LORENZO KAMEL, I palestinesi esistono e “arabi” non basta. 2 STATI E 2 DIRITTI – — IL FATTO QUOTIDIANO — 12 NOVEMBRE 2023

 

 

IL FATTO QUOTIDIANO — 12 NOVEMBRE 2023
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I palestinesi esistono e “arabi” non basta

 

2 STATI E 2 DIRITTI – L’idea di trasferire la popolazione di Gaza nel Sinai egiziano è contro la Convenzione di Ginevra. E finiamola pure di contestare l’esistenza di Israele chiamandolo “entità sionista”

 

 

DI LORENZO KAMEL

Alla fine del X secolo, il geografo palestinese al-Muqaddasī scrisse quanto segue: “Ho menzionato loro [i lavoratori di Shiraz] della costruzione in Palestina e ho discusso con loro di questi argomenti. Il maestro scalpellino mi ha chiesto: sei egiziano? Ho risposto: No, sono palestinese”.Circa 1.000 anni più tardi, il 3 settembre 1921, un editoriale pubblicato su Falastin (andato in stampa dal 1911 al 1948) sottolineò che “Siamo prima di tutto palestinesi e poi arabi”.

 

 

NOTA BREVE:

I cammini dell’Occidente. Il Mediterraneo tra i secoli IX e X. Ibn Khurdadhbah, Al-Muqaddasi, Ibn Hawqal A. Vanoli (Curatore ) –CLEUP, 2001-
https://it.wikipedia.org/wiki/Al-Muqaddasi

 

 

Questi due esempi, tra molti altri, ci ricordano che i palestinesi non sono semplicemente “arabi”, come peraltro sembrerebbero suggerire anche numerosi articoli pubblicati su alcuni quotidiani italiani. Essere consapevoli di ciò appare ancora più necessario alla luce del documento ufficiale – prodotto dal ministero dell’intelligence israeliano e divulgato lo scorso 28 ottobre– che raccomanda il trasferimento forzato e permanente dei 2,3 milioni di palestinesi della Striscia di Gaza verso la penisola egiziana del Sinai: un piano che viola l’articolo 49 della Convenzione IV di Ginevra, nel quale è chiarito che “La popolazione in tal modo evacuata sarà ricondotta alle sue case non appena le ostilità saranno cessate nel settore interessato”.

Cinque giorni dopo la divulgazione del piano, l’ex vicedirettore del Mossad Ram Ben Barak ha pubblicato un tweet (in ebraico) nel quale, facendo eco a un’opinione largamente diffusa a livello politico e militare in Israele, veniva sottolineata l’opportunità di “costituire una coalizione di paesi e finanziamenti internazionali” che permettano agli abitanti di Gaza di essere “assorbiti nei paesi arabi”.

I palestinesi (compresi i circa 1,5 milioni che hanno una cittadinanza israeliana) non possono, né devono, essere assorbiti nei “paesi arabi”. Chiamare tutti, da Gibilterra allo Stretto di Hormuz, “arabi” equivale a riferirsi a nordamericani, sudafricani, australiani, neozelandesi, irlandesi e britannici – quale che sia la loro origine – con il termine di “inglesi”, o “angli”.

Molti tra quanti chiamano i palestinesi semplicemente “arabi” misconoscono la loro identità e cultura. Sovente ciò avviene per ignoranza, ma non di rado anche per via di una forma più o meno marcata di razzismo e anti-palestinianismo. Giova ricordare che l’antisemitismo e l’anti-palestinianismo sono due facce della stessa medaglia: entrambi sono radicati in una profonda ignoranza e in un viscerale odio verso “l’altro”.

Un ampio numero di intellettuali palestinesi ha più volte sottolineato l’esigenza di non normalizzare i diffusi tentativi volti a cancellare la loro identità e storia, indipendentemente dal fatto che un palestinese abbia o meno una cittadinanza israeliana.

Ciò appare ancora più necessario alla luce dell’enorme prezzo che i palestinesi hanno pagato affinché le legittime aspirazioni della controparte israeliana potessero essere realizzate.

 

Nel corso della guerra del 1947-48 furono depopolati 418 villaggi palestinesi. Molti di essi vennero rasi al suolo, altri furono rinominati e ripopolati. Ad esempio, Bayt Dajan venne ribattezzato con il nome di Beit Dagan, il kibbutz “Sasa” venne costruito sulle ceneri del villaggio di “Sa’sa’”, “Amka’” sulla terra dell’insediamento di “Amqa”, il moshav di “Elanit” (significa albero in ebraico) sulla terra di “al-Shajara” (albero in arabo).

 

Fatto salvo un numero contenuto di municipalità create per concentrare la popolazione beduina presente nel Negev, nessun nuovo centro urbano o villaggio palestinese è stato fondato dal 1948 ad oggi all’interno dei confini dello Stato d’Israele. Per contro, all’interno di quegli stessi confini sono stati inaugurati oltre 600 nuovi centri a maggioranza ebraica.

Poco meno della metà dei villaggi palestinesi (182 su 418) che furono depopolati al tempo sono oggi inclusi all’interno di siti turistici e ricreativi, come foreste, parchi, e riserve naturali.

La popolazione palestinese rimasta dopo il 1948 nei confini dello Stato d’Israele include anche circa 25mila rifugiati interni, ovvero palestinesi che furono sradicati dai loro villaggi nel 1948 e che trovarono rifugio all’interno dei confini d’Israele.

Il fatto che i palestinesi non siano semplicemente “arabi” appare ulteriormente evidente se si guarda agli anni in cui la Cisgiordania era occupata (1948-1967) dalla Giordania: anche quella occupazione militare venne combattuta con forza dalla popolazione palestinese, al punto che il re giordano Hussein si sentì obbligato a imporre la legge marziale.

 

I palestinesi che oggi vivono all’interno dello Stato d’Israele sono soggetti a varie forme di discriminazione, alcune strutturali, altre meno (si consiglia al riguardo il libro di Susan Nathan, The Other Side of Israel). Eppure, la loro condizione è decisamente migliore rispetto a quella dei palestinesi presenti nei territori occupati palestinesi. Qui basti accennare al fatto che la Cisgiordania rappresenta l’unica area al mondo in cui milioni di civili sono soggetti a tribunali militari da oltre 50 anni: stando a fonti ufficiali israeliane, il tasso di condanne per i palestinesi in questi tribunali è pari al 99,74%. Vale la pena ricordare che, secondo il diritto internazionale, la facoltà di perseguire civili in tribunali militari può essere contemplata solo ed esclusivamente su base temporanea.

Sempre in Cisgiordania, i giovani palestinesi, compresi quanti hanno tra i 12 e i 15 anni di età, vengono processati in un tribunale militare minorile, con lo stesso personale e le medesime stanze utilizzate per gli adulti: si tratta dell’unico “tribunale militare minorile” al mondo.

 

Alcuni anni fa chiesi a Nazmi Jubeh, uno dei maggiori archeologi palestinesi, di spiegarmi la differenza tra i palestinesi presenti in Israele e i coloni arrivati in anni recenti in Cisgiordania: “Qualsiasi persona di fede ebraica che voglia vivere in Cisgiordania”, mi rispose, “seguendo le regole che ciò comporta, deve essere libera di farlo. Inoltre, chi già c’era deve poter rimanere. Altra cosa, tuttavia, è chiedere che i coloni arrivati qui di recente con la forza e in spregio al diritto internazionale possano ipso facto vedere legittimate le loro azioni.

Quando Israele venne creato i palestinesi erano già qui e rappresentavano la grande maggioranza della popolazione locale. Per questo ci sono oggi oltre un milione e mezzo di palestinesi in Israele. Per contro, i coloni sono arrivati nei territori palestinesi attraverso la violenza e gli incentivi ricevuti in questi ultimi anni dai governi israeliani. Equiparare i primi ai secondi non è solo semplicistico, ma anche moralmente reprensibile”.

Chiamarli palestinesi – e non semplicemente “arabi” – è il minimo che si possa fare per riconoscere la loro storia e le cicatrici che la sottendono. D’altro canto, espressioni come “sionisti” o “entità sionista”, per riferirsi agli israeliani o a Israele, misconoscono una legittima millenaria ambizione, nonché la storia, il sentire e le scelte di milioni di ebrei e/o israeliani. Chi utilizza queste o altre simili espressioni è mosso da pregiudizi e non sta aiutando in alcun modo il popolo palestinese. Ci sono due diritti, due storie e milioni di differenti traumi: nessuno dovrebbe sentirsi autorizzato a semplificare quelli della “controparte”.

 

 

 

 

 

 

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