IL FATTO QUOTIDIANO — 22 AGOSTO 2023
https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2023/08/22/il-contratto-per-averne-uno-regolare-ho-dovuto-emigrare/7267909/?utm_medium=Social&utm_source=Twitter#Echobox=1692660326-2
“Nuovi schiavi” | Viaggio nel lavoro povero. “Mi davano 5 euro. E poi si domandano perché non trovano personale?”
NEGOZI E RISTORANTI A MILANO – Ritmi disumani, obiettivi assurdi, straordinari non pagati: “Alla fine prendevo 5 euro all’ora, poi si domandano perché non trovano personale”
Mentre impazza un dibattito a volte surreale sul salario minimo legale, il Fatto ha deciso di raccontare a puntate il lavoro povero, precario, sfruttato, attraverso le voci di chi lo subisce.
Questa è la prima puntata.
Non si trovano camerieri, cuochi, baristi, ma nemmeno commessi disposti a sacrificare weekend e festività: sono anni che sui quotidiani leggiamo le dichiarazioni di imprenditori disperati che raccontano di non riuscire a trovare personale. I settori che paiono più toccati da questa penuria di lavoratori sono principalmente due: ristorazione e commercio, incidentalmente i due settori che presentano la maggior incidenza di irregolarità secondo l’ultimo rapporto dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro.
Le ragioni della mancanza di personale nel commercio sono piuttosto note e hanno a che fare con le condizioni proposte. La parola chiave è “precarietà”: le maggiori catene di negozi e supermercati assumono per lo più con contratti part-time a tempo determinato che prevedono le cosiddette clausole elastiche e flessibili. Cosa sono? Il lavoratore viene assunto, per dire, per 24 ore settimanali ma finisce per lavorarne oltre 40. In certi casi gli straordinari vengono retribuiti, in molti altri casi finiscono in “banca ore”, cioè vengono accumulati per poter essere poi utilizzati per chiedere dei permessi.
Marta (nome di fantasia, ndr) ha lavorato in un negozio di cosmetica in pieno centro a Milano: “Sono stata assunta al volo: ero in giro a fare una passeggiata con mia madre e mi sono fermata a lasciare il cv. Nemmeno il tempo di girare l’angolo che mi avevano chiamata per il colloquio. Ho iniziato a dicembre, assunta con un contratto di un mese da 30 ore settimanali per 1.000 euro circa, per poi passare a un full time a 1.300 euro. La formazione è durata pochissimi giorni e già durante la prima settimana sono finita a fare cassa, senza però l’indennità prevista dal contratto. Col passare del tempo sono arrivata a ricoprire il ruolo di responsabile del piano: gestivo lo staff del negozio, organizzavo i turni e sostituivo la store manager quando non c’era, il tutto senza alcun aumento di stipendio. Sono arrivata a lavorare molte più ore rispetto a quelle contrattuali ma questi straordinari non mi sono mai stati retribuiti, finiva tutto in banca ore”.
Non è solo la precarietà a rendere così poco attraente il lavoro nel commercio. Ogni negozio retail impone quotidianamente ai propri dipendenti dei target da raggiungere. Fallire l’obiettivo espone a conseguenze, come il mancato rinnovo: “Ogni mattina c’era un briefing durante il quale ci venivano comunicati gli obiettivi: la media scontrino doveva essere di almeno 15 euro e il numero di pezzi per scontrino mai sotto il 3. Il tasso di conversione richiesto era almeno del 30/35%, un livello molto alto da raggiungere considerando che molte persone entrano in questi negozi solo per passare il tempo o per evitare di prendere caldo o freddo a seconda della stagione”, racconta Marta.
Condizioni simili anche per Ilaria (nome di fantasia, ndr), che ha lavorato come addetta alle vendite in un importante negozio di costumi nel centro di Milano: “Cercavo un impiego part-time per guadagnare qualcosa durante l’università. Non sapevo, però, che quel ‘lavoretto’ avrebbe finito per diventare esasperante: da 24 ore settimanali che avrei dovuto fare sono arrivata a lavorarne anche 45. Non era prevista alcuna turnazione per domeniche e festivi – anche perché eravamo perennemente ‘sottostaffati’ – ed essendo l’ultima arrivata finivo per dovermi sobbarcare i turni più scomodi. Ho resistito quattro mesi e poi ho dovuto lasciare il lavoro per non compromettere gli studi. Lo stipendio? Circa 1.200 euro per 40 ore settimanali. E mi reputo fortunata: c’erano ragazze in stage che lavoravano per 500 euro”.
Se nel commercio la situazione è brutta, nella ristorazione è peggio: nel settore l’incidenza media nazionale del lavoro irregolare è al 76%.
“Ho lavorato per anni come cameriere e a 30 anni posso dire che non ho mai avuto un contratto davvero regolare: sono sempre stato pagato metà in busta paga e metà in nero, se non totalmente in nero – racconta Gabriele –. Ho lavorato in un famoso pub in una zona centrale di Milano, dalle 17 alle 2 del mattino, sei giorni a settimana. O almeno questo era l’orario formale, perché mi sono trovato a dover rimanere anche oltre le 3 perché gli amici del proprietario si fermavano a bere. Quell’ora in più non me l’ha mai pagata nessuno, era pretesa. Il tutto per 40 euro a sera.
Non è andata meglio quando ho cominciato a lavorare come cameriere in un ristorante in zona San Siro: contratto da 10 ore settimanali come lavapiatti, ne lavoravo 11 al giorno tra pranzo e cena per 1.100 euro”. La testimonianza di Gabriele è molto simile ai racconti di decine e decine di suoi colleghi, eppure molti continuano a sostenere che la mancanza di lavoratori nel settore sia causata dal defunto Reddito di cittadinanza o dalla scarsa propensione dei giovani al sacrificio. Giovani è una parola chiave: questi imprenditori cercano nella maggior parte dei casi personale under 30, per pagarlo di meno ovviamente. In Italia è diffusa l’idea malsana che un giovane debba accettare qualsiasi condizione proposta, una sorta di distorsione in cui la gavetta finisce per somigliare a un moderno schiavismo.
Non a caso, dopo lo stop pandemico, molti lavoratori hanno deciso di abbandonare la ristorazione o emigrare.
È il caso di Isabella: “Ho lavorato nel campo della ristorazione per 12 anni e solo quando ho deciso di trasferirmi in Svizzera ho avuto l’onore di sottoscrivere un contratto di lavoro in regola. Il mio ultimo lavoro in Italia prevedeva l’orario spezzato, sei giorni a settimana, per 1.400 euro al mese, peccato che il mio contratto fosse di 20 ore a settimana. Facendo i conti, lavoravo praticamente per 5 euro all’ora. Ovviamente gli straordinari non erano retribuiti, in questo settore va molto di moda offrire un forfait: io ti pago una cifra fissa e tu lavori quanto voglio io. Poi si domandano perché le persone girano al largo dalla ristorazione. L’unico consiglio che mi sento di dare a chi vuole emigrare è di non andare a lavorare per gli italiani all’estero: la solfa non cambia”.