PAOLA CARIDI, DENTRO ḤAMĀS COMANDANO I MILITARI –LIMESONLINE – 8 NOVEMBRE 2023 — DA :  GUERRA GRANDE IN TERRASANTA – n°10 – 2023 — pp. 35-40

 

LIMESONLINE – 8 NOVEMBRE 2023
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DENTRO ḤAMĀS COMANDANO I MILITARI

 

 

 

Nel corso degli anni, le Brigate al-Qassām hanno progressivamente acquisito importanza e autonomia dai loro leader politici. Muḥammad Ḍayf, il capo senza volto. Le ragioni dietro l’attacco del 7 ottobre. Il sequestro di Shalit e il golpe del 2007. Manca una strategia.

 

di Paola Caridi

 

Pubblicato in: GUERRA GRANDE IN TERRASANTA – n°10 – 2023

 

1. Il 7 ottobre 2023, immediatamente dopo l’attacco a Israele eseguito dalle Brigate ‘Izz al-Dīn al-Qassām, Muammad ayfcapo dell’ala militare di Ḥamās – si è presentato in diretta televisiva, rilasciando le prime dichiarazioni ufficiali sull’avvenuto. Il comunicato, esattamente come l’attacco, era stato accuratamente preparato. Il contenuto e l’ambientazione del messaggio non lasciavano nulla al caso. In una stanza oscurata appariva la sagoma di un uomo di profilo, la cui voce era sovrapposta e montata ad arte. La misteriosa figura, infatti, sembrava non parlare. Ma perché è utile soffermarsi su un particolare che potrebbe apparire a prima vista banale?


Per due ragioni fondamentali. Innanzitutto, tale ambientazione ha permesso di rendere immediatamente riconoscibile chi stava leggendo il messaggio. Nel corso degli anni, Muammad ayf – di cui circola solo una vecchia foto – è infatti sempre stato ritratto come una sagoma scura, nera. Il 13 maggio 2021 a Gerusalemme furono addirittura issati enormi striscioni che ritraevano i leader di Ḥamās vicino alla Cupola della Roccia. Anche in quell’occasione era perfettamente riconoscibile una figura scura che pregava: era la sagoma di Muammad ayf, capo delle Brigate al-Qassām.


La seconda ragione per cui è importante soffermarsi sul video mandato in onda da Ḥamās è che ci permette di comprendere quanto l’ala militare del movimento al-Mağd sia diventata rilevante negli equilibri interni dell’organizzazione. Mostrare chiaramente la sagoma scura di Ḍayf significa infatti che esso si assume la piena responsabilità dell’attacco del 7 ottobre.


Tale lettura è confermata da quanto dichiarato al New Yorker da Abū Marzūq, capo dell’Ufficio politico di Ḥamās fino agli anni Novanta. Costui, dopo essere stato arrestato e liberato dalle autorità americane, non è più tornato alla guida del movimento. Ha preferito vivere da ideologo e da uomo delle trattativeDa Doha, Abū Marzūq fa sapere ai giornalisti del New Yorker che «tutti i leader di amās che non sono capi militari hanno ricevuto la notizia dell’attacco solo sabato mattina».


Questa ricostruzione, come notano i giornalisti del periodico americano, è plausibile. La compartimentazione è prassi nel modus operandi di Ḥamās. E di certo non è la prima volta che l’ala militare interviene in maniera eclatante senza informare i quadri politici. Di norma, le due ali del movimento si parlano solo quando c’è da aggiornarsi circa le decisioni prese dall’ala politica. A questo punto, l’ala militare le interpreta e decide come preparare gli attacchi. Tale organizzazione è fondamentale per evitare che le informazioni arrivino ai servizi di intelligence israeliani ed egiziani. La divisione in compartimenti stagni è, per Ḥamās, una questione securitaria essenziale.


Questa, però, è solo una faccia della medaglia. In realtà, negli ultimi vent’anni le Brigate al-Qassām hanno più volte forzato la mano, soprattutto nelle fasi critiche. Il punto è che nell’ultimo periodo l’ala militare si è comportata come se fosse a tutti gli effetti una delle circoscrizioni che compongono la struttura politica di Ḥamās, movimento suddiviso da sempre in quattro circoscrizioni (Gaza, Cisgiordania, i militanti fuori dal territorio palestinese e quelli imprigionati). A Gaza si sta dunque consolidando una sorta di «circoscrizione ombra» – l’ala militare – che fa sentire la sua presenza in maniera crescente.


2. Sebbene la leadership politica non abbia smentito le Brigate al-Qassām e anzi si sia assunta l’intera responsabilità dell’operazione, è probabile che dietro agli attacchi del 7 ottobre ci sia proprio l’ennesima fuga in avanti dell’ala militare. Ma perché questa volta l’attacco ha assunto tali dimensioni? Per tentare una risposta, proviamo a mettere in fila alcune ipotesi.


Innanzitutto, è fondamentale ricordare che per 16 anni Gaza è stata completamente sigillata da Israele. Lo Stato ebraico ha totalmente nascosto la Striscia dagli occhi del mondo. Riuscire a rompere l’assedio costituiva dunque un cambio di paradigma. Significava attaccare l’idea secondo la quale i problemi tra israeliani e palestinesi potessero essere risolti senza tenere in considerazione gli abitanti della Striscia.

 

 

Carta di Laura Canali – 2023

 

La seconda ipotesi è strettamente legata ai problemi che la prima solleva. Nel periodo precedente all’attacco di Ḥamās erano infatti in corso colloqui tra Israele e Arabia Saudita per la normalizzazione delle relazioni bilaterali. Un cambiamento necessario per rimettere in pista gli accordi di Abramo e, ancora una volta, per decidere il destino dei palestinesi senza invitarli al tavolo. Inoltre, un accordo israe­lo-saudita avrebbe messo in discussione la normalizzazione tra Riyad e Teheran, faticosamente raggiunta grazie alla mediazione della Cina.

Infine, e non meno rilevante, l’ingresso di Riyad nella questione israelo-palestinese avrebbe impattato anche sulla gestione di Gerusalemme. Netanyahu preferiva infatti che a occuparsi del terzo luogo sacro dell’islam fosse l’Arabia Saudita e non più la Giordania. L’attacco del 7 ottobre ha fermato tutti questi processi. La normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita si è bloccata. E non è detto che riprenderà. L’idea di una nuova Nakba non spaventa solo i palestinesi, ma tutti i paesi arabi.

 


Terza ipotesi: Gerusalemme. Per quanto fisicamente lontana da Gaza, per i palestinesi la città è una linea rossa insuperabile, come testimoniato dalle proteste del 2021. In quell’occasione, Ḥamās lanciò un ultimatum al governo Netanyahu (appena sconfitto alle elezioni), affermando di essere pronta a difendere la Città Santa. L’organizzazione lanciò razzi verso le città israeliane e lo Stato ebraico rispose dando inizio a un’operazione militare nella Striscia.

 


Sebbene i media occidentali abbiano fatto finta di niente, anche nel 2023 si sono registrate tensioni a Gerusalemme. La presenza dei coloni sulla Spianata delle Moschee è aumentata esponenzialmente, anche grazie alla protezione delle Forze di sicurezza israeliane e all’appoggio politico degli alleati di estrema destra di Netanyahu: Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich.

 


In questo senso, come ha detto lo stesso Muḥammad Ḍayf, gli attacchi di Ḥamās del 7 ottobre devono essere intesi anche come delle operazioni necessarie per difendere Gerusalemme e la Cisgiordania, regione in cui i coloni – che oggi sono rappresentati nel governo – si ostinano a perpetrare violenze ai danni dei palestinesi, con il sostegno dell’esercito israeliano.


 

La quarta ipotesi è invece tutta interna al dibattito palestinese: Ḥamās avrebbe attaccato per ottenere la liberazione dei prigionieri detenuti nelle carceri israeliane. Come scrive Danielle Gilbert in un’analisi per il Center for Strategic and International Studies, Ḥamās «ha preso ostaggi per forzare lo scambio di prigionieri».

Effettivamente, nel 2006 l’ala militare del movimento aveva ottenuto un risultato spettacolare grazie al rapimento del soldato israeliano Gilad Shalit, che fu liberato cinque anni dopo in cambio di 1.027 prigionieri palestinesi.

Binyamin Netanyahu fu molto criticato per questo accordo. Anche perché tra i prigionieri rilasciati c’era Yaḥyā Sinwār, che successivamente sarebbe diventato leader di Ḥamās a Gaza. Insomma, secondo questa lettura l’attacco del 7 ottobre serviva per prendere quanti più ostaggi possibili.


 

Tutte queste ipotesi sono plausibili. Ma quel che è certo è che con l’attacco del 7 ottobre l’ala militare di Ḥamās ha dato una forte scossa politica all’intero movimento. Tuttavia, sebbene non abbia mai agito così violentemente, non è la prima volta che compie operazioni di questo genere. Anzi, in più occasioni gli attacchi delle Brigate al-Qassām hanno cambiato il corso della storia palestinese.


3. L’evento più importante è stato senza dubbio il colpo di Stato del giugno del 2007, attraverso il quale Ḥamās ha preso il controllo di Gaza.

La conseguenza di quel golpe è stata la definitiva rottura dell’unità politica palestinese, dal momento che esso sanciva di fatto la divisione tra i palestinesi di Gaza e quelli di Cisgiordania. I leader politici di Ḥamās hanno sempre sostenuto di essere stati colti di sorpresa dal colpo di Stato, di cui non erano stati informati. È possibile che ciò sia vero, almeno per quanto riguarda le personalità più moderate.


Allo stesso modo, è plausibile che i quadri politici di Ḥamās non siano stati informati nemmeno dell’attacco in territorio israeliano che l’ala militare ha compiuto il 25 giugno 2006.

In quell’occasione le Brigate al-Qassām, insieme ad altri due gruppi, scavarono un tunnel e attaccarono una base israeliana. Due soldati vennero uccisi, mentre uno – Gilad Shalit – venne rapito, e rimase in prigionia per oltre cinque anni. Il soldato israeliano venne rilasciato solo nell’ottobre 2011, a seguito di un negoziato tra Israele e Ḥamās mediato da un emissario dei servizi segreti tedeschi.


Come ha raccontato Marwān ‘Īsā, comandante operativo delle Brigate al-Qassām, il rapimento di Shalit è stato un punto di svolta nei rapporti tra l’ala militare e l’ala politica di Ḥamās. In un’intervista concessa ad Al Jazeera, ‘Īsā ha ricostruito sia il rapimento di Shalit sia le trattative che hanno condotto alla sua liberazione, mostrando come le decisioni più importanti siano state prese dall’ala militare.

 

 

Carta di Laura Canali – 2021

 

 

Durante la primavera e l’estate del 2006, l’ala politica di Ḥamās stava infatti cercando – con scarso successo – di mettere in piedi un governo di unità nazionale insieme a Fatḥ.

Come ha scritto il giornalista israeliano Shlomi Eldar, data la complessa fase politica i quadri di Ḥamās erano o all’oscuro o contrari al progetto di rapire un soldato israeliano. Tra gli oppositori c’era anche Ismā‘īl Haniyya, all’epoca primo ministro dell’Autorità nazionale palestinese (Anp).

L’ala politica era contraria all’operazione soprattutto per le tempistiche. Come ha dichiarato Marwān ‘Īsā, infatti, organizzare un’operazione armata oltreconfine contro i soldati israeliani «è stato difficile in una situazione come quella, in cui Ḥamās era al governo ed era coinvolto nell’azione politica». Tuttavia, sempre secondo ‘Īsā, l’ala militare riteneva che fosse impossibile non agire: «Era chiaro che il nemico, in quelle circostanze politiche, stava imponendo pressioni sul terreno e stringendo la presa su bersagli della resistenza palestinese. Per questo abbiamo preso la ferma decisione di contrattaccare e condurre l’operazione, a prescindere dal prezzo da pagare».

 

Insomma, l’ala militare ha portato avanti unilateralmente l’operazione. E il suo successo ha modificato profondamente gli equilibri di potere all’interno del movimento islamista.

 

4. Il sequestro di Shalit ha segnato il confronto tra Ḥamās e i governi israeliani, dal momento che ha chiamato in causa il cosiddetto dossier dei prigionieri. Questo tema, per quanto di fondamentale importanza, non è molto noto all’opinione pubblica israeliana. Al contrario, la questione dei prigionieri è ben presente nella società palestinese, dal momento che praticamente ogni famiglia ha dovuto affrontare l’arresto, la detenzione amministrativa o la condanna di uno dei suoi membri.

Secondo i dati dell’Anp di Rāmallāh, più di ottocentomila palestinesi sono entrati in un carcere israeliano dal 1967 a oggi. Parliamo di circa il 20% della popolazione dei Territori occupati. Prima del 7 ottobre, i prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane erano poco più di cinquemila. Oggi il numero è raddoppiato, dal momento che nei giorni immediatamente successivi all’attacco di Ḥamās le autorità israeliane hanno arrestato circa quattromila lavoratori di Gaza che si trovavano oltreconfine e mille palestinesi di Cisgiordania.

È per questo che, dopo la liberazione di oltre mille detenuti in cambio del ritorno a casa di Gilad Shalit, il «dossier dei prigionieri» è divenuto centrale per la strategia di Ḥamās. Il sequestro di Shalit mostrava chiaramente che era possibile ottenere la liberazione dei detenuti palestinesi rapendo soldati israeliani. Inoltre, Ḥamās si è reso conto che il «dossier dei prigionieri» è estremamente sentito nella società palestinese. Il risultato del 2011, insomma, ha avuto un impatto fortissimo e ha permesso a Ḥamās di raccogliere un enorme consenso.

5. Tra i prigionieri liberati nel 2011 vi era anche Yaḥyā Sinwār, celebre comandante delle Brigate al-Qassām ed esponente della prima ora del movimento al-Mağd, un’unità speciale costituita dallo sceicco Aḥmad Yāsīn per individuare e punire coloro che collaboravano con Israele. Arrestato nel 1988 e condannato all’ergastolo, egli ha guidato la circoscrizione delle prigioni. Sinwār – oggi a capo della circoscrizione di Gaza – è un personaggio complesso, legato all’ala militare di Ḥamās e dotato di un impressionante pragmatismo.

È stato proprio Sinwār a rendere Gaza centrale negli equilibri nel movimento. In effetti, la Striscia è l’unico spazio in cui Ḥamās riesce effettivamente a esercitare una qualche forma potere, in cui ha delle burocrazie funzionanti e in cui riscuote le tasse. Ed è proprio a Gaza che le Brigate al-Qassām si sono trasformate in un esercito vero e proprio. Il controllo politico, burocratico e istituzionale che Ḥamās esercita sulla Striscia a partire dal 2007 ha infatti reso possibile la militarizzazione delle Brigate. I miliziani si sono trasformati a tutti gli effetti nell’esercito di uno Stato non Stato. Questa è infatti la definizione migliore che si può dare della Striscia di Gaza, lembo di terra controllato da Ḥamās ed ermeticamente separato dal resto del mondo dalle Forze di difesa israeliane e dall’esercito egiziano, che sorveglia il valico di Rafaḥ.

 

Gaza è dunque centrale per quanto riguarda gli equilibri di potere di Ḥamās. Ne è la roccaforte. È l’unico luogo in cui il movimento islamista esercita un potere effettivo. Ed è esattamente per questo che i fatti del 7 ottobre potrebbero generare delle conseguenze assolutamente indesiderate per gli islamisti. Gaza, infatti, rischia di trasformarsi in un enorme campo di battaglia.

In questo senso, l’ala militare dell’organizzazione pare aver pianificato l’attacco senza una chiara finalità strategica. I leader militari hanno infatti ignorato l’inevitabile risposta dello Stato ebraico. Se l’obiettivo tattico è attirare gli israeliani nella trappola della guerriglia urbana, è evidente che essi non hanno preso in considerazione il fatto che a morire saranno soprattutto i civili palestinesi. Insomma, l’attacco del 7 ottobre, che rischia di trasformare la Striscia di Gaza in un cimitero a cielo aperto, pare essere stato organizzato senza una strategia di lungo periodo. Dunque rischia di ritorcersi contro Ḥamās.

Tale assenza di strategia si percepisce chiaramente nell’atteggiamento dei leader dell’organizzazione che si trovano all’estero, i quali sembrano assolutamente incapaci di spiegare quali fossero gli obiettivi dell’attacco del 7 ottobre. Dalle interviste che rilasciano emerge chiaramente come essi siano stati presi alla sprovvista. Le loro parole tradiscono una certa sorpresa, che li porta ad assumere posizioni spesso controproducenti. È il caso, ad esempio, delle dichiarazioni di Ḫālid Miš‘al, per molti anni a capo dell’Ufficio politico di Ḥamās. Nella sua prima uscita pubblica, Miš‘al ha invocato l’aiuto – anche militare – di Ḥizbullāh e dell’Iran, così certificando la debolezza di Ḥamās.

Il punto, però, è che la debolezza dell’organizzazione non è solo militare. Il problema è che i dirigenti di Ḥamās non sono in grado di spiegare la ratio strategica sottesa agli attacchi del 7 ottobre. Ammesso e non concesso che ve ne sia una.

 

 

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