Ritorni. Diventare indigeni nel XXI secolo
Meltemi, 2023
Un tempo si riteneva che le società native, o tribali, fossero destinate a scomparire a causa di inarrestabili forze economiche e politiche che prima o poi avrebbero completato il lavoro di distruzione avviato dai contatti interculturali e dal colonialismo. La realtà odierna dimostra invece che molti gruppi aborigeni continuano a resistere, rendendo così più complesse le classiche narrazioni della modernizzazione e del progresso. Prendendo in esame i popoli nativi di California, Alaska e Oceania, James Clifford prova come questi siano parte attiva di un processo di trasformazione ancora in atto che implicherebbe una lotta ambivalente dentro e contro forme dominanti d’identità culturale e di potere politico. Spesso contro ogni previsione, i popoli indigeni stanno infatti costruendo con creatività e pragmatismo percorsi identitari originali all’interno di una modernità intricata e indefinita.
Prefazione di Adriano Favole ( Cuneo, 1969 ), docente di Storia dell’antropologia e etnologia dell’Oceania a Torino.
segue : https://www.treccani.it/enciclopedia/adriano-favole/
REPUBBLICA.IT — 4 GENNAIO 2024
Lo storico James Clifford: “Il progresso è nelle voci degli altri”
di Antonio Politano, giornalista e fotografo
I popoli nativi e l’unicità della loro cultura. “Che va ascoltata più che mai”
Dalla finestra del suo studio mostra il panorama aperto sull’oceano. Un gruppo di eucalipti svetta tra la nebbia, «un regalo che ci fa ogni mattina il Pacifico, poi nel pomeriggio il cielo diventa chiaro» racconta James Clifford, professore emerito presso il Dipartimento di Storia della Coscienza dell’Università della California, in collegamento da Santa Cruz dove vive da molti anni.
«Sono alberi arrivati dall’Australia attraverso l’oceano, si sono radicati bene qui», spiega. «Ogni volta che li guardo, penso al luogo da cui vengono»: il Pacifico, «il più grande degli oceani, non semplicemente uno spazio vuoto con dei puntini, le isole, ma un mondo complesso dal punto di vista storico, culturale, linguistico», diventato la sua area di analisi favorita. Un crocevia di contatti e mescolanze, come sembrano dirci quegli eucalipti.
James Clifford, storico e antropologo
È arduo classificare Clifford perché, sulle tracce delle relazioni che insegue, si muove tra discipline diverse. Soprattutto storia («sono uno storico di formazione») e antropologia, di cui è considerato uno dei maggiori specialisti («ma non sono un antropologo, non ho mai fatto un vero lavoro di ricerca sul campo»).
Si ritiene più «una sorta di viaggiatore accademico e giornalistico», in ascolto e osservazione delle “pratiche locali” della storia, spinto da un profondo interesse verso le culture altre, la rappresentazione antropologica, la scrittura di viaggio. Gli piace pensare all’etnografianon tanto come un metodo, quanto una sensibilità, «un modo per non imporre un’interpretazione a priori, per essere in sintonia con la complessità, l’alterità».
Nella sua ultima opera, Ritorni. Diventare indigeni nel XXI secolo (Meltemi, pagg. 378, euro 25), sostiene che «la terra ha tremato», perché l’Occidente non è più il centro di tutto. Il mondo si è globalizzato, ma non è uniforme; ha più voci, è policentrico.
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In “Ritorni” lei introduce il concetto di indigénitude, indigeneità. Benché si pensasse fossero destinati all’oblio, i popoli indigeni sono riusciti a sopravvivere e ad emergere dalla zona d’ombra della storia, cambiando in modi strategici, creando nuovi percorsi identitari, ibridi.
«Il mio concetto di indigénitude si ispira alla négritude, movimento culturale di scrittori africani e caraibici degli anni ’40 e ’50, per la combinazione complessa e radicale di vecchio e nuovo, di tradizioni profonde in un’alleanza globale, che ho riconosciuto nell’emergente politica culturale indigena degli anni ’80 e ’90.
I popoli tribali, nativi e aborigeni esistevano da tempo, lottando contro terribili avversità (invasioni, malattie genocide, regimi coloniali repressivi), sopravvivendo con inventiva. Le popolazioni indigene sono sempre più attive su scala nazionale e transnazionale, reclamando le terre ancestrali nelle aule dei tribunali, rimpatriando le collezioni dei musei, bloccando gli oleodotti, esercitando pressioni sulle Nazioni Unite, producendo letterature moderne e distintive. In Ritorni ho fatto i conti con questi sviluppi che si sono prodotti all’interno di e contro il capitalismo neoliberale in contesti coloniali».
Lei racconta la storia di Ishi ( = uomo in Yana ), l’ultimo nativo “scoperto” nel 1911 in un villaggio della California e poi esposto in un museo fino alla sua morte.
«Nei decenni successivi alla corsa all’oro del 1849, gli indiani della California, ostacoli al “progresso”, furono espropriati e uccisi senza pietà.
Alfred Kroeber, l’antropologo che più lo seguì insieme a Ishi, l’ultimo esponente della popolazione Yahi (1911).
http://content.cdlib.org/ark:/13030/kt5b69n7tp/
da : https://it.wikipedia.org/wiki/Ursula_K._Le_Guin#/media/File:Ishi.jpg
Una piccola tribù, gli Yahi, sfuggì al genocidio nascondendosi in una valle remota per quarant’anni. Nel 1911, un unico sopravvissuto fu “salvato” (gli indiani potrebbero dire “catturato”) dagli antropologi della nuova Università della California di Berkeley San Francisco. Visse nel Museo di Antropologia fino alla sua morte per tubercolosi cinque anni dopo. Ishi era famoso ai suoi tempi: l’ultimo indiano “selvaggio”. Le folle venivano al museo la domenica a vederlo costruire allegramente punte di freccia e a dare dimostrazioni di tiro con l’arco. Dal 1911, il pensiero antropologico si è evoluto dalla ricerca dell’autenticità (Ishi l’indiano “puro”) al riconoscimento di un individuo complesso in bilico tra culture. Era un informatore disponibile, pur mantenendo il segreto su alcune cose. La comprensione del significato di Ishi da parte dei nativi è variata nel corso degli anni. Per molti anni è stato considerato un “indiano dell’uomo bianco”, che collaborava con i suoi rapitori. È stato descritto come una vittima della colonizzazione, incarcerato e sfruttato nel museo. Ma più recentemente è stato ritratto come un esempio ispiratore di sopravvivenza inventiva e resiliente.Esplorò San Francisco, fece amicizia e usufruì di una notevole libertà nel suo nuovo mondo. Per i molti indigeni che vivono nelle città, la sua storia può sembrare profetica».
Lei invita a guardare alla storia come a un intreccio fatto di frammenti che si ricompongono continuamente, senza seguire una direzione lineare. La visione del progresso che ha a lungo caratterizzato la modernità euro-americana è andata in crisi.
«Viviamo in tempi confusi: sviluppi inaspettati, alcuni benvenuti, altri terrificanti. Ovunque, le persone fanno i conti con un cambiamento disorientante, con una sicurezza perduta. Sono attratte dalle promesse di un ritorno a tempi più semplici, dal ripristino di un’identità sicura. Ma i confini delle comunità e delle nazioni non possono essere garantiti in un mondo di connessione incontrollata. La tecnologia continua la sua opera dirompente e creativa. Solo ieri, alla fine del XX secolo, la globalizzazione capitalista e la politica democratica di stampo occidentale sembravano tracciare il futuro, con il libero scambio neoliberista a farla da padrone. Ma è evidente che questo ordine, e la cooperazione internazionale che presupponeva, non è mai stato garantito. L’economia globale, multipolare e instabile, accoglie nuove forme di nazionalismo e sciovinismo. Le guerre mondiali che ci eravamo lasciati alle spalle per mezzo secolo sono di nuovo possibilità concrete. A un livello planetario più profondo, il cambiamento climatico e la crisi ambientale contraddicono le narrazioni progressiste basate sulla crescita cumulativa: ora prevediamo un futuro di limiti alle risorse, estinzioni diffuse e migrazioni caotiche».
I sistemi di pensiero e gli stili di vita indigeni, le soluzioni e i modi in cui recuperano e rinnovano le loro radici possono essere uno strumento utile per i cambiamenti che stiamo affrontando oggi?
«Molti popoli indigeni hanno considerato gli animali e persino i fiumi e le montagne come “persone” con le quali è necessario sostenere relazioni di reciprocità. Oggi abbiamo tutti bisogno di pensare in modo relazionale agli attori storici non umani e, di fatto, all’intero pianeta come essere vivente. I modi pragmatici con cui i popoli nativi hanno mantenuto, rinnovato e reinventato le loro radici culturali offrono esempi per rimanere aggrappati a ciò che conta in tempi devastanti. “Tribalismo” o “politica dell’identità” sono termini comuni sbrigativi per indicare l’assolutismo etnico e il nazionalismo difensivo che guardano al proprio interno. Ma la sopravvivenza indigena non è mai stata essenzialmente rivolta al passato o difensiva. I rinnovamenti di oggi consistono nel trovare modi pragmatici per rimanere al tempo stesso radicati e aperti, legati al territorio e attivi in contesti globali».
Lei ha scritto, da una parte, che dal 1950 globalizzazione e decolonizzazione sono i principali fattori di quel che definisce il decentramento in corso e irreversibile dell’Occidente. Dall’altra, ha evocato «minacce ecologiche a lungo termine che non possono più essere gestite». Verso che tipo di futuro ci stiamo dirigendo?
«Nessuna singola narrazione dello sviluppo può fornire una risposta. I decentramenti che nel vecchio Occidente abbiamo sperimentato significano che dobbiamo prestare attenzione alle storie, alle voci degli altri: le persone che sono state a lungo messe a tacere o tenute nell’ombra e gli agenti attivi, non umani, di una storia che stiamo vivendo separatamente e insieme».
Come riconnettere popoli, natura e universo in qualcosa di armonioso, che sopravvive malgrado la distruttività umana.