Pierre Dardot e Christian Laval — IL MANIFESTO — 2 LUGLIO 2017 ( 2° )  + 28 GENNAIO 2017 ( 1° ) di ROBERTO CICCARELLI

 

Abbiamo anticipato l’articolo pubblicato dopo perché parla dell’Italia
al tempo del primo governo Conte / Salvini- ch.

 

IL MANIFESTO — 2 LUGLIO 2017
https://archiviopubblico.ilmanifesto.it/Articolo/2003239940

 

 

Inedite uova del serpente

Un’opera di Grégoire A. Meyer ( Regno Unito  — Riflessione
Tecnica mista ,  100 L x 70 A x 0,5 P cm

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CULTURA

 

Inedite uova del serpente

Gli studiosi francesi ampliano la loro analisi alle estreme destre di governo, da Trump a Salvini

 

 

Unemployed Negativity - Analysis of Dardot and Laval's New Way of the – Verso

( da sinistra )  PIERRE DARDOT, CHRISTIAN LAVAL ━ FRANCIA

 

Donald Trump segna incontestabilmente una data nella storia del neoliberismo globale. Una mutazione che non riguarda solo gli Stati Uniti, ma coinvolge tutti i governi – sempre più numerosi – che esprimono tendenze nazionaliste, autoritarie, xenofobe, fino al punto di assumere il riferimento esplicito al fascismo, come nel caso di Matteo Salvini.

In effetti, la Lega – partito etno-regionalista che ha preso parte a diverse coalizioni di governo della destra negli anni Novanta e Duemila, prima di tornare al potere alleandosi con il Movimento 5 Stelle – è un esempio tipico di quello che chiamiamo «nuovo neoliberismo» o «neoliberismo ibrido».

A partire da un identitarismo anti-immigrazione e un securitarismo altrettanto violento, la formazione di Salvini ha assunto una postura contemporaneamente nazionalista e neoliberista.

 

SUL FRONTE DEL NAZIONALISMO, la Lega si scaglia contro l’unione monetaria, l’euro e il libero scambio, nella misura in cui – stando ai suoi dirigenti – l’europeismo e il globalismo sono nocivi per l’economia del paese e il popolo italiano.

Sul fronte del neoliberismo, invece, la Lega è fermamente contraria a qualunque logica di ridistribuzione della tassazione e della spesa pubblica – in particolare con la sua proposta di flat tax – e sostiene le piccole e medie imprese diminuendo gli oneri che irreggimentano la produzione e il mercato del lavoro.

Alla stregua di Trump, si tratta di riaffermare una sovranità commerciale e soprattutto monetaria proprio mentre si liberalizza il mercato interno a vantaggio degli imprenditori, sventagliati come eroi nazionali.

Ma ciò che, nel contesto specifico italiano, forse meglio caratterizza la Lega è la sua strategia di lungo corso di riorganizzazione interna dello Stato:

si tratta di rafforzare l’autonomia delle regioni accrescendo le loro competenze e le loro risorse fiscali contro l’uguaglianza dei cittadini di fronte a servizi pubblici fondamentali.

Questo neoliberismo, non privo di qualche somiglianza con il nazionalismo fiammingo, vorrebbe lasciare «libero gioco alla concorrenza» tra regioni all’interno di uno stesso paese, ovviamente a vantaggio di quelle che hanno acquisito più risorse e che sono già da ora le più ricche (nel caso dell’Italia le regioni del Nord). Cosa che ha giustamente fatto parlare di una «secessione dei ricchi».

Quanto al «reddito di cittadinanza», misura adottata dalla coalizione per tentare di ripagare l’elettorato del Movimento 5 Stelle, rileva di un «neoliberismo paternalista», per riprendere l’espressione di Massimiliano Nicoli e Roberto Ciccarelli: lungi dal favorire la partecipazione attiva alla cittadinanza liberando del tempo, è accompagnato da condizioni drastiche (credito alle imprese che assumono i beneficiari del sussidio, limitazione per gli stranieri che devono avere una residenza di lungo corso a meno che non siano meritevoli, vincolo ad accettare offerte di lavoro con un massimo di tre rifiuti, controllo dell’uso del denaro per impedire spese immorali…) che ne fanno uno strumento di moralizzazione dei poveri e di disciplinarizzazione della manodopera a vantaggio delle imprese.

 

CIÒ CHE CONTA È CAPIRE che questi governi non rappresentano affatto una messa in discussione del neoliberismo come forma di potere. Al contrario, diminuiscono l’imposizione fiscale per i più ricchi, riducono i sussidi, accelerano le forme di deregulation, soprattutto in materia finanziaria o di politica ambientale. Si tratta di governi autoritari, tra i quali l’estrema destra è sempre più protagonista, che di fatto assumono il carattere assolutista e iper-autoritario del neoliberismo.

Per cogliere questa trasformazione, occorre anzitutto evitare due errori. L’errore più vecchio consiste nel confondere il neoliberismo con l’«ultraliberismo», con il «libertarismo», con «il ritorno ad Adam Smith» o ancora con «la fine dello Stato»

Come ci ha già mostrato Michel Foucault, il neoliberismo è una forma attiva di governo, che non ha granché a che vedere con lo Stato minimo passivo del liberalismo classico. Da questo punto di vista, non è il grado di intervento dello Stato, né il suo carattere coercitivo, a rappresentare la novità. A essere nuova è la sostanziale antidemocrazia del neoliberismo – esplicita presso alcuni dei suoi grandi teorici come von Hayek -, che oggi si traduce attraverso una messa in discussione politica sempre più evidente ed estrema dei principi e delle forme della democrazia liberale.

Il secondo errore, quello più recente, consiste nel pensare di avere di fronte un nuovo «fascismo neoliberale» o persino un «momento neofascista del neoliberismo».

È quantomeno azzardato, per non dire politicamente pericoloso, definire come fa Chantal Mouffe un «momento populista» per poi presentare il populismo come un «rimedio» al neoliberismo.

Che occorra smascherare l’impostura di figure come Emmanuel Macron, che si presentano come il solo contenimento contro l’avanzata della democrazia illiberale di Orbán e consorti, ecco una cosa certa, ma ciò basta a giustificare di confondere in uno stesso fenomeno politico «l’avanzata delle destre e la deriva autoritaria del neoliberismo»?

L’assimilazione è evidentemente problematica: come identificare, se non attraverso un’analogia superficiale, lo «Stato totale» così caratteristico del fascismo e la diffusione generalizzata del modello di mercato e impresa all’insieme della società? In fondo, se questa assimilazione consente di mettere in luce un certo numero di aspetti del «nuovo neoliberismo», in particolare a partire dal «fenomeno Trump», essa ne nasconde anche la sua specificità storica.

 

L’INFLAZIONE SEMANTICA intorno alla parola «fascismo» ha certamente effetti critici, ma tende a «confondere» fenomeni insieme complessi e singolari con generalizzazioni poco pertinenti, che non possono che portare a un disarmo politico.

Per Henry Giroux, ad esempio, il «fascismo neoliberale» è una «formazione economico-politica specifica» che mischia ortodossia economica, militarismo, disprezzo per le istituzioni e le leggi, suprematismo bianco, machismo, odio per gli intellettuali e amoralismo.

Giroux prende in prestito dallo storico del fascismo Robert Paxton l’idea che il fascismo si fondi su «passioni mobilitanti» che ritroviamo nel «fascismo neoliberale»: amore per il capo, iper-nazionalismo, fantasmi razzisti, disprezzo per chi è «debole», «inferiore», «straniero», per i diritti e la dignità degli individui, violenza nei confronti degli oppositori.

 

SE NEL TRUMPISMO ritroviamo effettivamente tutti questi elementi, non rischiamo comunque di non coglierne la specificità in relazione al fascismo storico?

Paxton ammette che Donald «Trump riprende diversi motivi tipicamente fascisti», ma in esso vede soprattutto i tratti più diffusi di una «dittatura plutocratica».

Poiché, rispetto al fascismo, esistono comunque grandi differenze: non c’è un partito unico, non c’è un divieto dell’opposizione e della dissidenza, non c’è una mobilitazione e un inquadramento di massa nelle gerarchie delle organizzazioni obbligatorie, non c’è corporativismo delle professioni, non c’è liturgia di una religione secolarizzata, non c’è l’ideale del cittadino soldato interamente devoto allo Stato totale… A questo proposito, ogni parallelismo con la fine degli anni Trenta negli Stati Uniti è ingannevole, nonostante la ripresa da parte di Trump dello slogan «America first», nome dato da Charles Lindbergh all’organizzazione fondata nell’ottobre del 1940 per promuovere una politica isolazionista contro l’interventismo di Roosevelt.

Trump non è l’incarnazione della fiction immaginata da Philip Roth che vede Lindbergh trionfare su Roosevelt alle elezioni presidenziali del 1940. Non si tratta solo del fatto che Trump non sta a Clinton o ad Obama come Lindbergh stava a Roosevelt e che in questa cornice qualunque analogia è zoppa.

Se Trump non fa che rincarare la dose nell’escalation contro l’establishment per compiacere il proprio elettorato, non cerca comunque di suscitare sommosse antisemite, diversamente dal Lindbergh del romanzo direttamente ispirato dall’esempio nazista.

Ma, soprattutto, non stiamo vivendo un «momento polanyano», per riprendere l’espressione di Robert Kuttner, caratterizzato dal ritorno dei mercati sotto poteri fascisti a fronte delle devastazioni del laisser faire. In questo senso, è l’esatto contrario e proprio qui sta il paradosso. Trump si presenta come il campione della razionalità d’impresa, ivi incluso per il suo modo di portare avanti la propria politica estera e interna.

Il momento che stiamo vivendo è quello in cui il neoliberismo produce dall’interno una forma politica originale che mischia autoritarismo antidemocratico, nazionalismo economico ed estesa razionalità capitalistica.

 

 

L’ARTICOLO SOPRA E’ LA CONTINUAZIONE DEL SEGUENTE :

— si leggono anche separati

 

IL MANIFESTO — 28 GENNAIO 2017
https://ilmanifesto.it/pierre-dardot-e-christian-laval-il-populismo-e-la-parola-del-nemico

 

Pierre Dardot e Christian Laval: «Il populismo è la parola del nemico»

 

INTERVISTA. L’analisi dei filosofi francesi sul cortocircuito tra sovranità nazionale e sovranità popolare rafforza il «sistema». L’appello al popolo presente nelle tesi di Ernesto Laclau conduce a pericolose derive politiche. Donald Trump e Marine Le Pen usano la collera contro le élite per contrapporre gli interessi nazionali alla globalizzazione.

 

Pierre Dardot e Christian Laval: «Il populismo è la parola del nemico»

Christian Laval (a sinistra) e Pierre Dardot (a destra)

 

Il populismo come dispositivo teorico emergente nella società neoliberale per rispondere alla crisi del capitalismo e ai conseguenti cambiamenti geo-politici e geo-economici in atto.

È il tema dal quale Pierre Dardot e Christian Laval, coppia consolidata della filosofia francese, sono partiti per scrivere il loro prossimo libro sul momento populista della politica contemporanea. L’incontro è avvenuto a Roma dove hanno partecipatoalla conferenza sul comunismo.

 

La loro analisi distingue tre populismi:

mediatico,

nazionalista

e teorico

e parte da una tesi: «Il populismo è una parola del nemico – afferma Pierre Dardot – Siamo per l’uso della categoria di popolo, ma rifiutiamo quella di populismo».

 

Per quale ragione?

Christian Laval: Il populismo è una categoria che sintetizza fenomeni diversi. Da quando i media dominanti se ne sono impadroniti hanno fatto di tutta l’erba un fascio. Il populismo mediatico mette infatti insieme Le Pen, Trump, Farage, Corbyn, Grillo o Podemos. In questo modo si neutralizza ogni possibile opposizione al sistema.

 

Anche i populisti vogliono ripristinare la sovranità popolare. Non parlano anche loro di popolo?

Pierre Dardot: Fanno una deliberata confusione tra la sovranità del popolo e la sovranità dello stato-nazione. In Francia Marine Le Pen invoca il popolo perché vuole rafforzare le prerogative dello stato-nazione. La sua idea di sovranità consiste nel rafforzare il potere sul popolo. Vuole rafforzare in maniera autoritaria il potere dello stato a svantaggio proprio del popolo, ovvero la possibilità di tutti di partecipare alla vita politica e agli affari pubblici. Viceversa la sovranità popolare, il potere del popolo, è l’esercizio diretto del potere da parte del popolo.

 

Un capitalista come Trump può fare gli interessi del popolo alla Casa Bianca?

Laval: Trump è l’esempio di come una parte della classe dirigente ha giocato la carta della collera popolare contro il capitalismo e il sistema. Ha catturato questa collera mettendola a profitto di un rafforzamento del sistema. È una dimostrazione della flessibilità delle classi dominanti capaci di recuperare l’opposizione. Lo dimostrano i primi orientamenti del suo governo. L’élite dei miliardari che ne fanno parte ha deciso di dismettere la timida riforma sanitaria di Obama, deregolamentare la finanza, riarmare l’economia americana contro quella tedesca.

 

Il populismo può diventare una critica del capitalismo?

Laval: Al contrario, è una risposta neoliberale alla crisi del capitalismo. Accentua la guerra commerciale tra gli stati: guerra finanziaria e fiscale nel quadro di una concorrenza generalizzata. Le diverse configurazioni del populismo, da Trump alla Brexit, sono l’espressione di una politica che appare anti-sistema ma che rafforza il sistema.

 

Cresce invece il numero di chi crede nella possibilità di un «populismo di sinistra». Come lo spiegate?

 

Dardot: È la posizione del populismo teorico ispirato dal filosofo argentino Ernesto Laclau. Si riprende il populismo condannato dai media e dalle classi dominanti, lo si rovescia in una categoria positiva. Siamo in totale disaccordo con questo uso perché il populismo è inteso come il momento costitutivo della politica in quanto tale, non un’esperienza specifica come potrebbe essere il peronismo analizzato da Laclau. La valorizzazione del ruolo del leader è un altro problema. Laclau sostiene che sia uno dei fattori che costituiscono l’identità del popolo. Questa tesi mette in dubbio il principio stesso della democrazia perché istituisce un rapporto plebiscitario e paternalistico tra il leader e il popolo. Va fatta un’analisi accurata per distinguere la democrazia dal populismo. Altrimenti si rischia di entrare nella notte dove tutte le vacche sono nere.

 

Jean-Luc Melenchon, il candidato alle presidenziali francesi alla sinistra del partito socialista si definisce «populista». Come mai?

Dardot:

Melenchon rivendica il populismo teorico di Laclau ed è ispirato da Chantal Mouffe.Sorvola sugli aspetti più criticabili del chavismo, il culto della personalità del capo. Il suo movimento si chiama La France Insoumise (La Francia ribelle). Non è un appello alla ribellione del popolo contro lo Stato, ma a un paese che si ribella ai poteri esterni che ne condizionano la sovranità. La componente nazionalistaè presente sin dal nome che questo movimento si è dato. Il riferimento è alla pretesa della rivoluzione francese dove la nazione pretendeva di incarnare l’universale. Questo è il modello Robespierre.

 

Anche l’estrema destra di Marine Le Pen intende riarmare la nazione contro la globalizzazione. Come si spiega questo convergente disaccordo?

Laval: Questo discorso deriva dalla corrente neofascista del Front National. Nell’estrema destra francese la commistione con un discorso socialista non è nuova. Alla fine del XIX ha riscoperto un discorso di tipo socialista.

Questa commistione non è nuova: Maurice Barrès alla fine del XIX secolo aveva definito il suo movimento come «socialista nazionale». Se Le Pen padre aveva un orientamento neoliberista puro alla Reagan, Le Pen figlia ha riscoperto il sovranismo e il protezionismo mescolandoli con alcune tesi del socialismo sovranista e gaullista di Jean-Pierre Chevènement.

È una politica ambigua che invoca la protezione statale contro la deregolamentazione.

Anche per questo persone di sinistra voteranno Front National alle presidenziali. In generale, esiste un orientamento nazionalistico tra chi sostiene che il prossimo presidente dovrebbe andare a Bruxelles per riorientare la politica europea a favore degli interessi francesi. La Francia si considera un paese del Nord Europa, quella dei dominanti. Nessuno pone il problema della cooperazione con i paesi dell’Europa del Sud, vittime dell’asimmetria che oggi premia la Germania.

 

Perché l’uscita dall’euro è considerata una bandiera?

Dardot: Si vuole restaurare il potere sovrano dello Stato: battere moneta. Chi a sinistra è ipnotizzato dall’uscita dall’euro la riprende e incorre nella confusione della destra che non distingue tra sovranità popolare e sovranità dello stato-nazione.

È un’illusione perché lo stato-nazione costituisce una forma attraverso la quale oggi si esercita il potere delle oligarchie. Il loro potere non è sinonimo di sovranità dello stato-nazione, ma di poteri transnazionali che hanno interessi diversi dal popolo che intendono governare. Senza contare che da più di una generazione gli stati-nazione stanno privatizzando alcune funzioni della sovranità: quella militare, ad esempio. Dalla prima guerra del Golfo in poi è diventato evidente la sua cessione verso agenzie private.

 

Avete proposto una federazione internazionale composta di coalizioni democratiche. In cosa consiste?

Laval: Siamo favorevoli alla ripresa dell’ispirazione che ha fondato la prima internazionale nel XIX secolo. Non pensiamo a un’internazionale dei partiti sul modello delle altre internazionali che svilupparono la loro azione a livello nazionale. Pensiamo invece a una federazione di associazioni, sindacati, cooperative e anche di partiti.

 

Qual è la differenza con l’altermondialismo dei social forum?

Laval: Quelli erano luoghi di discussione, non di azione contro il sistema neoliberale mondiale. Il modello è quello delle società operaie il cui statuto garantiva a chiunque di aderire direttamente all’associazione internazionale saltando i livelli intermedi.
Nessuna organizzazione può mediare la volontà dei singoli e i singoli possono partecipare direttamente, al di là della nazionalità. Questa soluzione potrebbe tutelare i migranti dal potere discrezionale degli stati, ad esempio.

 

Per federazione intendete anche un’istituzione politica?

Dardot: L’Unione Europea, così com’è, è detestabile. La federazione è un modello politico alternativo che potrebbe ispirare un’organizzazione internazionale aperta con l’obiettivo di federare i popoli europei nell’ottica di una co-partecipazione agli affari pubblici.

L’Europa ha bisogno di una prospettiva internazionale per rifondare la democrazia in Europa su altre basi rispetto a quelle neoliberali, non per combattere per la sovranità dello stato-nazione.

La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista - Pierre Dardot,Christian Laval - copertina

La nuova ragione del mondo  — scritta a quattro mani

“Com’è possibile che nonostante le catastrofiche ripercussioni cui hanno portato le politiche neoliberiste, queste ultime siano sempre più attive, al punto da precipitare interi Stati e società in crisi politiche e regressioni sociali sempre peggiori? Com’è possibile che, negli ultimi trent’anni, queste stesse politiche si siano sviluppate e approfondite senza aver incontrato resistenze sufficienti a metterle in crisi? La risposta non può ridursi alla descrizione dei semplici aspetti “negativi” delle politiche neoliberiste, ovvero alla distruzione programmata delle regolamentazioni e delle istituzioni. Il neoliberismo non è semplice distruzione regolativa, istituzionale, giuridica, è almeno altrettanto produzione di un certo tipo di relazioni sociali, di forme di vita, di soggettività.

Detto altrimenti, con il neoliberismo ciò che è in gioco è né più né meno la forma della nostra esistenza, cioè il modo in cui siamo portati a comportarci, a relazionarci agli altri e a noi stessi. Il neoliberismo definisce una precisa forma di vita nelle società occidentali e in quelle società che hanno scelto di seguire le prime sul cammino della cosiddetta “modernità”. Questa norma impone a ognuno di vivere in un universo di competizione generalizzata, prescrive alle popolazioni di scatenare le une contro le altre una guerra economica.

 

Pierre Dardot è ricercatore al laboratorio Sophiapol dell’Università di Parigi Ovest-Nanterre e professore nelle «classes préparatoires» a Parigi.

Christian Laval insegna sociologia all’Università di Parigi Ovest Nanterre La Défense. Insieme hanno scritto «Marx, prénom: Karl» (Gallimard), «La nuova ragione del mondo», «Del comune», «Guerra alla democrazia», pubblicati in Italia da DeriveApprodi.

Insieme a El Mouhoub Mouhoud, Dardot e Laval hanno scritto «Sauver Marx?: Empire, multitude, travail immatériel» (La Découverte) nato dai lavori del gruppo di studio «Question Marx».

Di Christian Laval è disponibile in italiano «Marx combattente», (manifestolibri). Specialista del pensiero utilitarista e liberale, Laval ha scritto tra l’altro «L’Homme économique » (Gallimard).

 

 

EM Mouhoud wikipedia.jpg

El-Mouhoub Mouhoud (noto anche come EM Mouhoud ), nato ildi Tifrit n’ath Oumalek , in Algeria, è un economista francese.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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1 risposta a Pierre Dardot e Christian Laval — IL MANIFESTO — 2 LUGLIO 2017 ( 2° )  + 28 GENNAIO 2017 ( 1° ) di ROBERTO CICCARELLI

  1. DONATELLA scrive:

    Mi pare che il momento politico che stiamo vivendo sia ben descritto e approfondito da questi studiosi.

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