LUCIANO CANFORA E ANTONIO SCURATI — DUE TESTI SUL FASCISMO DA LEGGERE — RIPUBBLICATI DA LIBERTA’ E GIUSTIZIA NEL 2019 GIA’ PUBBLICATI DA REPUBBLICA-

 

 

 

Il fascismo non è mai morto

Dedalo, 2023
pp- 130

 

 

 

 

Libertà e Giustizia

6 aprile 2019

https://www.libertaegiustizia.it/2019/04/06/luciano-canfora-in-italia-il-fascismo-non-muore-mai/

 

 

 DI SIMONETTA FIORI

 

 

LUCIANO CANFORA, IN ITALIA IL FASCISMO NON MUORE MAI

 

Luciano Canfora, In Italia il fascismo non muore mai

 

L’indebolimento del Parlamento. La ricerca spasmodica del rapporto con le masse.

L’intesa di Salvini con i movimenti di estrema destra (…). Sono tanti, secondo Eugenio Scalfari, gli elementi di contiguità politica e culturale tra il fascismo storico e il nazionalismo illiberale di Salvini.

 


È d’accordo, professor Luciano Canfora?

«Sì, lo penso da tempo. Al tema ho dedicato anche il saggio La scopa di don Abbondio. Vorrei però fare una premessa».
Prego.

«La discussione sul fascismo mai morto non è cominciata avantieri, ma dura da quando Mussolini è stato appeso a Piazzale Loreto.

Nel suo Golia, tradotto in Italia nel 1946, Giuseppe Antonio Borgese volle dare un messaggio chiaro: il fascismo è caduto, ma dipenderà da noi la sua definitiva scomparsa.
Devo ricordare l’intervento parlamentare di Concetto Marchesi nel 1949: il fascismo non è morto, ma ha varcato l’Atlantico? E ci siamo dimenticati del conflitto violentissimo suscitato nel 1960 dall’allora premier Tambroni con la sua apertura al Movimento Sociale?».


Sta dicendo che del fascismo non ci siamo mai liberati?

«Non solo questo. Vorrei aggiungere che esistono varie forme e incarnazioni del fascismoda Francisco Franco a Juan Perón, dai colonnelli greci agli ustascia croati – ma l’elemento comune ai diversi movimenti e alle diverse personalità è il sentimento razzistico del rifiuto del diverso. Un principio efficacemente espresso da Mussolini a Bologna nel 1921, prima della Marcia su Roma: dobbiamo difendere la stirpe ariana e mediterranea. È questo il fondamento del fascismo, il tratto essenziale del suo Dna».


E lei lo ritrova oggi in Salvini?

«Mi pare evidente. Naturalmente tutto questo si traduce nella ricerca del consenso popolare attraverso forme demagogiche e attraverso quelli che potremmo definire “conati di stato sociale”: Mussolini ne fece larghissimo uso. E il largo consenso ottenuto si cementa in tutti i fascismi nella bandiera del “noi contro di loro”».

Umberto Eco in una celebre conferenza tenuta alla Columbia University parlò di “fascismo eterno”, sintetizzato in alcuni punti fondamentali: l’esaltazione del sangue e della terra, il disprezzo per la cultura, la paura del diverso, l’antiparlamentarismo, l’irrazionale. Per certi versi è impressionante l’analogia con l’ attualità.
«Eco non era un estremista, né un esagitato: quella lezione è diventata un libro che andrebbe distribuito nelle scuole. La paura del diverso viene alimentata da Salvini con un argomento che sul popolo impoverito ha grande presa: il migrante ti porta via il lavoro. Se sei disoccupato, la colpa è di quelli là.
Ecco, ci siamo: è questo il fascismo nascente. Oggi non c’è più bisogno di fez, di manganelli e di olio di ricino per instaurare forme fascistiche».

Molti storici obiettano che suonare l allarme fascista oggi è sbagliato.

«Bertolt Brecht diceva che un fascista americano sarebbe un democratico nelle forme ma resterebbe sempre un fascista. E Thomas Mann a Hollywood non esitava a paragonare il maccartismo al fascismo. Mi sento dunque in ottima compagnia. Chiarito che ne esistono mille varianti nella storia, l’uso del concetto di fascismo è ancora valido».


Perché questo filo nero non è stato mai spezzato? Forse perché non abbiamo mai fatto i conti fino in fondo con il regime di Mussolini?

«Lei usa una espressione generica: fare i conti. Peraltro sul piano storiografico oggi non si fa che studiare il ventennio fascista».

Oggi sì, ma per quasi quarant’anni il fascismo non è stato studiato. Il primo fu Renzo De Felice negli anni Ottanta.

«E allora Gramsci? Non è stato il più fine analista del fascismo?».

Ma Gramsci ne fu vittima. Morì nel 1937. Non può essere rappresentativo della coscienza italiana che nel dopoguerra elabora l’esperienza totalitaria.

«Nella nostra vicenda nazionale il fascismo si è presentato nelle forme più diverse, dai movimenti eversivi protetti dai servizi deviati ai seguaci del partito di Almirante. Ci siamo forse dimenticati delle trame nere?
E quando è finita l’esperienza del socialismo reale, con il crollo dell’ Urss, si è sollevata l’ onda revisionistica: vedete che il fascismo qualcosa di buono l’ha fatto? Aveva combattuto il male assoluto, il comunismo, bisognava esaltarlo. Non era stato Berlusconi a celebrare il duce?».

Se per questo di recente anche Tajani ci ha messo del suo. Ma non mi ha ancora detto perché questa traccia nera permane nella storia italiana.

«La Democrazia Cristiana era un partito complesso: le sue classi dirigenti erano antifasciste, ma la base includeva gran parte del Paese che era stato fascista.

Tutta la condotta della Dc è stato un navigare a vista. E a livello popolare incolto ha retto per decenni il luogo comune secondo il quale Mussolini era stato artefice di tante cose buone, peccato che avesse fatto la guerra. Mai che nessuno abbia detto: peccato per le leggi razziali. E oggi purtroppo vediamo traccia diffusa di questa rimozione».

La rimozione ha riguardato anche la nostra storia coloniale. Solo negli anni Novanta gli studiosi hanno cominciato a far luce sulla nostra condotta razzista in Africa.

«Il dramma di coloro che tornarono dalla colonia perduta finì per nutrire una sorta di revanscismo nostalgico. Ci siamo chiesti perché il Movimento Sociale diventò un partito popolare? E perché ebbe così grande successo l’Uomo Qualunque di Giannini? Nella nostra storia permangono ombre mai messe in chiaro. L’ importante è esserne consapevoli».

la Repubblica, 23 marzo 2019

 

 

ALTRA LETTURA SEMPRE DALLO STESSO SITO, LIBERTA’ E GIUSTIZIA,  5 APRILE 2019

https://www.libertaegiustizia.it/2019/04/05/il-fascismo-dentro-di-noi/

 

Il 23 marzo 1919 Mussolini fondava i Fasci di combattimento, primo passo nella scalata violenta verso il potere. L’autore di “M” spiega perché oggi è venuto il tempo di svelare il grande rimosso che accompagna la storia italiana. 

Noi siamo stati fascisti. Gli italiani sono stati fascisti. Il genus italico ha generato il fascismo. Di più: il fascismo è stato una delle potenti invenzioni (o innovazioni, se preferite) italiane del Ventesimo secolo, che dall’Italia si è propagata in Europa e nel mondo.

Non suonino come provocazione queste parole. So bene che non tutti gli italiani sono stati fascisti e che molti – non moltissimi, purtroppo – sono stati antifascisti anche durante il ventennio. La mia affermazione è perentoria perché, in anni di studio e scrittura sull’ argomento, mi sono convinto che sia giunto il tempo di un allargamento della coscienza civile, di una nuova, più ampia, più consapevole, più veritiera narrazione dell’identità nazionale.

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Ho sentito con forza che bisognava cercare una narrazione priva di pregiudiziali ideologiche, al di sopra della partigianeria della lotta politica perché questa storia priva di velami ideologici, nota eppure inaudita, porta a una condanna del fascismo ancora più radicale.

L’identità nazionale italiana repubblicana si è fondata su una narrazione edificante, su un meccanismo d’identificazione positiva, su una memoria della gloriosa Resistenza antifascista (della realtà e del suo mito).

Per cinquant’anni ci siamo raccontati di discendere dai partigiani della montagna. È stato giusto che così fosse, è stato necessario. Non a caso, la festa di questa identificazione positiva è sempre stato – e dovrà continuare a essere – il 25 aprile, giorno della Liberazione.

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Questa narrazione ha, però, comportato una rimozione: la nostra discendenza dal fascismo è stata parzialmente obliata, il lato oscuro della forza è stato proiettato ai margini della nostra coscienza storica.

Per questo motivo la data fatidica del 23 marzo, cioè oggi, è stata cancellata dalla memoria collettiva. La rimozione si è spinta fino a inghiottire la toponomastica, fino all’abrasione dei marmi che segnalano i nomi delle strade d’Italia. In piazza San Sepolcro a Milano, tabelloni didattici ricordano che fu foro romano e luogo di culto cristiano ma non un solo segno indica che in quella piazza elegante e sonnacchiosa nacque il fascismo.

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Ebbene, cento anni dopo è giunto il tempo di togliere l’interdizione alla narrazione del fascismo, di completare la coscienza nazionale con la consapevolezza di essere stati fascisti. Dobbiamo ricordare che esattamente cento anni fa in Piazza San Sepolcro a Milano, di fronte a una platea di pochi, deliranti partecipanti, un politico sbandato alla ricerca di una strada fondò i Fasci di combattimento. Dobbiamo conoscere la storia di quella piccola accozzaglia di reduci, facinorosi, delinquenti, sindacalisti incendiari e gazzettieri disperati, professionisti della violenza e artisti, i quali – guidati da un leader pronto a ogni tradimento, a ogni nefandezza, pronto a scommettere sul peggio e a vincere la scommessa, pur partendo da un numero infimo e da una devastante sconfitta elettorale – nell’arco di soli tre anni conquistarono il potere.

Gli italiani devono sapere che – contrariamente alla leggenda nostalgica secondo cui il fascismo sarebbe precipitato nell’abiezione soltanto alla fine della sua traiettoria, con le leggi razziali e la guerra – quegli uomini fecero sistematicamente uso di una violenza brutale come strumento di lotta politica fin dal principio, che quella del fascismo è storia di sopraffazione, ma devono anche sapere che quei violenti poterono prevalere grazie all’ignavia di molti, al bieco calcolo opportunistico dei liberali e di una monarchia indegna, alla voracità di una classe politica sfinita, alla visionaria inconsistenza dei dirigenti socialisti.

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Infine, ma soprattutto, dobbiamo conoscere, e saper riconoscere quando si ripresenti, l’innovazione dirompente nel linguaggio della politica che il fascismo rappresentò, la seduzione potente che esercitò sul rancore diffuso nella piccola borghesia che, a torto o a ragione, si sentiva delusa dalle promesse della storia, tradita dalla casta politica, declassata dalle conseguenze di una crisi epocale, minacciata nelle sue poche certezze e nei suoi piccoli possedimenti da un “invasore” straniero (i socialisti dipinti dalla propaganda fascista come portatori della “peste asiatica” perché seguaci della rivoluzione russa). Sto proponendo una riabilitazione, una revisione, una memoria condivisa?

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Al contrario. Sto affermando che, se nel dopoguerra fu necessaria la narrazione edificante e ideologica della Resistenza, oggi lo è poter raccontare Mussolini e il fascismo senza pregiudiziale ideologica, senza remore e senza sconti (per nessuno). Questa maturità intellettuale deve oggi essere raggiunta, non solo da pochi storici di professione, ma da tutti noi. Dobbiamo maturare fino al punto di poter riconoscere che i fascisti delle origini furono affascinanti e sciagurati, che Benito Mussolini creò l’archetipo del leader che guida un popolo non precedendolo verso mete elevate, ma seguendone gli umori più cupi, capace di prosperare su passioni tristi, sul caos, sullo smarrimento, capace di fare leva su ottime ragioni ma convertendole sistematicamente in torti. Dobbiamo fare questo salto di coscienza civile per rinnovare le ragioni dell’antifascismo, che sono, semplicemente, quelle della democrazia, del progresso, dell’uguaglianza, della convivenza civile.

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Oggi, cento anni dopo, possiamo riappropriarci della storia del fascismo come segno del fatto che non le apparteniamo più. Non nel timore che si ripeta, perché non si ripeterà. È vano – talvolta anche un po’ ridicolo – inalberare quotidianamente la bandiera dell’antifascismo militante. Molto più utile, e serio, tenere ben alta la bandiera di una matura democrazia, addestrandosi a riconoscere le continue metamorfosi storiche della pulsione antidemocratica.

(*) Lo scrittore Antonio Scurati con il suo ultimo romanzo “M. Il figlio del secolo” (Bompiani) è candidato al Premio Strega di quest’anno. 

 

la Repubblica, 23 marzo 2019

 

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1 risposta a LUCIANO CANFORA E ANTONIO SCURATI — DUE TESTI SUL FASCISMO DA LEGGERE — RIPUBBLICATI DA LIBERTA’ E GIUSTIZIA NEL 2019 GIA’ PUBBLICATI DA REPUBBLICA-

  1. DONATELLA scrive:

    Penso che per chi si chiedeva come era potuto nascere e prosperare il fascismo, oggi in Italia ci sia purtroppo la possibilità reale di capirlo dal vivo. Su tutti i vari aspetti di questo fenomeno mi pare che prevalga l’idea, da parte dei potenti di turno, “che io sono io e tu non sei un c….”.Non si tratta affatto di un’idea originale, ma purtroppo è potente e atta ad annichilire.

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