“A DISTANZA DOVUTA”
BOCCIONI
C’è “il prima e il dopo”, sembra semplice, ma sono fatti che cambiano la vita. Luoghi, affetti, piccoli o grandi sentimenti che trascinano avanti e trasformano la nostra esistenza. In questo palazzo, nei cinque piani che lo compongono, nei dieci appartamenti, due per ogni piano, che salgono fino al tetto, molte cose sono accadute.
Mia nipote mi dice che ormai faccio parte dei muri di questo stabile: della costruzione stessa, dell’androne, del cortile, delle scale, del vecchio ascensore.
– Sono sicura, zia Matilde, che tu non andrai mai via da questa casa, ne sono certa.-
– Sì, suppongo anch’io. – le rispondo – ma perché dovrei andarmene? –
Ho passato tutta la vita qui e ho tanto da raccontare di tutto quello che è successo: andirivieni di famiglie, solitudini, unioni e rotture, nascite e morti, vite vissute . . . tutte persone che hanno amato o aspettato l’amore e poi hanno pianto, pianto tanto.
E’ così che penso al “prima e dopo”, al tempo che passa . . .
e so che i muri delle abitazioni possono diventare gabbie di una prigione oppure pareti che ondeggiano e crollano per aprire spazi liberi, boschi, campi, grandi praterie. Spesso non c’è volontà dietro questo “prima e dopo”, non c’è intenzione, c’è solo una lotta per fermarlo, ma un’inutile lotta. Tutto procede e avanza in silenzio senza dare alcuna importanza alle persone, né al loro sentire, anzi, “ il prima e il dopo” li travolge e spesso li deprime, li umilia e li deforma. E’ cosi che, nel suo cammino pesante “il prima e il dopo” calpesta le attese e i desideri come inutili e stupidi ciuffi d’erba divorati dalla prima capra di passaggio.
Dora le avrebbe bruciate le mura del suo appartamento, pareti che respiravano e conoscevano tutto del suo vicino. Dora era arrivata dal sud per la cattedra di lettere all’Istituto Magistrale di piazza Ascoli, primo incarico dopo gli studi a Catania. Saverio invece era nato qui, lo conoscevo bene, molto bene. Posso ricordare come si muoveva in casa o in ufficio e ancora oggi conosco e immagino tutti i suoi gesti. Un ragazzo riservato e doveroso, aveva superato a fatica l’ultimo anno di ragioneria e io lo avevo aiutato; mi è sempre piaciuto studiare, anche per la mia Agenzia di Pubblicità, non facevo che leggere e inventare nuove formule. La sua famiglia, i Nociti, avevano abitato da sempre in questo palazzo e alla morte della madre, una donna molto religiosa, era rimasto lui, unico figlio. Se n’è andato per ultimo da questa casa, un mese dopo la partenza di Dora. Saverio non sapeva bene come lasciarsi andare alla vita, una sorta di paura di vivere lo tratteneva da ogni impeto spontaneo, forse per questo, ma non solo per questo, si atteneva a un codice di comportamento corretto, diciamo così, che lo rassicurava e contemporaneamente gli impediva ogni esuberanza.
Era seduto alla scrivania, dove passava molte ore della giornata, quando ricevette il primo biglietto di Dora e subito cominciò a sudare. Lo rilesse almeno cinque volte, mentre si accarezzava i baffetti incerti, in fase di crescita, e racchiudeva il contorno delle labbra tra l’indice e il pollice della mano destra, senza riuscire a controllare bene il movimento per via di un leggero tremore sopraggiunto. Il biglietto giallino, di carta riciclata, formato 16 x 12, portava nell’angolo sinistro in alto un piccolo cespuglio di rose dipinte ad acquerello e ripetute in basso a destra.
“ Genti.mo Sig. Nociti,
le porgo i più sentiti auguri di buon compleanno e colgo l’occasione per dirle che sono lieta di essere sua vicina di casa e di incontrarla tutte le mattine.
Spero di poter proseguire la nostra conoscenza così che possa diventare un’amicizia affettuosa. Dora
P.S. Le piacciono le rose? Le ho raccolte per lei. . . “
Si alzò all’istante, aprì il cassetto, s’impadronì del correttore e prese a cancellare l’ultima frase prima del P.S. passando il liquido prima in una direzione poi nell’altra.
– Ecco fatto – disse – la . . .cosa. . .è . . .sistemata. . . – ripeté ad alta voce scandendo bene le parole e nascose il biglietto sotto le bollette già pagate.
Il mattino successivo non ricordava più l’episodio, ma passando nell’atrio di casa gli sembrò di rivedere quel biglietto scritto vicino all’ascensore, al posto dell’avviso dell’azienda elettrica e ugualmente sulle gambe della signora “Malizia” (lingerie e calze) appesa in formato gigante sul muro del palazzo di fronte al suo ufficio.
Quella mattina si sedette in gran fretta e riprese il lavoro interrotto il giorno prima al capitolo merci conto-vendita, ma ben presto si accorse di non riuscire a far quadrare i conti a causa dei numeri che parevano saltare con gran disinvoltura da una riga all’altra. Con sospetto controllò la sedia alzandosi e passando una mano sul sedile, subito dopo prese a ravviarsi i capelli, a controllare la cravatta e il bottone ben chiuso, ma quel disagio non lo abbandonava, anzi lo prese a tal punto che quando il collega Guardabassi gli rivolse il saluto, egli ebbe la spiacevole sensazione che sapesse tutto di lui, anche delle sue cose più intime, sì . . . le più intime, come degli indumenti della pelle per esempio. Quel pensiero lo fece arrossire, già perché non usava gli slip come gli uomini della sua età, ma usava le mutande alte. E quando la segretaria entrò per consegnargli le cartelle firmate, sentì l’elastico stringergli la vita così forte che uno sbuffo sibilante gli uscì di soppiatto dalle labbra.
“Nulla di più sgradevole . . .” rimuginò scivolando sotto la scrivania tra un colpo di tosse e l’altro. Poco importava se quei comportamenti grotteschi lo impacciavano o se quelle strane fantasie sembravano perseguitarlo, egli conduceva la sua vita come se nulla fosse accaduto.
Questo era “ il dopo” di Saverio, del “prima” non c’era più traccia. Era ormai seppellito tra i lembi degli anni, se pur pochi, e il ragazzo non era più capace di riconoscerlo, né di ritrovarlo. Rimaneva solo un disagio di cui lui stesso non capiva la ragione, abituato a nascondere o meglio a non porre attenzione alle emozioni che lo attraversavano. Solo disturbi . . . noiosi turbamenti da tenere lontano.
-Buon giorno signorina Desiati.-
– Buon giorno signor Nociti.
– Sono le otto in punto. – commentava Saverio sollevando appena il lembo della giacca per vedere l’orologio – siamo sempre puntuali – precisava soddisfatto.
Si preparava per tempo al mattino, per le otto meno cinque, poi attendeva dietro la porta e non appena sentiva uscire Dora si presentava sul pianerottolo sorridente.
– Ha trascorso una buona notte? – le domandava sollecito.
– Abbastanza, grazie, purtroppo però mi sveglio sempre prima che albeggi e poi fatico a riaddormentarmi. – si passava una mano sulla fronte e socchiudeva gli occhi.
– Non deve pensarci troppo, io ho dormito come un sasso e ho già fatto la mia ginnastica mattutina.-
Spalancava la finestra della camera, spostava l’ometto sul quale riponeva gli abiti ogni sera, spingeva il comodino contro il muro ed eseguiva i soliti esercizi ginnici per venti minuti circa numerandoli con accento deciso. Dora conosceva bene tutti i movimenti e i tempi impiegati e si preparava seguendo i ritmi cadenzati della voce. Dopo i trenta piegamenti iniziava la colazione, durante le flessioni a terra era tempo di lavarsi e al momento della corsa sul posto si affrettava a scegliere gli abiti da indossare.
– Comincia a far freddo al mattino, io sto bene solo d’estate, quando sono in vacanza. – sospirava la ragazza appesa alla maniglia mobile del tram 24. – Quante passeggiate su quelle spiagge candide. . . di sabbia corallina . . .- alzava lo sguardo sognante e guardava lontano.
– E’ mai andata al lavoro a piedi? Quella sì che è una bella passeggiata! Era il 13 Aprile dello scorso anno, ho impiegato esattamente 47 minuti, per lei sarebbe meno, perché scende prima, ma senz’altro non saranno meno di 25/30 minuti . –
– Ma ecco la piazza Maria Adelaide, sono arrivata. –
– Le auguro una buona giornata! – sbottò Saverio con voce tonante.
Quell’incontro mattutino profumava di acqua di colonia alla lavanda e gli ricordava il bianco e il fresco incresparsi delle lenzuola nel letto. A conti fatti era una cosa conveniente, lo faceva star bene e prima di tutto si accordava perfettamente con le buone abitudini quotidiane, ma solo a quelle doveva appartenere e non altrimenti.
Di fatto poi strabordava a sua insaputa e invadeva ogni rivolo della sua giornata come un canale ricolmo. Non a caso infatti quando alle 10,30 addentava la brioche imbevuta di cappuccino, gli tornava alla mente quello stare vicini gomito a gomito sul tram, quel chiacchierare di niente guardando fuori dal finestrino e inevitabilmente si sporcava i baffetti di dolce schiuma al cacao. Con gesto fulmineo si asciugava la bocca fingendo un improvviso attacco di raffreddore.
– Oggi non ci sono a pranzo, ecch!ch! . . . è venerdì – recuperava prontamente.
Proprio al venerdì la signorina Desiati faceva la spesa al supermercato biologico durante l’intervallo di pranzo e anche quel venerdì egli rinunciò alla mensa. Salì sull’autobus 92, si sistemò per bene vicino al conducente e impugnò il ferro davanti a sé proprio come se dovesse decollare in partenza per le vacanze. Con tutta calma si tolse gli occhiali, li sostituì con quelli da sole e sebbene non fosse una bella giornata non li tolse per tutto il viaggio. Atterrò in viale delle Rimembranze, attraversò di corsa i giardini, al volo, canticchiando e rincorrendo i piccioni, proseguì sul viale aggirando gli aceri e sollevando le foglie secche con i piedi. Giunto sul posto percorse rapidamente tutti i corridoi sbirciando oltre i detersivi impilati a colonne e tra le banane appese all’albero metallico, la vide in lontananza e d’istinto si ritrasse dietro il bancone dei surgelati. Prese fiato, passò in rassegna i capelli, i baffi, il colletto della camicia, la cravatta, quindi si avvicinò cautamente.
– Anche lei qui a fare la spesa?-
– Oh signor Nociti che piacere vederla!-
Lo portava nel reparto di macrobiotica, gli spiegava l’importanza di un’alimentazione integrale, dilungandosi sui valori nutritivi della soia e compiacendosi di essere riuscita a eliminare completamente la carne, sostituendola con prodotti vegetali e latticini. Saverio la guardava preoccupato, con occhi severi fra le sopracciglia aggrottate e gli occhiali.
– Dunque lei non mangia carne . . .?! esplose in un suono che sembrava un ruggito. – Ecco perché è sempre così pallida . . . – mosse la testa in segno di diniego, poi allargò le braccia e con tono declamatorio sentenziò:- Una bella bistecca al sangue, ricca di proteine nobili, è sempre il miglior nutrimento!-
Dora si strinse nelle spalle, incrociò le braccia e fece un passo indietro torcendo la bocca per il disgusto. Poi improvvisamente si girò verso di lui e lo abbracciò come per perdonarlo e subito lo baciò di qua e di là, sfiorandogli le labbra nel passare da una guancia all’altra. Un tumulto interno gli salì fino alle orecchie colorando di rosso fuoco tutto il viso.
Pensando a Saverio, mi prende un senso di pietà e di rabbia allo stesso tempo. Spesso nelle sue parole veniva a galla quel “prima” impacciato, persino un po’ ridicolo, ma saldo sui pilastri dell’educazione. Un processo “a togliere” (non piangere, non essere debole, non ti commuovere) che poneva le emozioni sotto controllo perché considerate femminili, segni di debolezza e di stupidaggine. Dopo anni di sottrazioni era quello il modello eroico dell’uomo forte? Nessuna traccia dell’equilibrio e dell’astuzia di Odisseo o dell’esuberanza e dell’audacia di Achille. Saverio era un piccolo camaleonte impaurito che immaginava di essere forte come un drago.
Si aggirava per la stanza come un puledro preso al laccio, sventolando la lettera per aria, contro il soffitto e fermandosi a tratti per rileggerne alcuni frammenti. Le maledizioni gli saltavano in gola soffocate da una tosse stizzosa che gli riempiva gli occhi di lacrime così che le varie imprecazioni parevano galleggiare in un mare burrascoso. A stento raggiunse il divano e appoggiandosi in malo modo riuscì a ripiegare il foglio e a riportarlo nella busta. Un sospiro di sollievo accompagnò l’abbandonarsi sui cuscini con gli occhi chiusi e una mano ben stretta sulla fronte, come a contenere la febbre.
Tolse le scarpe e si coricò, ma non rimase a lungo in quella posizione perché una nausea ingrata lo ricondusse in posizione verticale. Un senso di sazietà gli riempiva la bocca di un memorabile pasticcio di fegato ancora fumante sulla tavola, un ricordo crudele e il tentativo di trangugiare anche l’ultimo boccone di quel nauseante dono materno lo fece quasi soffocare.
Con forza si batté il petto per tre volte e come di rimbalzo gli uscì dal profondo dello stomaco un singulto acuto del tutto simile a uno scoppio sfrenato di ilarità. Si affrettò a bere sette sorsi d’acqua trattenendo il respiro, quindi riprese la busta, estrasse la lettera e rilesse da capo.
“ Gent.mo Saverio,
mi permetto di scriverle e di chiamarla per nome data la nostra conoscenza ormai di tre mesi e soprattutto per la nostra vicinanza che mi pare abbia creato una certa familiarità tra noi.
Vivo sola, come lei ben sa, o meglio in compagnia delle mie incertezze e dei miei disagi e assediata da mille impegni quotidiani che mi occupano e mi ingombrano il tempo. Abitare così vicino a lei e vederla tutti i giorni non é solo un sollievo alla mia solitudine, ma anche una gioia tanto attesa, quanto limitata a momenti troppo brevi e frettolosi. Come un evento naturale lei è entrato nei miei pensieri e con il beneficio di chi ha prenotato il posto da tempo non ha disdegnato di sedersi in prima fila e di condividere una sorta di comunicazione segreta, ma intensa che ha alimentato uno stato d’animo di simpatia, anzi di affezione, desideroso ormai di svelarsi. Quante volte ho letto sul suo viso le stesse intenzioni, anche se nulla si lascia intendere dalle parole, né dai gesti. Forse l’educazione che ha ricevuto non le permette alcuna confidenza? Capisco . . . dunque sarò io a cominciare, senza disturbarla spero, con misura e con garbo.
Desidero parlarle di tante cose: del mio lavoro, dei miei viaggi, del mio paese nativo e desidero anche ascoltare tutto ciò che lei vorrà raccontarmi. Le confesso che io già la ascolto dietro queste pareti e la immagino seduto allo scrittoio, mentre risponde al telefono e davanti allo specchio quando si rade o adagiato in poltrona davanti alla televisione la sera, di ritorno dal lavoro e spesso penso di esserle vicino così che non sarei stupita, girando lo sguardo, di vederla qui, accanto a me. Quando al mattino sento la sua voce risonante celebrare il nuovo giorno come se volesse scuotere dal sonno tutto il palazzo, mi torna in mente il collegio, la campanella, la preghiera e la voce ferma della suora che invitava ad alzarci in fretta, senza indugiare nel letto, luogo di rilassatezze e di possibili tentazioni. Anche la sua voce è un invito ad alzarmi, ma è ben più convincente di quella del ricordo e giunge gradita a ridestare ogni assopimento.
“Poiché non so quando l’alba arriverà
apro tutte le Porte,
abbia essa le Penne, come un Uccello.
o Frangenti, come una Riva? Emily Dickinson
Un saluto affettuoso Dora”
Non faceva che sbattere le palpebre a gran velocità e chiudere gli occhi con forza di tanto in tanto, come se si trovasse nel punto centrale di una perturbazione atmosferica di sabbia e di vento. Senza trovare rifugio procedeva a testa bassa, ricurvo sulla schiena. Il fazzoletto sulla bocca per tacitare la tosse che gli gonfiava il naso corrugando la pelle fino alla fronte increspata da immaginazioni pericolose . . . una comunicazione segreta . . . una familiarità di sentimenti . . . una gioia intensa . . .
Una congettura insidiosa pensava mentre i pensieri pungenti affondavano i loro aculei in profondità nel suo cuore.
D’un tratto si fermò e dopo essersi asciugato il viso e riassettato i capelli, prese la scala, raggiunse il ripostiglio sopra la porta d’ingresso, aprì la scatola delle vecchie fotografie della scuola, di sua madre, del viaggio a Parigi e vi inserì la lettera.
“ Confidenze . . . familiarità . . . intimità . . . un gioco da bambini . . .” borbottava ancora in piedi sull’ultimo scalino, con la testa dentro lo stambugio e la fronte appoggiata alla fotografia del mare. Quell’immagine, incollata sulla scatola, lo trascinò lungo il viottolo di fronte alle spiagge, nella pozza d’acqua che si formava sempre dopo i temporali, dentro la buca calda e melmosa dove stava per ore con la sua amica dalle trecce bionde. Ridevano insudiciati fino ai capelli e rotolavano palle di fango che, schiacciate nel palmo della mano, diventavano scodelle perfettamente concave, pronte per essere riempite di saliva e lanciate contro il muretto…“Ciac” uno schiocco secco, come un bacio a bocca aperta. “Un gioco da bambini . . .” Continuava a rimbrottare mentre i fumi di vapore della vasca da bagno lo avvolgevano in una nebbia fitta, gli aumentavano la traspirazione del corpo e lo facevano sentire sudaticcio, quasi inzaccherato.
“ Un bel bagno caldo è quello che ci vuole per lavar via ogni inganno fastidio congettura.” Pensò ad alta voce.
Non so cosa possa impedire a un uomo di amare, di abbracciare, di aprire il cuore e di lasciarsi prendere dall’amore. No, non lo capisco, non l’ho mai capito e mi pare che tutta la mia vita sia girata intorno a questo problema . . . forse la vita di tutti. Molte volte ho cercato giustificazioni, ho pensato alla semplice paura di perdersi e di non potersi più ritrovare, come se il calore di un abbraccio potesse sciogliere l’impasto di sangue e cuore senza poi avere il modo di ritrovarne il controllo. Gli amori, quelli veri esistono solo nei romanzi o nei film. Allora penso a Florentino ah, ah, ah . . . lui sì che sapeva amare . . . Florentino è il protagonista di “L’amore ai tempi del colera”. Un amore senza fine che perdura 50 anni senza mai cedere. Le sue parole sono rossosangue: “la fiamma dell’amore mi ha colpito e brucio senza rimedio; lei è una spina piantata dentro di me, è parte di me ovunque io vada e ovunque lei si trovi.”
Sono convinta che anche Saverio conoscesse l’amore, ma era un sentimento imprigionato dentro il suo corpo, un tormento che non poteva trovare una via d’uscita. Forse lui sapeva che l’amore lo avrebbe investito come uno tzunami; che l’amore non dà pace, ma insonnia; che l’amore è vita elevata a potenza e forse per questo lo fuggiva e ne aveva grande paura.
-Buon giorno Saverio, è in ritardo questa mattina, non deve andare al lavoro oggi? Se non l’avessi chiamata io per tempo . . .- Si nascondeva dietro la porta nella speranza di non incontrarla, ma Dora bussava con insistenza finché era costretto a uscire. – Ha trascorso una buona notte? –
– Non molto. – rispondeva a bassa voce. Non alzava gli occhi su di lei per non vedere il nuovo soprabito rosso e non sorprendersi delle labbra morbide di Dora pitturate con il rossetto dello stesso colore. Guardava altrove, crucciato, come chi si sente offeso per il tradimento di un amico, al quale aveva confidato un segreto, o forse vittima di un complotto che lo voleva alla berlina, là in piazza, esposto al pubblico oltraggio, appeso come un malfattore sotto il Portico di S. Lazzaro.
– Venga a sedersi, qui c’è posto! –
– No grazie, preferisco stare in piedi.- rifiutava l’invito con un filo di voce, celandosi dietro una signora corpulenta che lo schiacciava contro l’impermeabile bagnato del vicino. Odorava di stracci sporchi quell’uomo, un lezzo che di sorpresa lo riportava al passato e non si spiegava perché da qualche tempo gli odori lo perseguitassero così come i ricordi. Non erano che memorie stupide, ma erano diventate particolarmente vivide: le preghiere recitate con la madre, estenuanti, nel buio freddo della chiesa, i pomeriggi noiosi con lo zio Giovanni che lo portava in giro per il quartiere e non faceva che parlare di donne e della passione per il Cirano di Bergerac, e poi la famosa traversata del fiume in piena, diventata un’impresa valorosa di famiglia. Gli parve proprio di approdare a riva quel pomeriggio di febbraio in cui rincasò alle 13,30 per “rinnovo locali”.
Il sole sopra i tetti dei palazzi illuminava tutta la stanza ed egli, seduto vicino alla finestra, poteva godere pienamente di quel tepore e pareva trarne beneficio come se incamerasse nuove provviste termiche per l’inverno.
“Come sto bene” si ripeteva. “Passerò un bellissimo weekend tranquillo e rilassato.” Aprì la prima e la seconda finestra e sul vetro, opaco dalla polvere della strada, apparve, come un assalto, l’immagine di Dora. Richiuse di colpo, arretrò e rimase assorto per qualche secondo, poi con grande attenzione dischiuse ancora l’infisso e allargò la finestra in fuori fino al punto in cui il raggio d’incidenza si rifletteva di rimando in un’immagine perfetta. Era proprio Dora in piedi, vicino al letto: gesticolava, alzava le braccia, si piegava, lasciava cadere qualcosa per terra. Un pensiero impudico divampò nei suoi occhi. Una strana luce rischiarò il suo viso, come un’idea luminosa. Corse nell’altra stanza e a precipizio ritornò con il binocolo sul naso, ma l’immagine era già sparita.
“Perché e perché” mi chiedeva Dora con il viso pieno di lacrime. Veniva a trovarmi nella speranza che io le dessi la chiave di accesso al cuore di Saverio. Non volevo deluderla, né darle troppa speranza. Sapevo che il cuore di Saverio era foderato di mediocrità e d’impedimento. Lui stesso non sapeva, non capiva, non aveva coraggio per capire, se ne stava rinchiuso nel suo guscio come un animale ferito. Dora lo avrebbe salvato? Forse . . . era una donna generosa e appassionata, non voleva vivere al risparmio e neppure con il rimpianto di scelte non fatte e di parole non dette. Si spingeva avanti e non voleva assolutamente rinunciare, ma osare e ancora azzardare nuovi tentativi. Così decise di scrivere una terza lettera.
Curvo sui cassetti semiaperti della scrivania rovistava tra le carte sotto-sopra, apriva le cartelle una alla volta, sfogliava i libri più voluminosi e ancora frugava tra i fogli ammonticchiati sul tavolo, tastava alla rinfusa alla ricerca del tagliacarte, scomparso dal suo posto usuale. Era ancora in pigiama, con la barba da fare e i capelli scomposti quando sentì suonare il campanello e a malincuore raccolse la lettera scivolata sotto la fessura della porta. “L’Appassionata” di Beethoven accompagnò il suo gesto e la musica era così forte e chiara che egli si piegò in avanti e lanciò un’occhiata di controllo alle luci dello stereo, poi alla pendola che ondeggiava tra le 9 e le 9,5 e alzando gli occhi al cielo mandò un gran sospiro.
“Oggi è domenica, e sì. Una maledetta domenica!” sbraitava e ancora rovistava nel cestino zeppo di carta straccia e con andatura a quattro zampe ispezionava i bordi del tappeto volgendosi sempre indietro nella speranza che quell’arnese potesse saltar fuori da un momento all’altro. Perse le speranze si sedette al centro del pavimento e guardandosi intorno non poté fare a meno di chiedersi perché da qualche tempo le cose non stavano più al loro posto. Rinunciando a ogni possibile spiegazione sfilò dal taschino del pigiama la lima per le unghie e aprì la lettera.
Un affanno impetuoso lo colpì al petto e sembrò riempirgli la testa di una schiuma densa di fumo. Rimase fermo, immobile, girava gli occhi in ogni direzione senza muovere la testa, come se si trovasse di fronte a un pericolo, forse un dirupo vertiginoso nel quale inevitabilmente sarebbe precipitato .
– Accidenti si soffoca qua dentro – balbettò facendosi vento con la busta, poi si tolse gli occhiali, li pulì con il lembo del pigiama, prese fiato e cominciò a leggere.
– Carissimo Saverio, – scorse velocemente la prima, poi la seconda pagina come se cercasse qualcosa
– ecco, ecco qua l’ha scritto, proprio alla fine, anche questo ha scritto: – Gli uomini lo chiamano Amore che vola, Alato gli Dei, perché fa crescere le ali – due colpi di tosse lo costrinsero a fermarsi mentre lo sguardo cercava ancora tra le righe – allora potrei stringere le tue mani tra le mie – e più sopra – un vento favorevole ha liberato il cielo così che ora vedo lontano oltre l’orizzonte e sento il richiamo della Chimera bussare alla mia porta con l’ostinazione del sogno. Tutto è possibile ora! – e ancora sopra . . .- Cosa ti è accaduto? . . . se tendo l’orecchio non sento più il tuo respiro oltre il muro . . . –
Ripiegò il capo pesante e grosso sul petto e con gesto trepido prese a strofinarsi le guance, la fronte con quel foglio e con l’altro, stringendoli sul viso con le mani aperte e strofinandoli con movimenti sempre più larghi sui capelli, sul collo, sulle spalle e via via per tutto il corpo. Sorrideva alle carezze di carta, rideva a bocca aperta alle lusinghe delle sue mani e subito dopo serrava i denti e tendeva le labbra e le orecchie come un felino in agguato.
Un suono lungo e cupo, simile a un ululato, si levò contro il soffitto con la violenza di un’imprecazione. Si girò verso la parete che divideva il suo appartamento da quello di Dora e imprecò nuovamente, quindi si lasciò cadere e iniziò la recitazione di Cyrano quando Rossana è alla finestra, la parte che lo zio Giovanni gli ripeteva sempre.
– . . Se la parola è dolce, che sarà mai la cosa? Baciarti! Che cosa?- si asciugò le labbra schiumose con il dorso della mano e proseguì: – Ma poi cos’è un bacio? . . . un segreto detto sulla bocca, un istante d’infinito che ha il fruscio di un’ape tra le piante . . . un’assaporare l’anima a fior di labbra. . . – di nuovo si asciugò la bocca e cominciò a deglutire spalancando la mandibola nel tentativo di liberare le vie respiratorie arse da un fuoco che a ritmo regolare si accendeva in rossori, sternuti e colpi di tosse.
A sobbalzi raggiunse la camera per bere un po’ di sciroppo e coricarsi sul letto. Era l’unico rimedio per superare il momento convulsivo e ben presto si addormentò.
In quei giorni Saverio mi guardava con gli occhi di un bambino. Avrei voluto spingerlo a decidere per un sì. Un giorno gli dissi – dille di sì, potresti pentirti per tutta la vita se le rispondi di no. – Se una donna decide e vuole un uomo, non c’è ostacolo che possa fermarla, né considerazione morale o altro e Dora aveva deciso. Lui non voleva pensarci troppo, anzi per niente. E dopo un paio di giorni lo vidi ritornare così come era: risoluto nel suo vivere stretto e misero
Era la mattina di Pasqua quando di colpo aprì gli occhi e di gran lena rifece per bene il letto, si lavò i denti, si pettinò i baffetti e prese a riordinare la casa. Ogni cosa ritrovò il suo posto, anche il tagliacarte nel suo astuccio di finta pelle. Tornò in camera per vestirsi e si ripresentò davanti alla finestra della sala con una valigetta in mano. Accostò il tavolo e vi pose sopra il bagaglio. Con due “clac” simultanei si presentarono allineati su due file strumenti da fotografo e ottico allo stesso tempo. Cilindri di ottone, un cannocchiale fornito di raddrizzatore di immagine e di adattatore fotografico, due sistemi di prismi ottici, lenti semplici e piano convesse. Da un settore a parte giunsero altre consegne: viti, gomiti snodabili, attrezzi diversi, una serie di pezzi di metallo, uno spray detergente e una pelle di daino. A gambe aperte prese posto il treppiede con maniglia blocca movimento in dotazione, perfettamente al centro della finestra e dopo averlo regolato alla giusta altezza diede inizio al montaggio. Passò tutta la mattina a sistemare l’attrezzatura che presentava un braccio ad angolo perfettamente regolato fuori dalla sua finestra di circa 20 centimetri.
– Perfetto, è perfetto! – si congratulava strofinandosi le mani. – Le misure sono perfette, le angolature ineccepibili. E’ un capolavoro! – Un’ultima ispezione all’attrezzo con revisione sopra, sotto, di lato, di fuori e con piena soddisfazione prese posto al tavolo, con uno spruzzo generoso lucidò l’oculare e vi accostò il sopracciglio. Era proprio Dora, in piedi vicino al letto: gesticolava, alzava le braccia, si piegava, lasciava cadere qualcosa per terra, si rialzava . . . si spogliava . . . una vampata di fuoco gli incendiò il viso . . .
BOCCIONI
Nessuno si accorse del sotterfugio, in nessun modo, se non nel cambiamento di Saverio che era diventato improvvisamente adulto, imperturbabile e sicuro, come un uomo che può ingannare senza sentirsi colpevole. Quando penso a loro il mio cuore diventa pesante, carico di una grande tristezza. Una specie di dolore e di nostalgia per le cose che non sono accadute e si sono perse per sempre, le cose che sembrano speranze e invece sono inganni. “Perché e perché” mi chiedeva ancora Dora il giorno prima di andarsene. Non so il perché, vedo solo “il prima e il dopo” che procede nel suo cammino. Le cose che promettono cieli, mari, grandi strade nel mondo e sono invece muri insuperabili.
Bello e triste il racconto.
Amaro racconto sull’amore, desiderio cocente nell’anima, ma mai, o quasi mai, appagato.
“Un prima e un dopo” carico di penosa delusione. Un “prima e un dopo” che rimane senza una esauriente e soddisfacente risposta. Una nuvola nera sopra il campo di battaglia della vita.
Desiderio che aspetta, aspetta una realizzazione che non avviene, almeno per l’autore.
Per tutti noi c’è “un prima e un dopo” che se non ci cambia la vita, sicuramente ci cambia lo sguardo, l’ottica con cui osservare e/o interpretare i fatti.
Testo più ampio nella struttura, puntuale nella descrizione di gesti, sensazioni, riflessioni interiori.
Intreccio di pensieri, di domande dei tre protagonisti: Saverio, Dora , l’autore e di Matilde.
Saverio è in fuga da un tormento, da una richiesta troppo alta per le sue possibilità, per la sua mente che sa solo strutturare la sua vita in base a un ordine predefinito e immutabile. Niente tsunami. Il controllo delle sue emozioni e conseguentemente delle sue azioni per non “sentire” è ben raccontato.
A lui sta bene il suo vivere misero e stretto.
A Dora rimangono i suoi “perché” e un buco nel cuore.
Saverio era un piccolo camaleonte impaurito che immaginava di essere forte come un drago, buon per lui sentirsi un drago e non una formica…come drago salva se stesso.
Grazie Ivana del tuo commento,
certo, sono d’accordo con te, c’è sempre un modo per salvare noi stessi . . .sto bene così . . .non mi interessa . . .questa è la mia vita . . .sono fatto così . . .ed è questa la nostra difesa. Per questo Saverio non ha il coraggio di aprire il cuore, deve salvare la propria immagine.
Ma c’è di più, Saverio mette in atto un sotterfugio per poter appagare il proprio desiderio senza rischiare. Questo lo squalifica, questo lo svela come “un uomo che può ingannare senza sentirsi colpevole”. Un atteggiamento molto comune di chi usa le situazioni a proprio vantaggio, senza neppure sporcarsi le mani.
Metterei Saverio nel girone degli ignavi, le persone che perdono la vita per paura di viverla.
Non mi sono soffermata sul sotterfugio, E’ vero, un sotterfugio è un po’ come”rubare l’anima” dell’altro, è disonesto. Il punto è che si dovrebbe avere la consapevolezza e il coraggio di stare alla larga da persone del genere…A dovuta distanza, appunto.
Se insistiamo a stare in situazioni che producono sofferenza, disullusione, amarezza la responsabilità è anche nostra. Il gioco è a due, se io non rispondo, l’altro non può giocare. C’è la beata ignoranza, ma anche la beata illusione!
Viva l’amore! Risata
I due personaggi principali sono efficacemente caraterizzati nel loro approccio alla vita e nella loro difficoltà a sviluppare relazioni valide che la rendano apprezzabile.
Sono agli estremi, lei, (a cui va tutta la mia simpatia) con dolcezza e, direi quasi con tenerezza , insegue un sogno che si infrange contro un muro ; lui si dimostra assolutamente incapace di aprire, anche minimamente, quella porta che forse potrebbe salvarlo da una esistenza apparentemente tranquilla, ma totalmente vuota, inutile.
Questo racconto, per il lettore è un pò un pugno nello stomaco perchèà lo costringe a pensare ai tanti casi simili con cui è venuto in contatto nel corso della vita:
senza giungere agli estremi di questi due personaggi , si pensi agli anonimi condomini della vita cittadina dove ci si saluta con i vicini di pianerottolo con appena un cenno del capo o a realtà opposte di piccoli centri dove fra cascine confinanti viene diligentemente coltivato un rigoglioso cespuglio divisorio.
Questo senza considerare tutte le volte in cui noi stessi , nelle relazioni personali, abbiamo rinunciato a occasioni magari impegnative per adagiarci in soluzioni apparentemente senza rischio. perdendo così opportunitè che poi siamo costretti a rimpiangere.
Saverio lasciamolo in questo racconto pago delle sue ossrvazioni nel cannochiale,
invece inviterei MGP a sviluppare ulteriormente in un prossimo racconto il personaggio di Dora, facendocela conoscere meglio. E’ molto interessante questa donna del sud che si trova per lavoro in un ambiente in cui fa fatica a inserirsi e che, alla fine, sconfitta, è quasi costreta a abbandonare.
E’ una donna che ha il coraggio di intraprendere una iniziativa difficile e che non si perde d’animo alle prime sconfitte, ma che poi deve cedere solo dopo che si è rersa conto della impossibilità di scalfire la corazza di Saverio.
Si, aspeto un seguito incentrato su Dora, dolce eroina del racconto!
ho trovato il tuo commento molto interessante perché dà spiragli di comprensione e ci mette nell’attesa di un nuovo racconto, aggiungerei, non solo di Dora, ma anche di un Saverio magari più o meno felicemente sposato, o comunque cambiato– avendo trovato una donna che gli lascia più tempo e più fiato. Cosa ne dici? O per te ( come temo per l’autrice ), è irrimediabilmente ” perduto “. Ciao caro Giovanni, ho un bel ricordo di te, e avrei piacere di rivederti e parlare di nuovo un po’ insieme, chiara
Mi dispiace, ma per me Saverio è irrimediabilmente perso : da come si presenta nel racconto non è certo giovanissimo e non si sposerà, ha sostituito la””donna” reale con una immagine molto meno invadente e più riposante; è ormai avviato ad essere un tipico “zitello”. Ne ho conosciuti tanti così!
Cara Chiara, anche a me farebbe piacere rincontrarti . A fine marzo spero di venire a Sanremo.
Belli i nostri commenti . . . e grazie a Giovanni per l’invito a proseguire con il personaggio di Dora. Una donna lanciata nella vita con grande intenzione di riuscire, di emanciparsi, di amare e di non rinunciare ai propri sogni. In pieno contrasto con Saverio (come tu dici) un uomo che pare senza coraggio, chiuso in una vita limitata e impedito a uscirne, malgrado forse il desiderio di farlo. Un uomo che pensa solo a conservare se stesso così come è, approfittando di una situazione che offre buone chances senza nessun rischio.
Due prototipi: il femminile e il maschile visti con l’occhio un po’ cinico di Matilde, una donna di una certa età che vede oltre le circostanze e legge i pregiudizi incarnati nella mente e nel cuore da secoli e divenuti ormai inamovibili. Un femminile un po’ troppo dolce e indulgente e un maschile che sa come salvarsi anche senza scrupoli morali.
Che dire,è triste pensare che il mondo ormai sia pieno di questi personaggi senza
coraggio paghi di una vita misera ,senza amore, destinata alla solitudine .
La vecchiaia sara’ il momento di riflessione su il prima e il dopo; è miserrimo poi
l’utilizzo del cannocchiale che sembra sufficiente a pagare le sue esigenze e rende
maggiore la sua incapacita’ di aprire le porte ad una nuova esistenza non piu’ vuota ed inutile. Sono ammirato dai commenti fatti a cui niente di piu’ si puo’ aggiungere.
Brava!
Grazie Giancarlo,
anche il tuo commento è bello e utile per una nuova riflessione. La vecchiaia forse porterà Saverio e riflettere sulla sua vita che rimarrà vuota e inutile (come tu dici) ma i suoi ripensamenti, se ci saranno, arriveranno troppo tardi. Quel prima pieno di speranze, di possibili cambiamenti e di appassionate avventure avrà lasciato il posto al dopo inesorabile del tempo che non fa sconti a nessuno.
Un bel commento Gianca, grazie.