LIMES ONLINE.COM — 1/ 1995 — 3 GENNAIO
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Perché fummo maoisti
LISA FOA A ROMA, FINE ANNI ’60
Adriano Sofri, un bel ritratto di Lisa Giua Foa
https://www.150anni.it/webi/stampa.php?wid=1967&stampa=1
di Lisa FOA– 1923 – 2005
Tra le colpe, ritenute massime, di questo cinquantennio è certamente da ascrivere quella di essere stati filocinesi o maoisti, ed essa appare tuttora tra le meno condonabili. Te la rinfacciano sempre e ovunque, parenti e amici, commentatori politici, critici, letterati, storici. E con toni perentori che non ammettono replica. Si usa la parola «maoismo» per significare il massimo dell’abiezione cultural-politica. Su tanti fenomeni, ideologie comportamenti degli ultimi decenni si è in qualche modo indagato, si è cercato di capire perché sono sorti, cosa significavano, di inquadrarli storicamente. Sullo stalinismo, ad esempio, si sono scritti molti volumi, si sono fatti convegni, e questo sforzo di analisi ha portato, se non proprio ad assolvere i rei di quel peccato, almeno a chiarire le loro ragioni, a relativizzare il fenomeno (cosa succedeva nel frattempo nel resto del mondo, la crisi economica, la disoccupazione in Occidente eccetera).
Ma per il «maoismo» sembra non esservi possibilità di appello. Questo atteggiamento mentale – quasi una fissazione – è tipico in particolare degli ambienti cosiddetti liberal-democratici, che dovrebbero essere invece i più aperti, o almeno i più disponibili a un’indagine senza preconcetti. Se poi accade che i più accaniti vituperatori del filocinesismo siano non di rado i filosovietici di una volta, questa non è che una nota di colore che sta a confermare quanto tempo impieghino le passioni a spegnersi.
E invece proviamo, sulla base di ricordi personali, a gettare qualche sprazzo su questo fenomeno, su come sia nato l’interesse per la Cina.
Bisogna dire innanzitutto che la Cina si è affacciata molto tardi al nostro orizzonte. Nel dopoguerra impegnato a sanare le ferite e gli sconquassi bellici, ci si occupava molto poco di quanto stava succedendo nel mondo, l’attenzione era limitata all’«estero vicino», come si direbbe oggi. Non si erano lette le corrispondenze di Edgar Snow dalle basi rosse, di un certo Mao Tse tung (oggi Mao Zedong) si cominciò a parlare, anche sulla stampa comunista, solo alla fine degli anni quaranta quando la sconfitta di Chiang Kai-shek (oggi Jiang Jieshi) era ormai alle porte. Così la vittoria di questo immenso movimento popolare ci colse un po’ tutti di sorpresa. E subito apparve il suo carattere diverso rispetto a quanto era successo in Europa: non era la rivoluzione classica dell’avanguardia proletaria armata che conquista il Palazzo d’Inverno, e tanto meno il colpo di Stato o le manovre di vertice con cui i comunisti si erano insediati al potere nei paesi dell’Europa centrorientale. In Cina c’era stata una «lunga marcia», una guerra di liberazione nazionale, una rivoluzione sociale di cui erano stati protagonisti milioni di contadini.
In quel dopoguerra europeo ingessato dalla guerra fredda, in cui si aveva l’impressione di tornare indietro anziché andare avanti, ciò che succedeva in Cina fu il segnale che il cambiamento poteva continuare, e in forme nuove. Non nacque ancora un «mito» della Cina, di cui si sapeva peraltro ben poco, anche se si era letto a suo tempo La condition humaine di Malraux, e da cui giungevano poche immagini. Né il mercato librario offriva granché in fatto di letteratura: qualche racconto di Lu Hsun (oggi Lu Xun), un romanzo di Ting Ling (oggi Ding Ling). Ma bastava a evocare quel mondo lontano che aveva infranto gli equilibri statici dell’etica confuciana con metodi non ortodossi più simili all’epopea dei fuorilegge della palude del Liang Shan (del romanzo antico I briganti) che non seguendo i precetti del comunismo scientifico.
Forse perché a quel tempo in Europa e in Italia in particolare si soffriva, anche inconsapevolmente, di claustrofobia, l’esperienza cinese fece l’effetto di un’insperata boccata di ossigeno: una rivoluzione anomala, sganciata almeno in parte dai condizionamenti del confronto ideologico diretto con l’antagonista capitalistico, che poteva percorrere con relativa tranquillità il suo cammino (la guerra di Corea sembrò soprattutto una partita giocata tra Stati Uniti e Unione Sovietica per la spartizione delle sfere di influenza). Lo stesso sarebbe potuto accadere in altri paesi sottosviluppati – si annunciava allora la fine degli imperi coloniali – di modo che tutte le potenzialità di cambiamento che erano state bloccate in Europa sembravano trasferirsi alla periferia del mondo.
C’è ancora da dire che il comunismo cinese mostrava a quei tempi una faccia benevola e rassicurante. Era l’epoca della «nuova democrazia», cioè di riforme moderate e decentrate che lasciavano spazi di autonomia a varie componenti politiche e sociali. Tutto ciò sembrava rientrare in quell’immagine di moderazione, razionalità e saggezza che era peculiare dell’antica civiltà cinese e che pareva prolungarsi nella Cina rivoluzionaria.
Ma ben presto anche il comunismo cinese doveva mostrare denti d’acciaio.
All’inizio degli anni Sessanta, l’esplosione del conflitto con l’Unione Sovietica, l’aspra polemica con il «revisionismo» della Jugoslavia e la denuncia delle «divergenze» con i partiti comunisti dell’Occidente catapultarono quella lontana e benevola Cina nel cuore delle polemiche europee. Il «grande balzo» e la conversione delle cooperative in comuni popolari avevano già indicato che la Cina imboccava anch’essa la strada della collettivizzazione accelerata. E ciò accadeva proprio mentre nei paesi comunisti europei, dopo le crisi del ‘56, emergevano i primi tentativi di riforma economica e di disgelo culturale. Anche se questi ebbero breve respiro e furono seguiti da una cupa normalizzazione, era evidente che i percorsi dei due comunismi erano destinati a divergere sempre più sul piano ideologico.
Per alcuni anni, tuttavia, il nuovo corso cinese sembrò con forme a esigenze peculiari di un paese immenso e densamente popolato, che doveva necessariamente, prima o poi, affrontare il problema del sottosviluppo. L’egualitarismo spinto, che pure veniva categoricamente rifiutato a livello teorico, appariva in qualche modo giustificato in un paese povero e in cui si doveva sopravvivere in centinaia di milioni. Per molti aspetti l’esperienza cinese continuava inoltre a differenziarsi dal modello stalinista, nonostante alcune superficiali affinità. Ad esempio, Stalin con la collettivizzazione agricola aveva sradicato la società rurale espellendo e deportando milioni di contadini. In Cina, invece, nelle comuni agricole si concentravano molteplici attività, venendo così esaltato il ruolo delle campagne nei confronti dei centri urbani. O ancora, la carestia provocata dal «grande balzo» ebbe certo conseguenze drammatiche, ma era comunque cosa diversa dalle fami provocate volutamente da Stalin per spezzare la resistenza dei contadini.
In Cina, inoltre, dopo pochi anni era seguita una linea di drastico ridimensionamento e riequilibrio, mentre il percorso sovietico non era stato che una successione di fughe in avanti. Questa flessibilità nella politica agricola e nei rapporti città-campagna aveva destato l’attenzione di un ex buchariniano come Palmiro Togliatti che, ad esempio, lasciò che se ne scrivesse su Rinascita (e chi di questa posizione si ritrovano nel Memoriale di Jalta). Sempre Togliatti seguiva con occhio non del tutto malevolo i testi delle polemiche di Pechino con Mosca, rammaricandosi semmai che non vi fosse inclusa anche la politica del Komintern in Cina: «Glie ne hanno fatte di tutti i colori», si lasciò sfuggire una volta.
Il «maoismo» vero e proprio sarebbe venuto alcuni anni più tardi, come conseguenza della rivoluzione culturale. Anzi, come conseguenza del Sessantotto europeo, perché in realtà raggiunse il suo apice proprio quando il movimento in Cina era ormai in fase declinante e le «guardie rosse » degli assalti al «quartier generale» erano state cacciate dalle piazze e mandate in campagna a lavorare. Chi viaggiava allora per la Cina poteva vedere di tanto in tanto file di ragazzetti con lo zaino in spalla e un’aria non troppo festante, in attesa di un mezzo che li avrebbe scaricati in qualche remoto comune dell’interno. Ma non era che una delle tante immagini di un paese sempre affollato e in perpetuo movimento, che non bastava ad offuscare il mito della Cina rivoluzionaria. Il quale, come tutti i miti, nasceva più da un bisogno soggettivo di chi lo coltivava che non dalla realtà cui faceva riferimento.
Il mito della Cina maoista non era sorto in modo troppo diverso da quelli più illustri che l’avevano preceduto nella storia. Era la contestazione della società in cui vivevano – la scuola autoritaria, la fabbrica oppressiva, il comunismo conciliante e burocratico – che spingeva i giovani dei movimenti europei ad assumere come punto di riferimento la rivoluzione culturale cinese, e ciò senza preoccuparsi eccessivamente di conoscere cosa essa fosse in realtà. Così come – se è consentito il paragone con il Settecento – l’esaltazione delle virtù confuciane e della saggezza dei mandarini serviva agli illuministi nella loro polemica contro l’assolutismo e l’oscurantismo religioso, anche loro senza badare al carico di oppressione e autoritarismo che quel sofisticato sistema di condizionamenti morali e giuridici esercitava sulla società.
Certo, gli illuministi studiavano, ragionavano e scrivevano, mentre i giovani del Sessantotto manifestavano rumorosamente e lanciavano slogan stereotipati. Essi, tuttavia, avevano sia pure confusamente raccolto un’indicazione antiautoritaria e libertaria, presente almeno nella fase iniziale della rivoluzione culturale, che corrispondeva a esigenze reali di ammodernamento delle società europee. Che ciò abbiano fatto senza accorgersi della carica di violenza che quel movimento aveva provocato nella Cina mitica di Mao (e di cui furono vittime le stesse «guardie rosse») non vuol dire che al nostro maoismo possa essere imputata una qualche responsabilità (così come Voltaire non era responsabile delle angherie compiute dai mandarini che esaltava).
Resta infine da dire cosa avevano trovato nel maoismo alcuni rappresentanti delle generazioni di età più avanzata, che non vivevano direttamente la contestazione giovanile e non sentivano affatto il bisogno di richiamare in vita i sacri princìpi originali. Credo che in poche parole si possa dire che vi videro la critica più convincente del comunismo di marca sovietica, e questo li indusse a coltivare l’illusione che un’altra strada fosse percorribile. Si è molto parlato e scritto a suo tempo della «rivoluzione ininterrotta» di Mao, delle sue analisi critiche dell’economicismo che riproduceva nel nuovo ordine i rapporti di produzione e la divisione del lavoro delle vecchie società, accentuava le differenze e le sperequazioni, conduceva alla stagnazione burocratica, per soffermarcisi sopra ancora.
Sono d’altronde discorsi che non possono che apparire del tutto superati non solo nell’Europa del dopo Ottantanove, ma anche nella Cina delle Zone economiche speciali. Non sarebbe tuttavia del tutto sterile riprendere in mano alcuni testi, come gli Inediti di Mao, diffusi durante la rivoluzione culturale, o il suo saggio Sui dieci grandi rapporti, una summa dell’utopia maoista di un socialismo proiettato verso l’equilibrio e l’eguaglianza. E ciò non per alimentare un nuovo miraggio, ma per conoscere almeno alcuni dati di partenza del lungo viaggio che la Cina sta compiendo verso la modernizzazione e in cui non ha ancora trovato un filo conduttore, prigioniera com’è della sua tradizione autoritaria.
Chi a suo tempo credette nella validità del progetto maoista non poté a un certo punto che prendere atto del suo fallimento (in fondo con un bel po’ di anni di anticipo su chi continuava a confidare nel progetto bolscevico-sovietico) e cercare di capire perché non aveva funzionato. Probabilmente per la sola ragione che quel disegno volontaristico di liberazione aveva finito con il generare un carico di oppressione ideologica e sociale che era divenuto intollerabile e paralizzante, perfino superiore a quella che si intendeva sradicare.
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per chi avesse tempo e voglia, pubblico il link del testo citato da Lisa Foa di Mao : ” Sui dieci grandi rapporti ” –
anche se io, chiara, lo leggo domani, adesso è tardi per me-
25 aprile 1956
Mao Zedong o Mao Tse-tung-
Shaoshan, 26 dicembre 1893 – Pechino, 9 settembre 1976
SUI DIECI GRANDI RAPPORTI
APRI QUI COME UN QUALUNQUE LINK
http://www.bibliotecamarxista.org/Mao/libro_13/sui_10_grand_rapp.pdf
Bellissimo, chiaro questo articolo che cerca di spiegare l’innamoramento di quegli anni, soprattutto da parte dei giovani, per la Cina di Mao. Il comunismo che partiva dal basso, dalle esigenze della popolazione più povera, sembrava un sogno che si stava inverando. Tutto ciò poi avrebbe dovuto scontrarsi con una realtà ben più dura, di autoritarismo e di repressione: insomma, era comunque iniziato un nuovo cammino di ricerca della giustizia e della verità, di un maggior benessere tra gli uomini. Non dobbiamo comunque mai dimenticare l’ammonimento: ” Guai a vivere in tempi interessanti”.