ILAN PAPPE’, LA PRIGIONE PIU’ GRANDE DEL MONDO, Storia dei territori occupati, Fazi Editore, settembre 2022 + altro

 

 

la prigione più grande del mondo

– In copertina Lato israeliano della barriera di separazione con la Cisgiordania presso la città di Baqa al-Gharbiyye Foto © Amir Levy

FAZI EDITORE, SETTEMBRE 2022
Traduzione di Michele Zurlo

 

nota sulla copertina :

La barriera di separazione israeliana o muro di separazione è un sistema di barriere fisiche costruito da Israele in Cisgiordania a partire dalla primavera del 2002. Si estende su un controverso tracciato di 730 km ridisegnato più volte a causa di pressioni internazionali e consiste per tutta la sua lunghezza in un’alternanza di muro e reticolato con porte elettroniche.
Se lo Stato di Israele lo considera un mezzo di difesa dal terrorismo, i palestinesi lo ritengono uno strumento di segregazione razziale, tantoché, mentre il primo si riferisce ufficialmente ad esso come “chiusura di sicurezza israeliana” o “barriera antiterrorista”,  i secondi lo chiamano “muro dell’apartheid” o “muro della vergogna” o “muro dell’annessione” o usano l’espressione araba jidār al-faṣl al-ʿunṣūrī, che può significare tanto “muro di separazione razziale” quanto “muro di separazione razzista”. L’ONU e la comunità internazionale utilizzano più frequentemente il termine “muro”.
La barriera ingloba la maggior parte delle colonie israeliane e la quasi-totalità dei pozzi d’acqua.

segue nel link dopo le foto

undefined

il muro

Jacob Rask da Alingsås, Sweden – Flickr

 

 

undefined

il muro sul lato palestinese –beauceant – Opera propria

undefined

 

 

presentazione dell’editore:

 

Dopo la sua acclamata indagine sulla pulizia etnica della Palestina avvenuta negli anni Quaranta, il famoso storico israeliano Ilan Pappé rivolge l’attenzione all’annessione e all’occupazione della Striscia di Gaza e della Cisgiordania, esponendoci la prima critica globale relativa ai Territori Occupati palestinesi. Frutto di anni di ricerche, il nuovo lavoro di Pappé rappresenta probabilmente l’analisi più completa mai scritta sulla genesi dei Territori Occupati e sulla vita quotidiana all’interno di quella che l’autore definisce, appunto, «la prigione più grande del mondo». Pappé analizza la questione da molteplici punti di vista: attraverso l’analisi di materiali d’archivio recentemente declassificati, ricostruisce sotto una luce nuova le motivazioni e le strategie dei generali e dei politici israeliani – e lo stesso processo decisionale – che hanno gettato le basi dell’occupazione della Palestina; rivolgendo poi lo sguardo alle infrastrutture legali e burocratiche e ai meccanismi di sicurezza messi in atto dagli occupanti, rivela il modo in cui Israele è riuscito a imporre il suo controllo a oltre un milione di palestinesi; infine, attraverso i documenti delle ONG che lavorano sul campo e i resoconti di testimoni oculari, Pappé denuncia gli effetti brutalizzanti dell’occupazione, dall’abuso sistematico dei diritti umani e civili ai blocchi stradali, dagli arresti di massa alle perquisizioni domiciliari, dal trasferimento forzato degli abitanti autoctoni per far spazio ai coloni al famigerato muro che sta rapidamente trasformando anche la stessa Cisgiordania in una prigione a cielo aperto. Il libro di Pappé è al contempo un ritratto incisivo e commovente della quotidianità nei Territori Occupati e un accorato appello al mondo perché non chiuda gli occhi di fronte ai crimini contro l’umanità a cui è soggetta da più di settant’anni la popolazione indigena della Palestina.

«Pappé sostiene audacemente e in modo persuasivo di considerare i Territori Occupati come la “più grande prigione del mondo”… Le sue conclusioni non saranno accolte positivamente da tutti, ma questa storia dettagliata è rigorosamente supportata da fonti primarie».
«Publishers Weekly»

«Ilan Pappé è lo storico più coraggioso, più rigoroso e più incisivo di Israele».
John Pilger

 

 

COMMENTI E RECENSIONI:

 

1.

STEFANIA MAURIZI, INTERVISTA ALLO STORICO ISRAELIANO ILAN PAPPE’- IL FATTO QUOTIDIANO, 28 OTTOBRE 2022 — https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/10/28/non-dimenticare-i-palestinesi-sono-un-popolo-di-carcerati/6853898/

 

 

Pappé: “Non dimenticare i palestinesi. Sono un popolo di carcerati”

Lo storico israeliano

 

È stato definito lo storico israeliano più coraggioso. Ilan Pappé ha da poco dato alle stampe La prigione più grande del mondo. Storia dei Territori Occupati (Fazi editore), un libro che ricostruisce rigorosamente, con dati e materiali d’archivio, una mostruosa ingiustizia sotto gli occhi del mondo, eppure tollerata: come la Cisgiordania e la Striscia di Gaza siano state trasformate da Israele in un immenso carcere.

 

Il libro è dedicato ai bambini della Palestina che sono stati uccisi, feriti e traumatizzati e scrive che nella prima Intifada (la rivolta palestinese dal 1987 al 1993) la sezione svedese di Save The Children stimò che tra i 23.600 e 29.000 bambini, un terzo dei quali con meno di 10 anni, dovettero essere curati a causa delle ferite provocate dalle percosse. È figlio di gente sfuggita al nazismo, quando ha iniziato a mettere in discussione le brutali politiche di Israele contro i palestinesi?

Iniziai a notare la brutalità, e a rendermi conto quanto fosse strutturale, in due fasi. La prima volta quando lavorai al mio Ph.D. all’Università di Oxford sugli eventi del 1948 (la cacciata dei palestinesi dalla loro terra, ndr) ed esaminai freddi materiali d’archivio, che includevano immagini strazianti di massacri, espulsioni e altri crimini di guerra. Mi resi conto che la convinzione con cui ero cresciuto, che le forze armate israeliane fossero le più etiche del mondo, era discutibile. La seconda volta fu quando vidi con i miei occhi la brutalità dell’esercito d’Israele nella seconda guerra del Libano nel 1982, poi durante la prima Intifada e, a distanza ravvicinata, durante la seconda nel 2000, quando iniziai a scrivere La pulizia etnica della Palestina.

La sua posizione senza compromessi l’ha resa un reietto in Israele. Riceve ancora minacce di morte?

Non più tanto, dopotutto ho lasciato il Paese per un lungo periodo e ci sono altri che ora vengono presi molto più di mira. Poiché sono ancora una figura pubblica, le paure ci sono ancora, così come le minacce, ma con il passare del tempo ci si abitua e ci si preoccupa meno. Mi pento solo di non aver iniziato prima, perché avrei potuto fare molto di più.

 

Abbiamo visto il supporto all’Ucraina: sanzioni, armi e solidarietà con i rifugiati. Come guarda ai due pesi e alle due misure del mondo occidentale: grandissimo supporto per gli ucraini, mentre Israele può uccidere i palestinesi quanto vuole?

Credo che la crisi dell’Ucraina abbia davvero rivelato questo doppio standard e questa ipocrisia, come mai prima d’ora. Ovviamente questa ipocrisia c’è sempre stata, ma quando l’Occidente sostiene che un’occupazione anche di una settimana è illegale e che l’occupante dovrebbe essere punito con sanzioni, e quando acclama la lotta del popolo occupato, in particolare il suo uso della violenza contro l’occupante, e fornisce aiuto militare all’occupato, colpisce che non una piccola parte di questo comportamento sia stata applicata a Israele e alla Palestina. Abbiamo potuto vedere immediatamente i risultati di questa ipocrisia. Da quando è iniziata la guerra in Ucraina, il governo israeliano ha intensificato le uccisioni. A partire dalla guerra, uccidere palestinesi, inclusi i bambini, è un’attività quotidiana. L’Israele ufficiale ritiene di avere l’immunità internazionale per portare avanti questa politica criminale, sotto la protezione dell’ipocrisia.

 

Lei sostiene la soluzione dello Stato unico: quanto è realistica la possibilità che israeliani e palestinesi vivano nello stesso Stato, dopo decenni di brutalità?

Storicamente, ci sono casi peggiori in cui il versamento di sangue da entrambe le parti è stato rimpiazzato dalla coesistenza. L’Europa occidentale è piena di tali esempi, gli Usa dopo la loro sanguinosa guerra civile sono un altro esempio. In realtà non è questione di possibilità di vivere insieme, si tratta piuttosto dell’assenza di qualsiasi altra possibilità, a parte la “Mad”, la distruzione reciproca assicurata. La questione è come e su quale base (possano convivere), perché oggi è la peggiore possibile – (convivono in) un sistema di apartheid – dobbiamo anche investire su come trasformarla pacificamente e poi creare uno spazio comune. Non è un matrimonio d’amore, ma è il risultato di circostanze storiche, e non tutte possono essere cambiate.

 

Cosa suggerirebbe a chi vuol aiutare i palestinesi?

È importantissima la solidarietà, che abbia come duplice scopo sia sostenere la lotta dei palestinesi sia esercitare pressione sui governi, affinché cambino le loro politiche nei confronti di Israele e della Palestina. Non meno importante è offrire un’alternativa alla disinformazione su Israele e Palestina dei media mainstream in Paesi come l’Italia.

 

 

2. 

ILAN PAPPE’.  STORIA DI UN’INGIUSTIZIA- TUTTI GLI ERRORI PORTANO A GAZA.

IL FATTO QUOTIDIANO 1 NOVEMBRE 2023

 

 

Tutti gli errori portano a Gaza

A CHI CONVIENE IL 7 OTTOBRE – Israele usa l’attacco a pretesto di politiche genocide. Agli Usa serve a riaffermare la presenza nell’area mediorientale. Ai Paesi occidentali per limitare le libertà, con la scusa del terrorismo

DI ILAN PAPPÉ

Pur condannando nella maniera più netta possibile il massacro commesso da Hamas, il segretario Onu ha voluto ricordare al mondo che quelle azioni non vengono dal nulla.Ha affermato che alla terribile tragedia del 7 ottobre non è possibile dissociare la consapevolezza di 56 anni di occupazione dalla reazione emotiva di fronte alla tragedia del 7 ottobre. La risposta israeliana non si è fatta attendere. Il governo di Tel Aviv ha chiesto le dimissioni di Antonio Guterres e lo ha accusato di sostenere Hamas e giustificare il massacro. Lettura che i media hanno sostenuto acriticamente e che ha messo sul tavolo una nuova accusa di antisemitismo. Prima del 7 ottobre veniva bollata come antisemita ogni critica allo Stato di Israele e la messa in discussione delle basi morali del sionismo, paragonate al negazionismo sull’Olocausto. Dopo il 7 ottobre è assimilato all’antisemitismo anche il tentativo di contestualizzare e storicizzare le azioni dei palestinesi, tentativo che in alcuni Paesi, come la Gran Bretagna, è considerato anche come l’anticamera della giustificazione del terrorismo.

La de-storicizzazione degli eventi del 7 ottobre dà ai governi un pretesto per portare avanti politiche che finora avevano evitato di agire in ragione di considerazioni etiche, tattiche o strategiche. Per Israele, l’attacco del primo sabato di ottobre è usato come pretesto per perseguire politiche genocide nella Striscia di Gaza. Per gli Usa è un pretesto per cercare di riaffermare la propria presenza nell’area mediorientale dopo anni di assenza, e per alcuni Paesi occidentali è un pretesto per violare e limitare le libertà democratiche dei loro cittadini, in nome di una nuova guerra al terrorismo.

La de-contestualizzazione storica ha anche messo in luce una discrepanza tra i messaggi di sostegno e solidarietà dei governi occidentali nei confronti di Israele e il modo in cui questi messaggi vengono interpretati. Infatti, sebbene avessero l’intenzione di mostrare la compassione e l’attenzione dell’Occidente verso Tel Aviv, sono stati intesi da Israele come un’assoluzione per le passate violazioni del diritto internazionale e dei diritti fondamentali dei palestinesi, oltre che come un assegno in bianco per continuare l’opera di distruzione della Striscia.

I contesti in cui inquadrare gli ultimi eventi sono vari, e sono tutti storici. (…) Quello più recente e rilevante per la crisi attuale, è la pulizia etnica della Palestina del 1948, operazione che ha compreso anche lo sfratto forzato dei palestinesi nella Striscia di Gaza, proprio da quei villaggi sulle cui rovine sono stati edificati alcuni degli insediamenti israeliani colpiti il 7 ottobre 2023. Questi palestinesi sradicati facevano parte del complesso dei 750 mila palestinesi che fino al 1948 vivevano in oltre 500 villaggi e una dozzina di città, e d’improvviso persero la loro casa e divennero rifugiati.

Il mondo si accorse di questa pulizia etnica, ma non la condannò. Di conseguenza, Israele ha continuato a ricorrere abitualmente alla pulizia etnica come strumento per assicurarsi di avere il minor numero possibile di palestinesi nativi nello spazio della Palestina storica. Il piano ha incluso l’espulsione di 300 mila palestinesi durante e dopo la guerra del 1967 e l’espulsione di oltre 600 mila dalla Cisgiordania, Gerusalemme e la Striscia di Gaza.

L’occupazione a lungo termine della Cisgiordania ha portato centinaia di migliaia di palestinesi a subire incarcerazioni senza processo, punizioni collettive e vessazioni da parte dei coloni israeliani, oltre che a non avere alcuna voce in capitolo sul proprio futuro.

Infine, gli oltre 15 anni di assedio di Gaza, uno dei più lunghi della storia, riguarda una popolazione composta quasi per metà da bambini. Già nel 2020 le Nazioni Unite hanno sostenuto che quella dei gazawi ( = ‘originario di Gaza-  adattamento dell’arabo ɣazzāwī, dal quale deriva il soprannome etnico Ghazzawi ). non è un’esistenza umana sostenibile.

È importante ricordare che l’assedio è stato imposto in risposta alle elezioni democratiche che si sono tenute nella Striscia, quando gli abitanti di Gaza hanno preferito Hamas all’Autorità Palestinese.

Ma ancora più importante è ricordare che già nel 1994 la Striscia di Gaza era circondata da filo spinato e totalmente staccata dalla Cisgiordania, perché Israele negava qualunque collegamento organico, sconfessando di fatto l’idea della soluzione dei due Stati solo un anno dopo la firma degli accordi di Oslo, che avrebbero dovuto portare a una pace tra i due popoli proprio sulla base di quella soluzione. Quel filo spinato e l’aumento dell’ebraicizzazione della Cisgiordania erano una chiara indicazione del fatto che Oslo, agli occhi degli israeliani, era solo un’occupazione con altri mezzi, non una genuina ricerca di pace.

 

Israele controllava i punti di uscita e di ingresso al ghetto di Gaza, monitorava l’ingresso del cibo (a volte pesando anche le calorie), delle merci, delle medicine e degli altri beni di prima necessità. Hamas ha reagito lanciando razzi sulle aree civili di Israele. Israele ha detto che lo faceva perché la sua ideologia prevedeva l’uccisione degli ebrei, paragonando l’organizzazione islamista a un’estensione del nazismo e ignorando del tutto il contesto della Nakba, dell’assedio disumano e barbarico di due milioni di persone e dell’oppressione dei loro compatrioti in altre parti della Palestina storica.

Hamas, per molti versi, è stato l’unico gruppo palestinese che prometteva ai palestinesi di vendicarsi delle politiche oppressive israeliane, anche se oggi è chiaro che il modo in cui ha risposto a Israele può portare alla sua stessa fine, almeno nella Striscia di Gaza, e fornisce un pretesto per ulteriori oppressioni del popolo palestinese. L’efferatezza dell’attacco di Hamas non può essere giustificata in alcun modo, ma questo non significa che i suoi atti non possano essere spiegati e contestualizzati. Per quanto orribile sia stato l’attacco, e per quanto barbara sia stata la risposta israeliana, la cattiva notizia è che tutto ciò non cambia per nulla le carte in tavola, nonostante l’ingente costo umano da entrambe le parti. Israele rimarrà uno Stato fondato da un movimento coloniale, elemento che resta nel suo Dna politico e determina la sua natura ideologica. Ciò significa che, nonostante si autodefinisca l’unica democrazia del Medio Oriente, Israele rimarrà una democrazia solo per i suoi cittadini ebrei.

La lotta intestina che ha diviso il Paese fino al 7 ottobre, tra quello che potremmo chiamare lo “Stato di Giudea” da un lato, inteso come lo Stato dei coloni che vogliono un Israele ancora più teocratico e razzista, e dall’altro con lo Stato di Israele inteso come il mantenimento dello status quo, è destinata a riaffiorare, anzi ci sono già avvisaglie di un’imminente ripresa dello scontro.

La definizione di Israele come Stato di apartheid che ne hanno dato alcune organizzazioni per i diritti umani come Amnesty International, resterà valida nonostante l’evolversi degli eventi nella Striscia e anche dopo. I palestinesi non scompariranno e continueranno la lotta di liberazione, la società civile di molti Paesi del mondo si schiererà con loro mentre i governi di quegli stessi Paesi continueranno a sostenere Israele e a garantirgli l’immunità.

La via d’uscita da questa impasse è sempre la stessa: un cambio di regime che garantisca diritti uguali per tutti from the river to the sea (‘dal fiume al mare’ come recita il famoso slogan, ndt) e il ritorno dei rifugiati. Altrimenti, lo spargimento ciclico di sangue non avrà mai fine.

Traduzione di Riccardo Antoniucci

 

se vuoi leggere :

NEVE GORDON, Cosa significa davvero «vittoria». La scelta fra pace e violenza. — IL MANIFESTO 11 NOVEMBRE 2023

Condividi
Questa voce è stata pubblicata in GENERALE. Contrassegna il permalink.

1 risposta a ILAN PAPPE’, LA PRIGIONE PIU’ GRANDE DEL MONDO, Storia dei territori occupati, Fazi Editore, settembre 2022 + altro

  1. DONATELLA scrive:

    Credo che, molto prima dei massacri, nessuno di noi avrebbe voluto vivere in zone come Gaza , la Cisgiordania e la parte di Gerusalemme assegnata ai Palestinesi. “Arabi invisibili” di Paola Caridi, giornalista e storica, descrive molto bene la vita dei Palestinesi in Cisgiordania, in particolare dei bambini e ragazzi palestinesi che frequentano la scuola. Il libro è pubblicato nel 2007 da Feltrinelli, quindi in anni ancora distanti dai massacri attuali. ” Le allieve della scuola pubblica superiore di A-Tira percorrono a piedi la distanza tra casa e scuola, anche quando la casa non è nel villaggio, ma sta dall’altra parte dell’autostrada, riservata solo agli israeliani per motivi di sicurezza. Vanno a piedi… Ci sono studenti costretti a un lungo periplo perché le strade sono state bloccate da massi posizionati dall’esercito israeliano. Ce ne sono altri che non hanno alternative se non quelle di aggirare il Muro alto quasi nove metri che Israele ha costruito bloccando le strade di accesso e ridisegnando la geografia cisgiordana. Addirittura ci sono bambini palestinesi scortati per chilometri dall’esercito israeliano per andare dalle grotte in cui vivono a Umm Tuba, sulle colline a sud di Hebron, alla scuola nel vicino villaggio di Tuwani. I soldati di Tsahal devono proteggerli dalle aggressioni ripetute cui sono stati sottoposti da parte dei coloni degli insediamenti vicini di Ma’on e Havat Ma’on. E a Hebron i bambini sono costretti ogni giorno a passare sotto i metal detector per andare a lezione , in una scuola che dista poche centinaia di metri da casa, ma per raggiungere la quale bisogna passare vicino alla Tomba dei Patriarchi e alle colonia israeliane dentro la principale città palestinese della Cisgiordania meridionale. Ci sono, infine, altri studenti che, com’è il caso delle aree più a nord, da Nablus a Jenin, rischiano parecchio ad andare a scuola: è lì, infatti, che le incursioni dell’esercito israeliano si sono concentrate, per tutta la seconda intifada e anche dopo. E’ lì che c’è la più consistente presenza di checkpoint fissi e volanti. E’ lì che va di nuovo in onda l’intifada quotidiana delle pietre, e il confronto tra i ragazzi in divisa e gli altri con i libri sotto il braccio”. ( pagg.118-119 di “Arabi invisibili”, Paola Caridi, Feltrinelli 2007.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *