanno sparso la voce. A me fa piacere perché non sento più attorno a me quella brutta diffidenza che mi procurava solitudine. Posso giocare tranquillamente con la proboscide degli elefanti ( ce ne sono di molto simpatici e quando vengono ad abbeverarsi le mamme lasciano che i loro cuccioli scherzino con me). I miei denti li uso per pettinare la criniera dei leoni e per togliere loro qualche insetto fastidioso; anche se a volte esagero un po’ nel tirargli qualche pelo ma non si arrabbiano perché sanno che lo faccio per il loro benessere. L’ippopotamo è un po’ musone e non sono ancora riuscito a farmi conoscere da lui. Quando viene qui con la sua famigliola e si immerge nel fango, mi dà delle occhiate di sospetto minaccioso e sembra volermi dire:” Attenzione a far del male ai miei piccoli (- Di qualche tonnellata – penso io).
Il più piccolo dei cuccioli l’ultima volta ha giocato con me. Quando col muso gli ho porto un’alga particolarmente gustosa, l’ha afferrata e mi ha mandato un grugnito di soddisfazione, poi si è messo una ninfea sulla testa per farmi ridere. Avrete capito ormai che mi sento bene inserito nel mio mondo e presto spero di sposarmi . Ho già sentito ( sempre dalle scimmie) che c’è una coccodrillina poco distante da qui: non ha parenti, è molto graziosa e si dice che non le piaccia cacciare.

 

Cultura

 

Era affamata di cultura. Tutti i generi la affascinavano, dall’archeologia alla storia, dalla geografia umana alla scienza, dall’antiquariato alla storia dell’arte, per non parlare della storia del teatro e della canzone, fino alla storia del jazz , della tecnologia, della musica classica e lirica, del folk.. Era la gioia dei venditori di libri a rate. Dover pagare una cifra ogni mese a più case editrici le dava una bella sicurezza, le confermava l’idea di lavorare per qualcosa, per qualcuno. Quando aveva terminato un’enciclopedia, cioè aveva finito di pagarla, ne iniziava subito un’altra, assecondando il gioco perverso dei venditori, che difficilmente permettono a qualcuno di togliersi da quel giro di dannati. Lei però era consapevole e contenta, guardava con soddisfazione tutti i bei volumi allineati sugli scaffali della sua biblioteca, li accarezzava, li sfogliava e tutto ciò le donava una grande calma e una serena pienezza di vita. Quando non bastarono più i ripiani della libreria, accatastò i libri sotto il letto, fece delle file ordinate nelle camere per cui sembrava di essere in una biblioteca vera, solo un po’ più allo stretto. Anche quando venne l’era del computer non si dette per vinta: lei amava la carta stampata e non si sarebbe sognata mai di imprigionare tutte quelle belle parole, quelle figure, quei concetti in una macchina grigia, che non si poteva nemmeno sfogliare. In famiglia aveva contro tutti : il figlio si serviva esclusivamente di libri presi a prestito dalla biblioteca comunale e sosteneva l’immoralità di tutti quei soldi spesi in cultura a chili, il marito fu sul punto di lasciarla, ossessionato e soffocato da tutto quell’ingombro casalingo. Lei rimase imperterrita, sicura che quel suo modo di acquisire cultura per sé e per le generazioni a venire di casa sua fosse importante e utile per tutti. Sognava di andare in pensione per poter leggere tutto quello che aveva accumulato durante la sua vita senza mai poterlo però conoscere davvero. Quando ciò avvenne e cominciò il suo programma di lettura, si rese conto che neppure se fosse scampata duecento anni avrebbe potuto assimilare tutta quella roba. Ebbe un serio esaurimento e per molti mesi non poté leggere neppure una pagina, nemmeno sfogliare un quotidiano. Un giorno si svegliò di buon umore, guardò con distacco tutti quei volumi che si stavano riempiendo di polvere, prese pochi libri di poesie e qualche romanzo che mise sul comodino da notte e tutto il resto lo donò alla biblioteca della scuola dove aveva insegnato per trent’anni.

 

Cantico di Natale anni ‘50

L’aria è molto fredda, il cielo è grigio e distante. La porta della nostra drogheria è semichiusa per attutire il gelo che viene dalla piazza. La vigilia di Natale è arrivata, ma c’è un po’ di tristezza nell’aria. Gli affari non vanno per niente bene perché di soldi ne circolano pochi.

Nostra mamma, come in tutte le feste, ha fatto una bella vetrina, con carta argentata , ciotole di canditi, uva sultanina, scatole di cacao , di the, di caffè. Per noi bambini questo è l’autentico segnale del Natale che sta arrivando, insieme alle vacanze che sono già iniziate da un giorno. Ci divertiamo a stare in negozio come i grandi e a vedere entrare ed uscire le persone . E’ bello anche guardare fuori: dal mattino presto si sono installati in piazza con un banco provvisorio, sicuramente abusivo, fatto di due cavalletti e un asse abbastanza lungo, due o tre individui che da noi si chiamano “lingere”.

Sono giovanotti, ma nemmeno tanto giovani, mal messi e con una fama da “faignants”, da fannulloni. Quello di loro che viene abitualmente chiamato “Rovinafigli”, in memoria di un’epica lite da lui sostenuta contro alcuni suoi stretti famigliari, è a capo dell’impresa. Hanno costruito con cartoni e colla delle capanne un po’ storte che probabilmente non vedranno mai nascere il Bambino. Speravano di fare un po’ di soldi, ma in tutta la giornata non sono riusciti a vendere niente. Si fa scuro e il freddo si sente di più. Entra in negozio, per riscaldarsi un po’, Gambin ( così è chiamato da tutti nella piazza ma non sappiamo il perché). Possiede un baracchino ( lui lo chiama azienda) dirimpetto al nostro negozio. Vende ostriche ed altri frutti di mare e normalmente si tira su, inverno ed estate, bevendo
” cicchetti” uno dopo l’altro, reggendo bene tutti i generi di alcolici. Mia mamma, che si immedesima nel fallimento dei venditori di capanne ( loro in più non sono nemmeno al coperto), esprime la sua pena per loro : dice che vorrebbe avere tanti soldi per comprargliele lei tutte quelle capanne. Gambin sostiene invece che non darebbe nemmeno un soldo a degli scansafatiche poco di buono che dovrebbero solo andare a lavorare.

Si rompe inevitabilmente l’atmosfera di comprensione universale e siamo riportati tutti sulla spietata terra. Ormai è venuta l’ora di chiusura, i negozi stanno tirando giù le saracinesche, anche Gambin è andato a chiudere la sua azienda. Nella quiete un po’ sorda della sera natalizia sentiamo delle urla nella piazza. Finalmente qualcosa di interessante da vedere, anche per noi bambini: Rovinafigli, ormai in preda ad una rabbia violenta e ai tanti bicchieri bevuti per scaldarsi, sta scagliando a terra, una per una, le capanne invendute, praticamente tutte. Bestemmie volano insieme ai rozzi manufatti, qualche passante si ferma incuriosito, tutti noi, grandi e piccini, assistiamo alla fine violenta di grandi speranze. L’ostricaio è l’unico che tenta di opporsi a quella tempesta distruttiva .” Ma dai, non fa cuscì.! Ti purerai vendile l’annu proscimu” e intanto afferra una capanna. “ Ti vei, ‘sta chi a l’è bèla, tegnila!. “

Ma Rovinafigli è ormai al di là di ogni ragione;” Na, a veuio buttà tutto. A sun in disgrasiau. Maledetu u Natale e chi u l’ha inventau”. Gambin, con aria quasi paterna e un po’ falsa, prende in mano un’altra capanna:” Sta chi damela a mi, ciutost che butala, cuscì duman a fassu u presepe a ca mea. In fundu i nun son cuscì brute”.

Di fronte alla valutazione così modesta del suo lavoro, l’ira sale ancor di più:” Na, a devu buttà tutu, lascime sta, a sun nasciu disgrasiau! Ti u dixi anche tu che i sun brute”.

La rabbia e la violenza sono contagiose : finalmente anche l’ostricaio esprime il suo vero e più profondo parere e al diavolo l’amore per il prossimo. Tenendo la capanna in mano, quella che non era poi così brutta, esclama inesorabilmente il suo giudizio: “ Sci, ti l’hai raixiun. I sun brute. Adessu a posciu ditelu che i sun propiu di brutesci! A te do ina man anche mi !” e giù a buttare capanne per terra e a saltarci addosso con i piedi. Davanti a tutto quel furore, un po’ di gente si è radunata e guarda divertita. Nessuno tenta di fermare i due invasati, qualcuno dice che è sacrilegio distruggere in quel modo delle cose destinate al Bambino. Mentre il gruppetto di curiosi si scioglie, si sente un commento anonimo ad alta voce:” Però i l’eira propriu brute! U l’è staitu meju sciupale”.

 

Elezioni

Ho sempre partecipato con interesse e con vera passione agli scontri elettorali. Dal dopoguerra in poi, i mesi di aprile e maggio hanno significato per me non solo il ritorno della bella stagione, l’aria più tiepida, il verde tenero delle foglie appena nate, ma anche i palchi per i comizi nelle piazze, gli inni suonati a pieno volume, la gente che si radunava e discuteva, i volantini multicolori, insomma quell’atmosfera frizzante che sottolinea l’imminenza di un evento. Ricordo con una punta di nostalgia i comizi del dopoguerra, le parole infuocate dei grandi tribuni, il calore degli applausi e dei fischi con cui venivano sottolineate le frasi più significative. Sui palchi lasciati liberi dagli oratori alla fine delle manifestazioni i bambini giocavano, mimando i discorsi che ancora facevano infervorare gli adulti rimasti in piazza.

L’Inno dei Lavoratori era la colonna sonora di quella meravigliosa festa. Mi piaceva quella marcetta non tanto per ragioni politiche, ma perché mi sembrava di procedere insieme a tanti , uomini e donne, verso un futuro gioioso. Gli altri inni mi piacevano anche loro, ma erano troppo fiacchi o troppo solenni e non mi davano quella specie di ebbrezza che si ha quando ci si aspetta di divertirsi insieme a molti. Io stavo proprio vicinissimo ad una grande chiesa e sentivo anche le campane, che interrompevano ad intervalli regolari i comizi e le musiche. Nascevano polemiche, tafferugli, dibattiti infuocati, poi, terminato lo scampanio, come bravi scolari dopo l’intervallo, tutti si rimettevano ad ascoltare l’oratore di turno. Ho visto anche una processione della Madonna Pellegrina. Mi piaceva quella statua, vestita con un manto bellissimo, che sembrava guardare tutti amorevolmente dall’alto, un po’ preoccupata per quel suo procedere ondeggiante tra la folla, con la corona che traballava ad ogni scossa.

Lo spettacolo più bello era la preparazione: gli elettricisti che mettevano le luminarie, i negozianti che tralasciavano i loro affari per costruire grandi festoni di carta multicolore, le fioraie che mettevano in grosse ceste i petali delle rose già un po’ sfiorite che sarebbero stati gettati sulla strada immediatamente prima del passaggio della Vergine. La colonna sonora era ” Noi vogliam Dio”, cantato in un coro sommesso dai partecipanti, che sembravano davvero chiedere qualcosa di importante e di irrinunciabile alla Madre Celeste. Volute deliziose di incenso arrivavano fino a me e anch’io, nella mia totale materialità, mi sentivo profondamente commosso da non so bene che cosa, come quando all’improvviso viene da piangere senza motivo perché qualcosa si scioglie dentro di noi e ci ritroviamo più liberi e più indifesi di fronte al mondo.

Beh, io sono un muro, sì un muro vero, perciò, se vi dico queste cose mi dovete credere. A quei tempi ero un muro scampato ai bombardamenti, con l’intonaco un po’ scrostato, ma arzillo e vitale come tutti i sopravvissuti alla guerra. I miei strati più profondi, delle magnifiche pietre di torrente che mi avevano permesso di resistere ai colpi e agli spostamenti d’aria causati dalle bombe, cantavano dentro di me come fossero ancora accarezzate dall’acqua. Non mi importava granché di avere un aspetto un po’ malconcio: mi appiccicavano in continuazione dei manifesti, che poi qualcuno nottetempo strappava. Ero tutto sporco di colla, ma ero fiero delle cose che comunicavo. C’erano parole importanti su quei pezzi di carta: libertà, pace, progresso, ricostruzione. Mi trasmettevano una gran voglia di fare, come da tanto tempo non provavo più. Mi divertiva sentire i commenti di quelli che si fermavano a leggere: erano frasi molto diverse, chi era per la Russia e chi per l’America, chi per la Chiesa e chi per il Socialismo, ma tutti parlavano e sembravano appassionati. C’era anche chi mi scriveva sopra con la vernice rossa ” Viva Stalin”, ma io non mi arrabbiavo, anzi pensavo che avrei potuto conservare di quegli anni una memoria più duratura e meno effimera di quella su carta.

Se si dessero la pena di scrostarmi, troverebbero dentro di me quella scritta, come altre più anonime e qualunquiste: ” Siete tutti ladri”, “Abbasso tutti e viva me”,” Viva il partito della bistecca”. Non ho mai sopportato la scemenza e quando l’ho dovuta subire mi sono sempre augurato che qualcuno di buona volontà un giorno la sconfessasse ed io potessi dare vivente testimonianza di uomini barbari e irragionevoli vinti dalla serenità della ragione. Ad un certo punto della mia memoria ci sono più scritte che manifesti : ” Viva Mao”, ” Vietato vietare”,” Uno, due, cento Viet-Nam”: Non è che capissi tutto, però mi sembrava che chi scriveva su di me si riferisse ad avvenimenti importanti che stavano accadendo nel mondo e questo mi faceva viaggiare con la fantasia che, per un muro, è il massimo di spostamento concesso.

C’è stato poi un periodo di gran silenzio. Da chiacchiere che sentivo vicino a me ho intuito che qualcosa aveva sostituito le parole, almeno quelle scritte, un oggetto chiamato Tivu, che le persone guardano regolarmente ogni sera in casa propria prima di addormentarsi. Insomma un concorrente sleale, che non mi ha più permesso di testimoniare le idee degli uomini e che mi ha estromesso con violenza subdola dalla storia. Attualmente sono stato restaurato, che vuol dire che mi hanno dato la solita riverniciata. Le persone si sono fatte più educate e non mi scrivono più addosso. Anzi, hanno messo degli appositi tabelloni, proprio qui davanti a me, per appiccicarci i manifesti. Visto il contenuto, sono contento di non doverli più sopportare: ci sono degli enormi faccioni, poco rassicuranti a dire il vero, che invitano la gente a votarli, non si sa bene il perché. Il perché infatti non viene spiegato. L’immagine ha sostituito le idee e le parole che le esprimevano. Io però, avendo molto tempo a disposizione ed essendo per natura meditativo, riesco a sapere molte cose da quelle facce.

Mentre credono che nessuno ascolti, si dicono tra loro quello che pensano davvero e che io avevo già intuito. Molti manifesti si vergognano di essere lì, per la carta sprecata e per le facce che hanno stampate addosso. Certi confessano di fare di tutto per fare apparire ancora più disgustosi i vari personaggi e sono grati a quelli che nottetempo vanno a cambiare gli slogan o aggiungono particolari esilaranti alle facce. Ultimamente sono stati molto grati a quelli che hanno aggiunto ad una faccia che imperversa un bel naso rosso da pagliaccio. Io sto dalla loro parte, dalla parte della carta stampata con su facce di gente malvissuta che ha la pretesa di fare gli interessi degli altri per potere fare meglio i propri. Allora sento le mie vecchissime pietre di torrente che vorrebbero rivoltarsi come in una piena. Ma poi la rabbia si trasforma in un mormorio sommesso, quasi un canto, che mi dice: ” Sta’ tranquillo, sono passati i Turchi, passeranno anche loro e noi saremo invece qui con te, ad assistere alla giostra infinita degli uomini”.

 

Famiglie

E’ da quando ho l’uso della ragione, ma forse anche da prima, che considero la famiglia come qualcosa di eterno, senza il quale non potremmo esistere, la base stessa non solo del vivere sociale, ma della vita tout court. Sono stato un figlio modello, ho sempre amato e rispettato mia madre, mio padre purtroppo lo ricordo appena. Con i miei fratelli e sorelle ( la nostra era una famiglia numerosa) ci siamo divertiti molto quando eravamo piccoli: ricordo i giochi, le corse sfrenate, anche i dispetti e le liti che all’improvviso sorgevano e che rischiavano di degenerare se non ci fosse stata lì nostra madre, sempre vigile e attenta. Dopo l’esaltazione del gioco, magari della lotta, c’era poi il tepore della casa, il sapore tiepido del latte, la consapevolezza di essere al sicuro in un mondo fatto apposta per noi. Io avevo una specie di passione esclusiva per mia sorella Zoe: la ricordo come un essere dorato, dolce e vitale allo stesso tempo. Se ne andò presto di casa, lasciando il nostro caldo nido per la grande città. Spero che si sia trovata bene e che non abbia dovuto rimpiangere la semplicità della sua origine. Mi viene ora da pensare che stranamente, per quanto fossimo legati tra noi, nessuno ha più cercato di incontrarsi, una volta lasciata la casa materna. Forse eravamo troppo impegnati a costruirci una famiglia nostra, a farci strada in un ambiente inizialmente estraneo. Solo mio fratello Oscar è rimasto al paese con mia madre, ma lui è sempre stato il più cucciolone di tutti e penso che l’idea di separarsi dalla mamma non gli sia mai passata per la testa. Io invece, raggiunta una certa età, non vedevo l’ora di uscire nel vasto mondo e appena si presentò l’occasione buona non me la feci scappare. Ricordo come se fosse oggi il paese che si allontanava ai miei occhi dietro il finestrino dell’auto che mi portava in città. Un po’ rabbrividivo di paura e un po’ di gioia, insomma, non stavo più nella pelle pensando alle novità che mi aspettavano.

Devo dire, a distanza di qualche anno, che mi sono inserito bene: ho una famiglia tutta mia, una bella casa con un bel giardino, dei vicini simpatici con cui sovente ci troviamo. Con loro a volte mi sembra di ritrovare l’ambiente dell’infanzia, l’odore stesso della spensierata fanciullezza. Mentre il barbecue spande nell’aria la sua promessa di cibo, ci divertiamo a ripetere i giochi di un tempo. Se qualche estraneo ci osservasse con poca benevolenza, potrebbe anche criticarci per la nostra spensieratezza. Ma in fondo, che male c’è nel ritrovare le proprie radici nel profumo dell’ erba fresca, nel sapore penetrante della terra dove crolliamo sfiniti dopo una fanciullesca cagnara, nel pregustare il buon cibo che ci attende ed una sana bevuta? A questi momenti di gioia intima e collettiva partecipa naturalmente tutta la famiglia.

Vi ho già detto all’inizio in quale considerazione io tengo la famiglia e da tutto quello che vi ho raccontato penso che vi siate fatta di me l’idea che non sono uno di quei tipi che vanno in giro cercando sempre il meglio per perdere il buono che hanno. Insomma, la mia famiglia è di tipo patriarcale, forse proprio perché io, per mia disgrazia, non ho conosciuto bene mio padre ed ho bisogno di certezze assolute, come solo un padre può dare. Io intendo proprio il padre, il capofamiglia, la fonte stessa della legge e dell’ordine, non un qualsiasi papà o babbo, per quanto caro possa essere.

Ebbene, da qualche tempo c’è qualcosa che mi rode dentro, come un tarlo, una zecca che avvelena la bella costruzione della mia vita. Tutto è iniziato qualche mese fa, da quando sono stato poco bene, una leggera indisposizione, forse causata dall’avere mangiato troppo in uno di quei momenti di ritrovo di cui vi parlavo prima. Mi ero fatto trasportare dall’allegria del momento e mi ero rimpinzato di salsicce di maiale. Lo sapevo che il maiale è per me indigesto, ma anche a voi sarà capitato di uscire dalle regole per il piacere della compagnia. E’ quello che accadde a me. Io non avrei fatto troppe storie, sarei stato in riposo un giorno, aspettando che mi passasse l’indigestione, ma quei noiosi della mia famiglia ( lo dico in fondo con un certo orgoglio), non mi lasciavano in pace, venivano tutti i momenti a controllare come stavo, chiamarono anche il dottore che non fece che dire quanto già io avevo pensato: indigestione e quindi dieta assoluta. C’era bisogno di fare venire un laureato, con spesa conseguente, per sentenziare una diagnosi così complicata! Pazienza per questo, ma il brutto venne dopo. Stetti un po’ di giorni nei miei stracci, come si dice dalle mie parti, e devo dire che ci stavo bene: calma assoluta, possibilità di pensare ai fatti miei come da anni non riuscivo più a fare, nessun senso di colpa perché ero giustificato dall’indisposizione. Insomma un beato ritorno all’infanzia, uno stadio di esistenza prenatale. Le visite dei miei si erano diradate, proprio per permettermi di stare più tranquillo, così almeno pensavo. Da mangiare mi portavano dei brodini con dei pezzetti di pollo che galleggiavano dentro. Non che mi piacessero, ma li mandavo giù insieme all’amore della mia famiglia che mi proteggeva così accuratamente.

Appena mi sentii di nuovo in forze, ripresi la vita normale, ma mi accorsi subito che qualcosa era cambiato, quella famosa, fastidiosissima pulce di cui vi parlavo prima. Pur dimostrando affetto e rispetto per me, notavo che tutti avevano sempre cose importanti da fare. Entravano ed uscivano da casa liberamente, senza nemmeno dirmi dove andavano, senza specificarmi quando sarebbero tornati. Anche le ore dei pasti, che prima erano sacre, si erano fatte abbastanza casuali. Le bambine, che prima erano sempre appiccicate a me quando non erano a scuola, adesso andavano sempre più spesso a giocare dalle amiche. Certo, sapevo dove erano, ero sicuro che se fossi stato male mi avrebbero curato con la medesima abnegazione, ma quel bell’amore gratuito, fatto di gioia al solo vedersi, beh, quello mi pareva un tantino andato, almeno da parte loro. Ed io, che, come già mia madre e mio padre, ho sempre pensato che la passione possa essere eterna! Io non ho mai pensato che i sentimenti possano cambiare, se mai rinsaldarsi, ma non affievolirsi, diventare più tenaci, non sfaldarsi. Ero talmente annichilito da quella frana che stava aprendosi sotto di me che rivelai la mia pena ad uno dei miei vicini, uno un po’ più anziano di me, che mi ispirava fiducia per il carattere posato e riflessivo.

Lui, che già c’era passato, mi suggerì alcune cose semplici ma efficaci che aveva sentite da uno psicologo, conosciuto in vacanza in Sardegna. Si trattava di far fare dei semplici esercizi ai propri familiari; attraverso dei gesti, ripetuti quotidianamente, si sarebbero ristabiliti l’ordine e l’armonia in famiglia. A dirlo è facile, ma in realtà non c’è niente di più tremendo che volere far fare delle cose agli altri sia pure ai propri cari: cominciano a dire che hanno altro da fare, che loro non sono lì per giocare oppure si ricordano di una telefonata urgente o di una pentola sul fuoco se si tratta di donne. La cosa che più vi fa male è vedere che tra voi e loro c’è come una lastra invisibile che non vi permette più di comunicare come una volta. Quelli che rispondono di più ai miei tentativi sono i maschi della famiglia: c’è di buono che ho recuperato una certa solidarietà di genere, che prima non conoscevo. Le femmine hanno imparato meglio a defilarsi, con la scusa di qualche faccenda domestica, mentre i maschi sono più disponibili, più giocherelloni, forse anche perché non possono dire: devo andare a preparare il pranzo. Ad ogni modo adesso sto insistendo con loro: tutti i giorni io butto un cerchio o una pallina e loro devono riportarmela. Certo, come mi diceva Billi, quel mio vicino così ricco di esperienza, occorre avere molta pazienza perché gli umani non hanno la nostra bella prontezza di riflessi e poi si stancano subito, ma mi ha assicurato che, dopo qualche settimana di questi esercizi, lui , che era passato come me in queste angustie, era riuscito a stabilire di nuovo chi era il capo branco.

 

Fondi europei.

 

Tutto è nato da uno stanziamento di fondi europei. Gestisco da anni un bellissimo ristorante in pieno centro storico, in una vecchia canonica che da secoli non serve più a scopi religiosi, ma che, di volta in volta, è stata adibita a magazzino, osteria, deposito, fino ad approdare al mio esercizio di ristorazione. L’avevo chiamato ” I piaceri della carne”, perché mi era sembrato un nome spiritoso e dissacrante data l’origine dell’ambiente, e poi le specialità erano proprio le carni, cucinate in tutti i modi possibili. Il tutto dà su una bella piazza, dove possono stare tavolini e sedie. Io avevo aggiunto da subito una grande veranda, dove si potesse mangiare in inverno o in caso di pioggia. I locali erano spaziosi, con grandi volte a botte. La cucina e la dispensa le avevo collocate in una di quelle grandi sale. I muri, sebbene intonacati, lasciavano vedere le tracce di grandi archi che erano stati murati in chissà quale epoca. Nella dispensa ce n’erano due file sovrapposte di questi archi e mi dispiaceva di non poterli mettere in mostra come avrebbero meritato. Quando avessi guadagnato abbastanza avrei ristrutturato i locali e avrei reso ancora più caratteristico il mio esercizio. Mentre gli affari stavano andando proprio bene e il ristorante era ormai nominato sia per la buona cucina sia per l’ambientazione, cominciarono a venire quelli delle Belle Arti, a fare rilievi, dicevano loro, a prendere misure, a saggiare la consistenza dei muri. Riuscii a farmi dire che erano arrivati dei fondi dalla Comunità Europea e che finalmente c’era la possibilità concreta di restaurare quell’edificio millenario. Da una parte ne fui rallegrato: ho sempre pensato che bisognerebbe valorizzare tutti gli edifici antichi che abbiamo. Ai turisti piace vedere queste antichità e se si ritrovano a mangiare in un ambiente che trasuda secoli di storia, tanto di guadagnato: mangiano più volentieri e magari ritornano. E poi questa è proprio la nostra ricchezza, dell’Italia voglio dire. Rimasi un po’ preoccupato per i lavori, che avrebbero intralciato la mia attività. Mi dissero però di stare tranquillo, che intanto si prospettavano tempi lunghi per l’attuazione, e poi avrebbero fatto in modo di lavorare al restauro nella stagione morta, che per noi è l’autunno, tra i turisti che vengono per il mare d’estate e quelli che vengono per il clima mite all’inverno. Mi rimase addosso un po’ d’inquietudine, anche perché si sa che questi lavori hanno una data precisa d’inizio, ma non una altrettanto sicura di conclusione. Ci avevo messo quasi dieci anni per dare un buon nome al mio ristorante, non avrei certo voluto che tutta quella fatica fosse rovinata da un intervento utile sì e doveroso, ma che in qualche modo potesse danneggiarmi. Mi informai presso la Sovrintendenza, parlai col parroco la cui chiesa era proprietaria dei locali . Tutti mi rassicurarono che avrebbero tenuto conto delle mie esigenze, che non ci sarebbero stati tempi morti nei lavori e che avrebbero sbrigato prima tutte le pratiche burocratiche in modo da non dovere interrompere i lavori una volta iniziati. Mi misi il cuore in pace ed anzi, ero quasi contento per la valorizzazione che ne sarebbe derivata al mio esercizio. Ai clienti, quelli abituali, spiegai che prossimamente ci sarebbe stato qualche disagio, ma che alla fine avrebbero potuto mangiare in un locale molto più interessante. Tutti mi sembrarono molto contenti di questa novità e soprattutto curiosi di vedere cosa sarebbe venuto fuori da quei vecchi muri. I lavori iniziarono e devo dire che una volta tanto le promesse furono mantenute: l’impresa edile aveva degli operai efficienti ed abituati a lavorare in posti trafficati. Voglio dire che io non persi nemmeno una giornata di lavoro perché i muratori badavano a fare le cose un locale alla volta e quindi io mi potevo spostare senza interrompere la mia attività. Man mano, scrostando i vecchi intonaci, appariva una pietra bellissima, chiara, squadrata a regola d’arte, segno che quell’edificio era stato davvero importante tanti secoli fa. Anche i clienti seguivano i lavori, incuriositi dall’antichità e dalla dignità dl luogo.

I miei guai cominciarono quando i muratori dovettero affrontare la cucina e la dispensa. Intanto avevo dovuto chiudere il locale, ma questo sarebbe stato il meno. Vi ricordate quelle file di doppi archi che tanto mi incuriosivano? Ebbene, sotto l’intonaco non c’era la bella pietra di cui vi parlavo, ma, dietro ad una parete esile di mattoni, uscirono decine, centinaia di scheletri. Si trattava di tombe, messe una sull’altra come in una specie di costruzione catacombale. Vennero esperti di tutti i tipi, la notizia si diffuse sui giornali locali. Persone competenti dissero che quei poveri morti probabilmente erano stati accatastati nell’antica canonica in occasione di qualche pestilenza, forse addirittura quella della metà del ‘300. Mi sentii perduto: il mio bel ristorante, “I piaceri della carne”, aveva avuto per anni la cucina e la dispensa in un cimitero! Chi avrebbe potuto mettervi ancora piede per gustarsi una bella grigliata o un bollito misto alla piemontese? L’architetto che dirigeva i lavori, un tipo sveglio che aveva lavorato molto a Milano prima di venire in Riviera, mi disse di non preoccuparmi, che i tempi erano cambiati e che forse da un male poteva venire un bene. Studiò la situazione con il parroco, fece diversi progetti al fine di non offendere la memoria di quelle povere anime e da ultimo concordammo su questo: il ristorante sarebbe rimasto, solo che i locali della dispensa e della cucina sarebbero stati spostati e quelli vecchi sarebbero stati visibili dietro ad una lastra di vetro, naturalmente dopo avere dato degna sepoltura ai resti mortali di quei nostri sfortunati antenati. A me sembrava un azzardo, ma alla fine capii che non avevo alternative, se non andarmene. e ricominciare tutto da capo. Accettai con la morte nel cuore, era proprio il mio caso. Nelle prime settimane di riapertura vennero solo alcuni dei vecchi clienti, per vedere la novità. Però man mano i turisti, che avevano appreso la notizia di quei macabri ritrovamenti anche dai giornali nazionali, cominciarono a venire a frotte per potere mangiare con vista sull’antico cimitero. Non riesco sempre ad accontentare tutti, perché i tavoli più ambiti sono limitati. Però faccio sempre fare un giro panoramico a tutti e devo rifiutare molte prenotazioni nei fine settimana perché non c’è posto per tutti. Ho rivalutato la categoria degli architetti e faccio dire una volta al mese una Messa per quei morti sconosciuti ma propizi. Alcuni clienti sono delusi dal fatto che non sono in bella vista anche gli scheletri, ma io preferisco così: mi sembrerebbe una cosa proprio di cattivo gusto.

Furore canino.

Mi chiamo Robby e non ne posso più di essere un cane. Mia mamma, povera cagnolina, mi aveva avvertito quando ero ancora un cucciolo pieno di illusioni e di speranze : “ Non affezionarti troppo agli umani, perché mirano solo al proprio interesse. Quando non gli servi più, ti danno una pedata e via. Soprattutto quando invecchierai, dovrai fare attenzione, perché a loro piace solo chi è giovane, bello e sano. Non fidarti mai del tutto, conserva sempre una parte di te solo per te stesso, così non ci resterai troppo male”. Non è che non volessi dare ascolto a mia madre. E’ che quando si è giovani ci sembra di essere eterni e di non avere bisogno del consiglio di nessuno. Io sono nato in un bellissimo allevamento, tra i migliori in Italia. Sono un boxer, sia mio padre che mia madre erano di razza purissima. Come potete vedere sono entrato nella vita da una posizione privilegiata e aspiravo al meglio. Fino all’adolescenza ho giocato con i miei fratelli, con mia mamma, con tutti quelli che incontravo. Ero molto curioso e si può dire che dell’allevamento conoscevo tutti. Andavo a giocare ogni giorno con i cuccioli delle altre famiglie ed ero benvoluto da tutti, sia dagli umani che dai miei simili. Quando smisi di succhiare il latte dolcissimo di mia madre, mi dettero delle pappe buonissime, mi pare le chiamassero omogeneizzati. Ancora adesso ne ricordo il sapore. Poi passai alla carne e al riso ed anche quello mi piacque. Ero ormai diventato un bel cane e alla compagnia dei miei famigliari preferivo quella dei miei coetanei.

Che periodo spensierato e pieno di mistero. Ricordo che provavo un brivido ogni volta che avvicinavo una cagnolina, ma ancora non riuscivo a spiegarmelo. Un giorno vennero dei tizi al mio allevamento. Sapevo che tutti noi saremmo andati via, in qualche casa, e che la vita precedente sarebbe stata solo un ricordo, ma la curiosità per il futuro che mi attendeva me la facevano vedere come una bella prospettiva. Quelli che sarebbero stati la mia futura famiglia erano in tre: padre, madre e figlia. Gli piacqui subito ed io ne fui un po’ orgoglioso. Credo di essere costato caro, perché quando l’allevatore sparò il mio prezzo sentii che contrattavano. Io ero abbastanza indifferente alla cosa, perché pensavo che se erano disposti a sborsare tanto, dovevano tenere molto a me. L’affare si concluse ed io mi trovai su una bella macchina. L’auto era di lusso, ma a me era riservata la parte di dietro, separata con una grata dal posto degli umani. Già questo particolare non mi fece piacere. Mi sentii isolato, tenuto a distanza. Mi consolai pensando che quella grata fosse un modo per preservare me da eventuali urti. A sentire come guidava il padrone fui contento di non essere sui sedili anteriori. Io ero già stato in auto all’interno dell’allevamento, per tragitti brevi e mi ero anche molto divertito. Ma quella era un’altra cosa. Sentii che la donna e l’uomo parlavano di come sistemarmi una volta arrivati a casa. La donna e la bambina avrebbero voluto che stessi all’interno, ma l’uomo era inflessibile.” Non se ne parla nemmeno di tenerlo in casa- e la cosa mi diede molto fastidio- perché gli animali sporcano e portano delle malattie”. Io mi sentivo pulitissimo e sano come un pesce, ma a quel punto mi sarebbe piaciuto rotolarmi nel fango e poi passare sui pavimenti lucidi di quella stupida casa. Arrivati a quella che sarebbe stata la mia dimora, vidi una villetta pretenziosa, a due piani, con un cortile minuscolo davanti, il tutto racchiuso da un cancello sproporzionato alla dimensione della casa. Da un lato del cortiletto c’era una cuccia, che sarebbe stato il mio ricovero per la notte, oppure quando avesse piovuto o fatto troppo caldo. Rimasi molto avvilito, anche quando mi misero un collare di metallo che sembrava oro. Tutto aveva un’aria falsa, inutile, scomoda. Mi portarono del cibo per cani in una ciotola e in un ‘altra misero dell’acqua. Finalmente capii che da lì non mi sarei più mosso. Mi avevano preso perché facessi la guardia alla loro stupida roba. La bambina, quando passa, mi dà qualche carezzino: si vede che vorrebbe giocare con me, ma teme i rimproveri dei genitori. Qualche volta mi porta anche un pezzo di torta o una tavoletta di cioccolato ed io scodinzolo un po’. Insomma, sono incastrato in questo posto monotono, dove l’unica variante è spostarmi leggermente man mano che si sposta il sole.

In una villetta vicino abita un cane che la pensa come me. Anche se non possiamo incontrarci, comunichiamo con la voce e siamo d’accordo su un sacco di cose. Si chiama Tom ed è sempre allegro, anche se la sua vita non è migliore della mia. E’ un meticcio e quando fu preso dal canile gli pareva di avere avuto una grande fortuna. Ben presto si accorse in quale trappola era finito: ristretto anche lui in un cortiletto, senza far nulla tutto il giorno a farsi mangiare dalle mosche e ad aspettare eventuali ladri. Io e lui saremmo tanto contenti se arrivassero dei ladri : di certo non abbaieremmo e ce la fileremmo dai cancelli aperti. Io e lui abbiamo deciso che il primo di noi che riesce a scappare aiuta l’altro. In giro c’è pieno di ladri che svaligiano le villette e noi li aspettiamo con ansia. Ce ne andremo noi due in cerca di cibo e di avventure nel mondo vasto e terribile ma non noioso.

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2 risposte a Oggi l’unica cosa che volevo leggere e condividere con voi, erano questi antichi racconti della nostra DONATELLA !

  1. roberto rododendro scrive:

    accidenti! ne ho letti due e devo tener da parte questa pagina. Bellissimi racconti diversi dagli abituali e soprattutto con un scrittura piana, scorrevole che , si potrebbe di dire, mentre ti fa sorridere ti rasserena il cuore. Brava più di quel che pensassi. Devo ritornare!

  2. DONATELLA scrive:

    Caro, carissimo Roberto, ti ringrazio per quello che dici. E’ tanto tempo che non scrivo più, non so nemmeno io il perché. Però il tuo apprezzamento mi spinge a lavorare. Grazie di cuore!

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