IL FATTO QUOTIDIANO — 4 APRILE 2023
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La democrazia militarizzata
DAL ’14-18 A OGGI – Con il XX secolo si auspicava che una parte e l’altra smettessero di combattersi giustificandolo come guerra “indispensabile, giusta, patriottica”. Ma a cedere alle armi, poi, fu sempre più la politica
DI SERGIO ROMANO
Per molti secoli i protagonisti di una guerra furono combattenti spesso mercenari o reclutati con la forza nelle campagne, i loro comandanti e i loro sovrani.
Ma dopo le guerre napoleoniche, l’origine e la formazione di un capo supremo, i grandi progressi nella fabbricazione delle armi, l’istituzione in molti Paesi dell’obbligo di leva e i moti rivoluzionari crearono un mondo in cui i protagonisti di una guerra furono le nazioni e i loro popoli, mentre il numero dei caduti sul campo di battaglia cresceva esponenzialmente.
Nel XIX secolo il teatro dei conflitti in Europa fu spesso l’Italia con le sue guerre d’indipendenza. A Solferino, in Lombardia, il 24 giugno 1859, le forze piemontesi e quelle francesi, rapidamente riunite dal grande progresso dei mezzi di trasporto, fecero fronte all’esercito austriaco su un campo di battaglia in cui i morti, tra i franco-piemontesi, furono 1.622 e 8.530 i feriti; mentre 2.292 erano i morti e 8.638 i feriti nel campo degli austriaci. Vi fu un testimone svizzero, Jean-Henri Dunant, noto anche come Henry Dunant. Era un commerciante ed era arrivato nella zona del conflitto per proporre l’acquisto della sua mercanzia. Era un uomo d’affari, ma divenne un missionario della pace. Fortemente colpito dall’orribile spettacolo di quello che fu definito un macello, tornò in patria e dedicò la sua vita alla creazione di un Comitato internazionale della Croce rossa e della Mezzaluna rossa.
Era una iniziativa doppiamente umanitaria, un progetto internazionale che aveva il grande merito di giovare a tutti i popoli europei e contemporaneamente alla pacifica convivenza delle due maggiori confessioni religiose dell’umanità (cristiana e musulmana). Sembrò un passo decisivo verso un mondo dominato dalla pace, ma non impedì, poco meno di sessant’anni dopo, che quasi tutti i popoli bianchi, dalle Americhe alla Russia e ai Balcani, dall’Alaska al Mediterraneo, si scontrassero per una guerra ancora più tragicamente sanguinosa. Le vittime, fra il 1914 e il 1918, furono quasi 37 milioni, più di 16 milioni i morti, e più di 20 milioni i feriti e i mutilati, militari e civili. È una cifra che fa della Grande guerra uno dei più sanguinosi conflitti della storia umana.
Non è sorprendente che dopo la sua fine, si cominciasse ad auspicare l’avvento di un’epoca in cui gli Stati avrebbero smesso di farsi guerre che i combattenti dei due campi giustificavano definendole “giuste, indispensabili e patriottiche”. Ma le due bombe atomiche gettate da un aereo americano su Hiroshima il 6 agosto 1945 e su Nagasaki tre giorni dopo furono patriottiche soltanto per gli americani. Per il resto del mondo furono la battaglia più breve e più sanguinosa mai combattuta nella storia. Le due esplosioni provocarono la morte di 200.000 persone, per non parlare delle vittime difficilmente calcolabili che morirono per radiazioni nei mesi successivi.
Gli Stati Uniti avrebbero vinto la loro guerra contro il Giappone probabilmente anche senza ricorrere a quei massacri; ma avevano altri obiettivi. Volevano incutere terrore, dare una prova della propria forza, verificare gli effetti di un’arma ancora mal conosciuta e vendicare teatralmente Pearl Harbor, il bombardamento giapponese della flotta americana avvenuto il 7 dicembre 1941 nella baia di un’isola che appartiene all’arcipelago delle Hawaii. Mai prima di allora la politica aveva usato a un tale punto, per raggiungere i suoi scopi, il brutale linguaggio delle armi. Tornammo ai tempi della Europa medioevale quando gli eserciti, dopo avere conquistato la città del nemico, ne uccidevano tutti gli abitanti; ma, rispetto al passato, con una sconcertante moltiplicazione delle vittime.
Le guerre del XX secolo crearono nuovi ceti sociali. Entrò in scena anzitutto, fra le nuove professioni, quella del reduce e quella del veterano, persone che continuavano ad avere, anche nella vita civile, la mentalità del combattente. Ma la categoria dei nuovi arrivati comprende anche gli invalidi, le vedove di guerra, gli orfani.
Appare così nella società una nuova comunità delusa, frustrata e nostalgica che reclama il pubblico riconoscimento dei propri meriti e dei propri sacrifici (non solo medaglie ma anche indennizzi, pensioni, una più visibile e onorevole presenza nella vita sociale).
Ed entrano in scena, contemporaneamente, politici spregiudicati pronti a comandare questi nuovi reggimenti composti di malcontenti e rivoluzionari frustrati. E tutto questo accade in una società dove minoranze ambiziose hanno letto Marx, Engels, Mazzini e altri testi profetici. Benito Mussolini, fondatore di un giornale molto popolare, Il Popolo d’Italia, oscilla continuamente fra socialismo e reducismo, ma è sempre, comunque, pronto a comandare queste nuove milizie.
L’economia, nel frattempo, non può sottrarsi ai frequenti contraccolpi delle crisi economiche. La guerra non ha soltanto distrutto. Ha anche creato una nuova industria, soprattutto meccanica, più grande e produttiva; ma anche una economia spregiudicata che dopo le sue operazioni e i suoi affari si lascia alle spalle speranze deluse, disastrosi fallimenti e un proletariato irrequieto.
Le ricadute politiche del conflitto colpiscono tutti i Paesi, ma in modo particolare quelli che hanno combattuto, sono stati sconfitti e hanno un grande numero di reduci che chiedono, talora con violenza, di essere riconosciuti e indennizzati. In questo clima politico appaiono anche i riformatori e i nuovi profeti. Il presidente americano Woodrow Wilson riassume in 14 punti le sue nuove regole della politica internazionale e promuove la nascita di un grande club mondiale, la Società delle nazioni.
Altri concepiscono nuove imprese come quella di D’Annunzio a Fiume e la Marcia su Roma di Benito Mussolini alla testa di una nuova milizia composta dai suoi seguaci, ma anche da nuovi protagonisti. Il 27 febbraio 1933 Adolf Hitler approfitta dell’incendio del Reichstag (…) per attribuirne la responsabilità ai comunisti e abolire le istituzioni democratiche della Repubblica di Weimar. Vladimir Lenin, capo del Partito comunista russo, approfitta delle difficoltà militari del suo Paese nel 1917 per accendere i fuochi della rivoluzione bolscevica. Comunismo, fascismo e nazismo dettano le nuove regole della vita politica. (…) Queste continue divisioni sociali ebbero l’effetto di provocare in molti Paesi (ma soprattutto in Germania, in Italia e più tardi in Spagna) una guerra civile. In Italia vi fu un sanguinoso scontro fra socialisti, comunisti e fascisti con “azioni dirette” per eliminare l’avversario e “spedizioni punitive” per distruggere gli edifici pubblici delle città che erano amministrate dal partito nemico. La borghesia, dal canto suo, spalleggiava e finanziava i movimenti che sembravano maggiormente rispettare i suoi interessi. Era questo il momento in cui il governo presieduto da un liberale, Luigi Facta, avrebbe dovuto intervenire e proclamare lo stato d’assedio. Intervenne, in effetti, e non esitò a preparare la legge che lo avrebbe proclamato e a chiedere la firma del re. Ma quando andò al Quirinale, alle 8:30 del mattino del 28 ottobre 1922, con il decreto che annunciava lo stato d’assedio, Vittorio Emanuele III rifiutò di firmare.
Preferì invitare Benito Mussolini (uno dei maggiori responsabili di quella grande crisi nazionale) ad assumere la carica di presidente del Consiglio. (…) Molti anni dopo, il 26 gennaio 1941, il re fece una confidenza al suo capo di Stato maggiore, il generale Paolo Puntoni: “Nei momenti tutti sono capaci di criticare e di soffiare sul fuoco. Pochi o nessuno sono quelli che osano prendere decisioni nette e assumersi gravi responsabilità. Nel ’22 ho dovuto chiamare al governo quella gente [i fascisti] perché tutti gli altri, chi in un modo, chi in un altro, mi hanno abbandonato. Per quarantotto ore io in persona ho dovuto dare ordini, dare ordini direttamente al questore e al comandante del corpo d’armata, perché gli italiani non si ammazzassero fra loro”. Altri, quasi sempre per difendere Vittorio Emanuele, dissero che la convocazione di Mussolini al Quirinale era già stata suggerita al re da altre autorevoli persone (fra cui Luigi Albertini, direttore del Corriere della Sera). Sono affermazioni difficilmente verificabili. Ma lo storico d’oggi non può comunque ignorare che quella era l’opinione di molti esponenti della vita pubblica italiana. Questo lungo dopoguerra terminerà fra l’autunno del 1939 e la primavera del 1940, quando scoppierà la Seconda guerra mondiale.
La guerra, in se stessa, è il male assoluto. Oltre ai morti e ai feriti, provoca odi che sono destinati a durare secoli. Ogni guerra ne provoca altre, quasi all’infinito. Dovrebbe diventare un tabù e le controversie essere governate da una commissione internazionale. Chissà se mai l’umanità arriverà a qualche soluzione ragionevole.