” Lezione di Yoda “, Lucio Caracciolo –Editoriale del numero di Limes 11/22, America? –LIMESONLINE DEL 9 DICEMBRE 2022 – / + interessante la prima parte e meno lunga–

 

 

LIMESONLINE DEL 9 DICEMBRE 2022
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Editoriale del numero di Limes 11/22, America?

 

Lezione di Yoda — ( funzionario americano, vedi sotto )

 

 

 

 

Carta di Laura Canali – 2022

 

Editoriale del numero di Limes 11/22, America?

 

Pubblicato in: AMERICA? – n°11 – 2022

1. Gli Stati Uniti d’America sono impero di tre imperi. 

 

Il primo è il nucleo statale dilagato nel continente nordamericanodall’Atlantico al Pacifico.

Il secondo è l’Occidente: the WestTrofeo conquistato nella seconda guerra mondiale, congiunge al magnete statunitense Nord America ed Europa atlantica mentre variamente si estende a Oceania, Giappone, Corea del Sud e minori Asie per affinità strategiche, economiche e istituzionali (liberaldemocrazia più rule of law – norme della legge ).

Il terzo è metafisico: la missione che Dio ha affidato all’eletta «Comunità altruistica» – l’«unselfish Commonwealth» cantata nel 1916 da Woodrow Wilson, presidente e sacerdote dell’America in uscita – affinché redimesse l’umanità dai suoi peccati( 1 nota.) Insieme, innervano l’intero pianeta e lo Spazio circumterrestre in tutte le dimensioni fisiche, virtuali e spirituali.

Né escludono un quarto impero, l’immensità del cosmo, verso cui s’indirizzano le ambizioni di disinibiti pionieri connessi alle agenzie imperiali.

 


L’impero americano non ha paragoni nella storia universale. Non se ne conoscono altri dotati dei quattro caratteri speciali che insieme congiurano a profilare la sua costellazione geopolitica: informalità, inclusività, strapotenza militare ed economica, illimitatezza.

Forse solo Roma, riferimento dei Padri fondatori, capace di vestire da repubblica il suo impero – capolavoro del padre fondatore Ottaviano Augusto – però inscritta nel mobile limes. Vincolo impossibile per l’America, prevalente su Terra perché dominante sui mari dell’Oceano Mondo, circuito indelimitabile per definizione. La talassocrazia è globale o non è (carta a colori 1).

 


Dei carismi statunitensi decisivo il primo: informalità. Gli Stati Uniti sono ma non si dichiarano impero. Non tanto perché sorti dalla ribellione di coloni insofferenti del morso inglese, narrazione portante della pedagogia nazionale oggi contestata dal geopoliticamente corretto, per cui gli eroi della rivoluzione erano banda di schiavisti razzisti. Il rifiuto della forma imperii deriva dalla sacralità dell’individuo. Gli americani sono collettività centrata sulla libertà del singolo. Non sulla religione dell’impero, meno ancora sulla sua gestione, privilegio della minima casta strategica e dell’esuberante apparato militare. Le istituzioni sono costituzionalmente intese al servizio dell’individuo, quindi plurime e in permanente conflitto virtuale che nelle crisi esplode reale. Il tempo le ha rese elefantiache e autoreferenziali.

 


L’idealtipo dell’americano resta il pioniere che abbandona terra e storia familiare per riscoprirsi libero e innocente nello sconfinato continente che Provvidenza gli ha serbato intonso, a disposizione del suo progetto di vita. Se non fosse per il distacco che l’homo americanus prova per la politica, dovrebbe ammettersi anarchico nato. Con il fucile al piede per proteggersi dalle intrusioni di quel poco di Stato cui l’obbliga il partecipare d’una comunità. La tensione fra potere pubblico e libero individuo è la cifra del miracolo americano e delle sue ricorrenti crisi. Violente perché non mediate da cultura politica condivisa. A meno di non considerare tale l’apolitica.

 


Carta di Laura Canali - 2022

Carta di Laura Canali – 2022


 

Questa entità suprema si sente in pericolo di vita. Non solo per classica sovraesposizione territoriale, malattia professionale degli imperi. Né tanto per minaccia di sfidanti, nessuno dei quali – Cina inclusa – avvicina l’America nei quattro parametri decisivi, neanche in uno. No. Il pericolo è la fusione del nocciolo.

Dentro gli Stati Uniti d’America la temperatura sale fino a eroderne legature morali, sociali e istituzionali. Investe e dilania il fattore umano, alfa e omega del convivere. Eccitate dai media asociali, le pulsioni apocalittiche impresse nel genoma americano dal fondamentalismo protestante delle origini e replicate nella corrente deriva nichilista intaccano l’impero interno (carta 1). Fiorisce una letteratura da ultimo giorno che ricama ossessiva sulla guerra civile all’orizzonte, se non già in corso.

 


Carta di Laura Canali - 2022

Carta di Laura Canali – 2022


 

L’America dubita di essere ancora America. I trumpisti sono certi che non lo sia. Make America Great Again ( fare l’America di nuovo grande ) significa Make America America Again.

 


Quando la nazione che non si vuole impero smette di riconoscersi una, s’avvia a perdere sé stessa e il suo mondo. La crisi del primo impero investe il secondo – tra cui noi, affezionata provincia – e oscura il marchio. L’impero non è indispensabile alla nazione. La nazione sì è indispensabile all’impero. Senza marchio ambedue periscono.

 


2. Per leggere la traiettoria dell’America conviene partire dall’impero interno. Sovvertiamo il procedimento pseudo-analitico che considera gli Stati Uniti motore immobile, costante che si relaziona a periferiche variabili dipendenti. E misura il primato a stelle e strisce in rapporto ai suoi nemici: Cina, Russia e quanti altri lo sfidano nel mondo. La dialettica fra le tre dimensioni dell’impero ha una sua gerarchia. È dalla testa che partono, non partono o si confondono gli impulsi che agiscono il colosso imperiale (carte a colori 2 – in apertura – e 3). Lo stato degli Stati Uniti non è statico. Oggi meno di ieri, perché la crisi d’identità della nazione investe il senso stesso del governo federale, sinonimo di Stato centrale, mentre esalta i particolarismi degli Stati federati, financo delle contee.

Per la prima volta da quando l’America è impero sono contemporaneamente in questione i suoi tre imperi. Siccome a gridarlo sono gli americani stessi, meglio prenderli sul serio (tabella). Novità sconvolgente per noi provinciali nati, cresciuti e piacevolmente impigriti al sole dell’abbagliante marchio a stelle e strisce. Ma nel mondo che cambia è regola non adattarsi alle regole. Obbligatorio «pensare fuori dalla scatola», idiomatismo americano cui volentieri ci aggrappiamo mentre soffia vento di tempesta. Tradotto: la logica vigente non vige più. Serve l’illogico, quello che domani, nel nuovo paradigma geopolitico in gestazione, sarà mainstream. Se due più due può fare cinque, meglio rivolgersi agli specialisti. Ai russi.

 

 


Carta di Laura Canali - 2022

Carta di Laura Canali – 2022


 

Igor’ Nikolaevič Panarin, chi era costui? Ex agente del Kgb, ebbe il suo quarto d’ora di celebrità nel 1998 quando predisse la disintegrazione degli Stati Uniti nel 2010. Siccome Panarin amava la precisione, specificò che l’evento sarebbe occorso tra fine giugno e inizio luglio, tempo dei castelli di sabbia 2. Causa scatenante, la guerra civile scoppiata per il rifiuto degli Stati più ricchi di contribuire al bilancio federale. Profittando del caos, potenze straniere si sarebbero spartite le spoglie dell’America. Messico e Canada avrebbero sfondato da sud e nord, attestandosi lungo la linea Colorado-Illinois, la Cina avrebbe preso la costa pacifica, con l’Unione Europea padrona dell’atlantica (sic). Eravamo al quinto anno di Limes – lattanti della geopolitica – e la Cassandra russa ci mise allegria. Oggi seriosi laboratori strategici statunitensi, echeggiati da media d’ogni colore, trattano guerra civile e disfacimento della patria quale scenario plausibile, financo probabile.

Per alcuni desiderabile. Bright Line Watch, sigla che affratella augusti politologi incurvati dall’incubo della finis Americae, prende la temperatura all’opinione pubblica disegnando cinque nuovi Stati eruttati dall’implosione degli Usa – Pacifico, Montagna, Heartland, Nord-Est e Sud – simili all’immaginifica partizione di Panarin, al netto dell’occupazione straniera. Il rilevamento del giugno 2021 indica che il 37% degli intervistati vuole la secessione, con punte nel Sud, dove due repubblicani su tre sognano i Confederated States of America 2.0. Riedizione della lega fra gli Stati schiavisti battezzata nel 1861, origine della (prima?) guerra civile 3.

 


Favoriti dalla distanza, cerchiamo di obbedire al precetto per cui quanto più la disputa geopolitica è calda tanto più siamo obbligati alla freddezza. Ma saremmo sconsiderati se mentre tutto è in discussione restassimo prigionieri del presente. È il momento di defamiliarizzarci. Letteralmente, emanciparci da ciò che ci è familiare e rischia di obnubilarci mentre la storia prende a correre. Per interpretarla occorre scartare le verità ricevute, irricevibili perché scadute. Accumulate in tempo altro, ostacolano lo sguardo sul presente accelerato.

 

 

Ancora i russi. Stavolta convochiamo i formalisti che un secolo fa, tra San Pietroburgo e Mosca, scoprirono che il linguaggio dell’arte serve a mantenere fresco il nostro sguardo sulle cose.

Contro l’abitudine, che automatizza le nostre percezioni. E ci priva del privilegio di stupirci, dunque di cogliere il nuovo dove invece, per tranquillità d’animo, amiamo vedere l’eterno ritorno del noto. L’analogia è il nemico segreto di ogni analista perché l’induce a rivedere nel presente solo l’altra forma del passato. Ne risulta percezione sfocata.

Stabilisce Viktor Borisovič Šklovskij in Arte come tecnica (1917) che l’automatismo dettato dall’abitudine – come quando chiacchierando lasciamo la frase in sospeso perché il finale scorre da sé – ci spinge a percepire l’oggetto quasi «ombra dalle estensioni imprecisate»: «La tecnica dell’arte è di rendere gli oggetti non familiari» 4. Sostituisci arte con geopolitica e hai il senso del nostro lavoro.

 


Nel caso, defamiliarizzarci significa disabituarci a considerare l’America stella fissa del firmamento geopolitico, come ci accade da tre generazioni. Dalla teologia torniamo alla storia. Riprendiamo la libertà di stupirci.

 


George Friedman, cui dobbiamo lo strepitoso preannuncio della tempesta in arrivo sul cielo dell’America, sembra invece inclinare alla familiarizzazione. Nulla di eccezionale. Tutto regolare. Il geniale fondatore di Geopolitical Futures inscrive il dramma che segnerà questo decennio americano nella sua scansione ciclica della storia a stelle e strisce (vedi l’intervista alle pp. 35-41) 5.

Per Friedman gli Stati Uniti sono caos formalizzato. I Padri fondatori hanno integrato la rivoluzione nell’istituzione. Gli attuali epigoni hanno elevato la tecnologia a soluzione di ogni possibile problema. Dal suo osservatorio texano il maestro del forecasting  ( previsione ) osserva la tempesta con sguardo postero. Leopardiano. Concluso questo ciclo, la quiete tornerà a illuminare la nazione indispensabile: «La tempesta in corso non è altro che la norma di questo tempo nella storia dell’America e delle nostre vite» 6.

 


Perché no? Lasciamoci stupire. E per meglio intendere la tempesta d’oggi, scendiamo nel tempo passato per coglierne origine e precedenti. Scopriremo che l’origine è consustanziale alla nascita degli Stati Uniti e il precedente massimo, la guerra di secessione del 1861-65, non è lo spartiacque che vulgata racconta. Semmai esplosione delle contraddizioni fondative dell’impero interno, nient’affatto risolte dal trionfo del Nord yankee sui dixie ribelli del Sud.

 


3. «La guerra civile è stata combattuta per stabilire se Stati Uniti fosse plurale o singolare» 7. 

La sentenza attribuita a Mark Twain è entrata nella vulgata americana. Il trauma del 1861-65 sanziona l’evoluzione dell’originaria unione di Stati sovrani, sancita nella Dichiarazione di indipendenza del 4 luglio 1776, in vera e propria nazione. Nella definizione scolpita a inizio Novecento dal grecista ed ex combattente sudista Basil Lanneau Gildersleeve: «Al cuore della guerra civile c’era una concordanza grammaticale: “Gli Stati Uniti sono”, diceva l’uno, “gli Stati Uniti è”, l’altro» 8. L’are
( sono ) dei confederati contro l’is ( è ) degli unionisti. Eufonia e rispetto della concordanza contro cacofonia della discordanza. Grammatica regolare contro grammatica mitopoietica. Lingua contro geopolitica. Vince geopolitica. Con beffardo sottotesto anti-inglese: caro re d’Inghilterra, vai a quel paese tu e il tuo King’s English. Lo sbrego ortografico canta la nascita dell’American English.

 


 

Gli Stati Uniti sono l’unico Stato al mondo che al nome plurale accorda il verbo singolare. Efficacissimo modo di evocare il latino del motto «e pluribus unum» («dai molti l’uno») che campeggia nello stemma nazionale. Strategia semantica adottata per dirimere nei simbolismi e nella pedagogia ufficiale la frizione tra Stati federati e Stato centrale. Esorcismo contro il separatismo latente che da sempre percorre gli Stati Uniti, cifra segreta della loro (sua) costituzione materiale. Noi italiani, come tutti i non americani del pianeta, siamo a malincuore costretti a violare tanto precetto, sicché l’is per noi si legge are e come tale lo traduciamo. Per ottusa disciplina grammaticale e perché ancora ci dolgono le dita non metaforicamente percosse dalla bacchetta della maestra elementare, vestale d’ortografia.

 


La disputa semantica riflette lo scopo di questo volume. Ci aiuta a indagare la maggiore o minore vena separatista diffusa negli Stati Uniti. L’archeologia della lingua è rivelatrice. Le collettività non parlano come mangiano, ma come apprendono a casa e nella prima età scolare. O come riapprendono quando la pedagogia nazionale si adegua ai mutamenti geopolitici dello spazio identitario di riferimento. Nel caso americano, scopriamo che la rottura epistemologica segnalata da Mark Twain, confermata da Gildersleeve e percolata ( filtrata ) nella storiografia corrente sulla guerra civile è ovviamente falsa. Ovviamente perché in un paese libero, fondato sull’idolatria dell’individuo, refrattario a ufficializzare una lingua nazionale, non si violenta l’idioma d’un colpo. Nemmeno di cannone. Falsa perché tanta forzatura si spiega solo con l’incertezza sulla propria identità, che induce a celarne o reprimerne la parte sconveniente. Già poco invidiabile quale condizione individuale, il dubbio sul sé collettivo implica incrinatura permanente nelle istituzioni quindi nella dinamica geopolitica di qualsiasi Stato. Figuriamoci della superpotenza a stelle e strisce.

 


 

La riduzione a uno del plurimo marchio statunitense è graduale, accidentata. Quasi perfettamente compiuta nel canone ufficiale, tuttora imperfetta specie nel parlato, come nell’idiomatico «these United States», plurale pronunciato il 20 gennaio 2009 dal pastore Joseph E. Lowery invocando la benedizione di Dio su Obama presidente inaugurato. Residuata in forma scritta nella burocrazia di alcune agenzie federali, specie se ambientale o poliziesca 9.

 

 


Il singolarismo tutela l’unità nazionale e anima progetti imperiali. Segnala agli immemori la persistenza della dottrina Monroe, non troppo virtuale estensione degli Stati Uniti al resto delle Americhe riunite. Così il presidente George W. Bush evoca nel 2005 «an Americas wholly free and democratic», dove il volutamente scorretto/geopoliticamente perfetto «un’Americhe» sta per Panamerica. Elargizione del miracolo statunitense al continente intero 10.

 

 


La guerra fra are is si combatte fino ai primi decenni del Novecento. Nel primo mezzo secolo della parabola americana non c’è storia. Il plurale domina assoluto nei documenti fondativi, dalla Dichiarazione d’indipendenza ai Federalist Papers alla costituzione. La radice dell’albero a stelle e strisce è confederale. La «prima costituzione» è (sono?) gli Articoli della Confederazione, adottati dal secondo Congresso continentale il 15 novembre 1777. Le tredici ex colonie si riconoscono Stati sovrani indipendenti, costituiscono una «robusta lega di amicizia» mentre serbano ogni potere non espressamente conferito agli Stati Uniti d’America. Non potendo raccogliere tasse né fissare politiche commerciali, tantomeno schierare un esercito degno del nome, la Confederazione si svela insostenibile. La prima crisi fra «centro» e «periferie» – determinanti le ultime, determinato l’esangue primo – è superata con la costituzione del 1789, voluta sopra tutti da James Hamilton e George Washington per scongiurare la scomparsa prematura di quell’invenzione unica nella storia umana. Nella Carta tuttora in vigore gli Stati Uniti vogliono sempre il plurale.

A conferma del fatto che la guerra di secessione non segna la svolta dal plurale al singolare, valga il Tredicesimo emendamento, ratificato il 6 dicembre 1865 a scontro concluso, che consacra la fine dello schiavismo, vietato «negli Stati Uniti o in ogni luogo soggetto alla loro (tondo nostro, n.d.r.) giurisdizione» 11. Ancora nel 1890, il filosofo John Fiske, cui si deve il conio del Destino manifesto, riconosce che «c’è voluto un bel po’ di tempo perché alcuni riconoscessero» il passaggio dalla confederazione alla federazione. E si duole che la lingua inglese non sappia nettamente distinguere i due modelli istituzionali, proponendo di tradurre dal tedesco. Nel gergo istituzionale germanico lo Staatenbund è unione di Stati sovrani, dunque non uno Stato, mentre il Bundesstaat è Stato federale sovrano. L’inventivo Fiske traduce il primo «Band-of-States», il secondo «Banded-State», per lui vigente dal 1789 12. Seguendo tale logica, non sarebbe stato saggio imporre al neonato il nome Federal Republic of America? Forse troppo logico. Troppo tedesco.

 


Ma il diritto con le sue golose schermaglie ermeneutiche non può fermare la storia. La dialettica fra confederalismo e federalismo, riflessa nell’opposizione di is e are, non è sedata, tantomeno risolta da manipolazioni geosemantiche. Per il dixie raziocinante di ieri e di oggi la costituzione resta confederalista: gli Stati non esprimono frazioni di una grande unione, sono parti di un’associazione. Nel 1868, l’ex vicepresidente della Confederazione Alexander H. Stephens spiega che la guerra civile non si è combattuta sulla «subordinazione degli Africani», è stata lo scontro «tra i sostenitori di un Governo strettamente Federativo e quelli di uno pienamente Nazionale» 13.

 


Troviamo tracce della rissa fra pluralisti e singolaristi in ogni istituzione del barocco arcipelago statunitense, ispirato all’idea che il governo serva a limitare sé stesso. Puntuto scrutinio delle sentenze della Corte suprema fra 1790 e 1919 conferma che il partito dell’are dribbla agilmente la boa della guerra civile e precipita solo a fine secolo, ma continua ultraminoritario a battersi fino al primo decennio del Novecento (grafico 1). Impenitente, la Corte suprema del terzo Stato secessionista, la Florida, apre ad oggi le sue sessioni al grido di «God save these United States, this great State of Florida, and this Honorable Court!». ( this, questo- singolare; these, plurale )

 


Il primo presidente degli Stati Uniti a scegliere il singolare nel discorso inaugurale è McKinley, nel 1901. L’ultimo dei mohicani dell’are è Harding (1921), se ammettiamo che lo slittamento di Reagan nel campo pluralista (1981) è verosimilmente accidentale. Il trattato internazionale che inaugura la moda dell’is è quello che nel 1898 sigilla la vittoria americana sui resti dell’impero di Spagna. Perfetta sintonia tra emancipazione statunitense dal vincolo continentale e affermazione dell’unità della potenza dilagante.

 


Il duello investe anche letteratura e carta stampata. C’è correlazione fra stretta unitaria del soggetto U.S.A. (marchio stampigliato nell’agosto 1776 dagli ex coloni sui barili di polvere da sparo) e diffusione dell’unitario is nei racconti pubblicati fra 1790 e 1875. Ma siamo lontani dalla standardizzazione, che si afferma solo nel Novecento 14. La partita scompiglia le pagine dei grandi giornali. Il 24 aprile 1887, la direzione del Washington Post risponde a certo J. M. McK., che protesta per un are improprio, attribuito a refuso: «Nossignore. Volevamo dire proprio quel che abbiamo detto. C’era un tempo quando degli Stati Uniti si parlava al plurale. (…) Ma la guerra ha cambiato tutto questo. La questione della grammatica è stata risolta una volta per tutte lungo la linea del fuoco fra Chesapeake e Sabine Pass. Non Wells o Green o Lindley Murray l’hanno sciolta, ma le sciabole di Sheridan, i moschetti di Sherman, l’artiglieria di Grant. (…) La resa del Signor Davis e del Generale Lee ha significato la transizione dal plurale al singolare. A prescindere da quel che possiamo aver pensato prima, ora per tutti noi è meglio dire “gli Stati Uniti è” – è una Nazione, per esempio» 15. Tardiva ma secca la replica indiretta dell’ex segretario di Stato John W. Foster all’insinuazione di J. M. McK., sul New York Times del 4 maggio 1901: «L’unicità del nostro Governo è stata proclamata ben prima che il primo colpo fosse sparato contro la bandiera che sventolava su Sumter (inizio della guerra civile, n.d.r.)». Già alla convenzione del 1787 il delegato della Pennsylvania James Wilson aveva dichiarato che «adottando questa Costituzione diventiamo una Nazione» 16.

 


Due secoli e mezzo dopo, la sentenza Wilson è sotto scrutinio. La strada che dall’are porta all’is non è a senso unico.

 


4. Durante la guerra civile il presidente Lincoln amava ripetere che sudisti e nordisti pregavano lo stesso Dio. E onoravano gli stessi Padri fondatori. Americani con due diverse idee d’America. Comunque esseri umani. Non così oggi, dove le fazioni in contrasto bollano il nemico come «l’altro», forse nemmeno umano. Tanto è l’odio tra blu e rossi, democratici e repubblicani – le due macrotribù in collisione nell’impero interno – da indurli a reprimere il più alto dei sentimenti, l’amore, se questo si applica a persona dell’altro colore. I matrimoni misti – o dovremmo battezzarli interrazziali? – fra rossi e blu sono precipitati al 3,6% dal 30% precedente all’avvento di Trump (2016), detonatore della tempesta 17. I due partiti classici, al meglio cartelli elettorali, sono punti di condensazione di due nazioni, peggio di due razze (il termine race, da noi proscritto o malamente reso in «etnia», permane nella neolingua burocratica americana oltre che nel parlar comune).

 


Lo spartiacque che distingue una nazione solidale da una in disfacimento è la percezione della realtà fondata su un alfabeto comune. Ci si divide su come gestire e dove indirizzare la collettività, non sul fatto che A sia A e non B. Politica suppone polis. La quale a sua volta implica laico credo condiviso. Costituzione materiale. L’American Creed ( credo americano ), fondato sul cristianesimo evangelico di matrice anglo poggiato sul suprematismo bianco, è la religione che ha partorito, nutrito e coltivato la nazione in questi due secoli e mezzo. La sua crisi è la crisi dei tre imperi. In casa, separa e oppone le mille tribù domestiche, pigramente rese nella bicromia rossoblù. Nella sfera esterna, riduce il campo magnetico a stelle e strisce, corrode il primato americano almeno nella versione soft. Quanto al marchio, se divide gli americani perché dovrebbe unire il mondo?

 


Nel vuoto della politica trionfa il «politicamente corretto». 

Virgolette d’obbligo, data la latitudine interpretativa che offusca il senso del politically correct. Originato nella sinistra americana degli anni Trenta per iniziativa della componente marxisteggiante. Scopo: denunciare e proscrivere espressioni deprecatorie di classe o razza, massime il nigger o negro da correggere in black. Esemplare il percorso di Dieci piccoli indiani, celeberrimo giallo della scrittrice inglese Agatha Christie apparso per la prima volta a Londra nel 1939 per i tipi del Collins Crime Club col titolo Ten Little Niggers, edulcorato nell’edizione americana con l’anodino And There Were None (1940), finalmente virato nel 1964 dai Pocket Books in Ten Little Indians. Politicamente corretto in America, solo diversamente razzista in Inghilterra, dove infatti il titolo originale sopravvive fino al 1985. Quando al numero 10 di Downing Street regna Thatcher e nessuno concepisce che al suo posto siederà un giorno un signore di origine indiana.

 


Negli ultimi anni, anche la destra ha coltivato il suo politicamente corretto, nient’altro che quello di sinistra rovesciato. Dove la correttezza è volutamente espressa in gergo scurrile, onde percuotere l’élite dei perbene. Il politically incorrect è l’altra faccia del politically correct. Con Trump è violentemente penetrato nei media, portatori di realtà inconciliabili: il mondo della Cnn non ha proprio nulla a che vedere con quello di Fox.

 

 


Lingua è potere. Alfabeto e vocabolario condiviso informano gruppi dotati di realtà specifica, protetta e ostile a chi la contesta. Il potere della e nella tribù deriva dalla condivisione della medesima idea di realtà. Quest’ultima è al servizio della setta che la venera. Ne fissa l’identità. Risultato: il partito conta più della realtà. Puro Lenin. Se il partito è progressista, sicché mentre insegue il sol dell’avvenire inciampa nelle repliche della storia, il politicamente corretto serve a correggere l’irrealtà del progetto certificandolo reale motu proprio – specialità un tempo bolscevica. Se reazionario, dunque agognando restaurare i bei tempi andati impatta la cogenza dell’esistente, ricorrerà al medesimo stratagemma semantico secondo modalità uguali e contrarie.

 


Il basso continuo della crisi d’identità americana è la manipolazione della realtà insita nel politicamente corretto e nelle reazioni che suscita. Due verità irriducibili a una. Il discorso pubblico perde la regola che lo consente. Ci si divide a partire da opposti valori identitari. Ci si parla solo fra membri della stessa tribù. Tutto il resto è silenzio. O urla.

 


Il discorso pubblico americano è fragore di due camere dell’eco. Nelle quali rimbombano, compresse e irriducibili, istanze locali e corporative, lobby religiose e sessuali, vocazioni eversive o bigotte. Più i benpensanti si sforzano di predicare la necessità di vivere in pace sotto lo stesso tetto, più gli ultrà blu e rossi cercano di costringere la nazione ad accettare i propri esclusivi progetti di vita, più le Americhe si dividono. Separandosi finiranno forse per sezionare sé stesse, precipitando il paese nella giungla hobbesiana dell’homo homini lupus? Dovremo ammettere America in Caoslandia? Di sicuro l’abolizione del principio di realtà, surrogato da «realtà» di parte – insomma: ideologie – non promette bene.

 


Carta di Laura Canali - 2022

Carta di Laura Canali – 2022

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Il catalogo delle faglie domestiche sviscerate in questo volume è impressionante per quantità e qualità. Solo le principali, con precedenza alle istanze rosse: campagne/metropoli (carta 2e grafici 2,3,4); nativisti/multiculturalisti; credenti/atei o agnostici (già un terzo della fu nazione iperreligiosa); bianchi/neri o variamente colorati; armi per tutti/per autorizzati; aborto vietato/libero; tasse lasche (nulle)/incisive (carta a colori 4). Sullo sfondo, demografie divergenti: nel Sud trumpista crescono in massima i giovani, nel Nord-Est del venerando establishment liberal proliferano riserve di anziani. Sull’arcipelago delle faglie incombe il macigno che rischia di franare sull’architettura a stelle e strisce: il rancore della classe media impoverita e umiliata da élite che percepisce transnazionali, dunque non americane, e consapevole che in un paio di decenni scadrà al rango di minoranza fra le altre.

 


Carta di Laura Canali - 2022

Carta di Laura Canali – 2022


 

La distribuzione territoriale delle due Americhe non può ridursi al colore elettorale degli Stati. La lente dell’analista scorge robuste isole blu in Stati rossi e viceversa. Il collasso del sistema difficilmente rispetterebbe i porosissimi confini degli Stati federati, molti dei quali, specie all’Ovest, disegnati con squadra e righello incrociando latitudine e longitudine.

 


Le guerre civili non si ripetono. Né rimano. Della prima l’esito finale fu il compromesso del 1877 – caso vuole servisse a dirimere la disputa su chi l’anno prima avesse vinto le elezioni presidenziali – che consentì al Sud di reggersi per il secolo successivo secondo leggi e costumi razzisti. La cifra dell’eventuale seconda sarebbe caos on steroids.

 


Il punto di flesso da cui potrebbe derivare la fine dell’ordine costituzionale sarebbe il tradimento delle Forze armate.Di gran lunga la più rispettata delle istituzioni. Se reparti militari contestassero l’insediamento del presidente eletto perché supposto fraudolento, scatterebbe crisi di regime. La rivoluzione colorata, tattica americana, si ritorcerebbe contro i suoi inventori. Ipotesi per niente peregrina. Oggi il 40% degli americani approverebbe un colpo di Stato militare per stroncare la «corruzione diffusa». In maggioranza repubblicani (54%), insieme a un terzo dei democratici (31%) 18.

 


Lo Stato profondo militare svolge wargames ( trame ) che studiano le conseguenze di un suo colpo di Stato – per prevenirlo, assicurano. L’assalto al Campidoglio dell’Epifania 2021 ha rivelato l’interpenetrazione fra milizie ribelli, Forze armate e polizie.In caso di rivolta armata i militari fedeli sarebbero chiamati a reprimerla con le armi. Controinsurrezione. Genere di operazioni in sé perdente, come confermato dal fallimento di tutte le guerre di controguerriglia combattute dagli Stati Uniti, ultime in Afghanistan e in Iraq. L’unico parallelo rintracciabile nella storia americana evoca l’occupazione nordista del Sud vinto. La legittima amministrazione del Nord si scontrò con la resistenza pacifica della popolazione e gli attentati di gruppi terroristici, quali Ku Klux Klan e White League. Fino a dover levare le tende con il compromesso del 1877, concedendo al Sud una Home Rule ( regola speciale ) di fatto e lasciandovi una tuttora vivissima scia di odio anti-Washington.

 


5. Gli Stati Uniti non sarebbero la superpotenza che sono se vi vigesse solo la costituzione formale.

Come ogni Stato che si rispetti, gli Usa dispongono di procedure informali che non rispondono alla legge ma alla ragion propria. Di Stato. Il più formale di questi strumenti è la rete dei servizi segreti. Qui la legittimità dei fini prevale sulla legalità dei mezzi 19. Sotto qualsiasi cielo e da sempre, la bussola dell’intelligence è o dovrebbe essere la salute dello Stato che serve. Regimi democratici o autocratici provvedono, giusti i rispettivi princìpi, ad attivare i controlli utili a impedire che i servizi servano sé stessi, o parte di sé, invece che l’interesse di Stato. Facile a statuirsi. La deviazione dal mandato istituzionale è rischio insito nel mestiere delle spie. In questo senso non esistono servizi deviati perché l’assenza di un vincolo di legalità sfoca il limes fra fedeltà e infedeltà allo Stato, dall’uso privato delle informazioni al tradimento a favore d’altra potenza. Alla fine dirime il potere politico del momento.

 


Ma siamo ancora nell’informalità relativa, ordinaria. Nelle crisi acute, scattano contromisure segrete che spesso sfuggono ai servizi segreti. Accade così che un gruppo di decisori – tecnicamente congiurati – decida di rappresentarsi protettore dell’interesse nazionale perché considera che altri decisori lo stiano minando. Nella tempesta americana questo è accaduto sotto Trump e potrebbe ripetersi.

 


 

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MYLES TAYLOR

 

Il 16 maggio 2023 uscirà Blowback (Contraccolpo), libro di Miles Taylor, già estensore di un articolo pubblicato anonimo dal New York Times il 5 settembre 2018 nel quale si autoproclamava parte della «resistenza» interna alla Casa Bianca di Trump. Taylor rivelava che «molti dei massimi dirigenti dell’amministrazione Trump lavorano diligentemente dall’interno per frustrare parte della sua agenda e delle sue peggiori inclinazioni. Lo so perché sono uno di loro». Dopo essersi diffuso sull’«amoralità» del presidente e sulle misure che i «resistenti» adottavano per sabotarne le presunte follie, stabiliva: «Questa non è opera del cosiddetto Stato profondo. Lo è dello Stato stabile (steady)» 20. A

ll’epoca il trentunenne Taylor, tuttavia definito «senior official» dal foglio liberal di fama onusto ( colmo di fama ), era vicecapo di gabinetto di Kirstjen Nielsen, segretario alla Sicurezza interna (Homeland Security). Dopo essersi autodenunciato nel 2020 quale autore dell’articolo non firmato, Taylor ha fondato il Forward Party, ennesimo tentativo di lanciare un terzo partito nello stagno del bipartitismo eternizzatoBlowback promette altre rivelazioni sulle malefatte di Trump, raccolte fra colleghi «resistenti», e annuncia un «piano attuabile da ogni americano per prevenire quella che potrebbe rivelarsi la più grande minaccia alla nostra democrazia»: una seconda amministrazione trumpiana, o trumpista (carta a colori 5) 21.

 

 


Carta di Laura Canali - 2022

Carta di Laura Canali – 2022


 

Taylor pone la questione che ci interessa. Possono gli Stati Uniti superare la tempesta, evitare la guerra civile e la disgregazione, grazie a invisibili meccanismi d’emergenza attivabili dall’interno del sistema?C’è del genio nell’autodefinizione di Taylor quale partigiano dello Steady State, non del famigerato Deep State contro cui Trump e associati inveiscono con ammirevole pertinacia. Abbassando le S abbiamo steady state, ovvero stato stazionario, termine con cui in dinamica quantistica si definisce uno stato a energia fissa. Stazionario poiché in assenza di perturbazioni esterne il sistema resta permanentemente nel suo stato. Se il sistema è (sono, per i sudisti inconcussi) gli Stati Uniti d’America, gli adepti dello stato stazionario sono i conservatori dello Stato. Salvatori della patria che operano nella più informale informalità. In segreto stretto. Oppure golpisti, visti dal presidente per loro golpista.

 


Lo Steady State è meccanismo latente che si attiva nelle emergenze. Non l’ha certo inventato il giovane Taylor. Scatta per iniziativa di tecnocrati autorevoli non per grado ma per funzione, protetti e sorvegliati da politici anche di altissimo rango, ignoti ad altrettanto potenti autorità legittime, presidente incluso. Serve a correggere, prima che degeneri, il caos della struttura costituzionale a stelle e strisce, concepita per proteggere gli individui dal governo, non per reggere una grande potenza.

Con a capo un presidente dagli scarsi poteri ma dall’enorme visibilità, moltiplicata dai media moderni. E siccome in Occidente, a differenza dell’Oriente, i capi parlano molto e ascoltano poco, una parola del presidente in più o in meno può far tremare le Borse o scatenare una guerra. Per correggere questo grave difetto di progettazione il sistema distilla lo Stato stabile.

 

 


Nel caso di Trump, si tratta(va) di contenere gli scatti di un leader imprevedibile, per Taylor «amorale». Può valere anche per presidenti gentiluomini, ma che per età, salute o altro non paiono del tutto affidabili a quella parte degli apparati e dei poteri formali che si intesta la sicurezza nazionale, sicché costruisce intorno al capo un’invisibile rete di protezione – talvolta costretta a rendersi visibile. È il caso di Joe Biden, la cui inclinazione alla gaffe non può migliorare col tempo.

 

 


Nulla al confronto di Ronald Reagan, attore politico di rara affabilità e simpatia, ma di cui apparati e collaboratori intimi temevano ignoranza, ingenuità e, sì, utopismo. L’uomo che dal 1981 al 1989 il Destino manifesto chiamò a presiedere e promuovere la vittoria sull’Unione Sovietica non sapeva quasi nulla di storia e trattava la Bibbia da riferimento operativo. Annuncio d’apocalissi imminente. Nelle parole sfuggite a Henry Kissinger durante una conferenza di storici, pensandosi off the record ( non registrato ):  «Quando parli a Reagan, ti capita di chiederti come sia potuto succedere che qualcuno abbia pensato che potesse fare il presidente, o anche il governatore. Ma voi storici dovete spiegare come un uomo così anti-intellettuale possa avere dominato la California per otto anni e Washington già per quasi sette» 22.

Parte della risposta sta nella domanda: il presidente non deve essere un intellettuale ma un decisore. Dotato del minimo apparato di conoscenze utile a decidere scegliendo fra le soluzioni offerte dagli apparati, che della sua decisione daranno interpretazione pratica. Refrattario al dubbio e al seminario permanente. L’altra parte sta nello Steady State allestito dal suo vice e successore, George H. Bush. Non importa quanto mosso da brama di scalare lo Studio Ovale, Bush attivò una cabala segreta per pilotare la politica estera e di sicurezza americana non avendone titolo. Già capo della Cia, diffidente del direttore in carica William Casey, Bush senior allestì nei primi anni Ottanta una squadra segreta che aggirava gli apparati della sicurezza nazionale, intelligence compresa, e la vigilanza del Congresso.

Nel frattempo i professionisti si occupavano di gestire il presidente con il metodo della «Goldilocks option» – opzione Riccioli d’Oro – la bimba della fiaba I tre orsi che aveva imparato ad apprezzare la zuppa giusta dopo essersi scottata con la bollente e aver scansato la fredda. A Reagan/Riccioli d’Oro si sottoponeva per prassi un foglio con tre opzioni in stampatello, alta bassa media, nella certezza che il capo avrebbe scelto l’ultima.

 


Fin qui l’ordinaria amministrazione. Per la straordinaria, in specie per le operazioni segrete,Bush si serviva di una struttura totalmente informale affidata in gran parte a ufficiali di Marina. A guidare questo ufficio per le operazioni speciali il brillante e fattivo viceammiraglio Arthur S. Moreau Jr., sommergibilista nucleare.

 

Arthur S. Moreau, Jr. - Wikidata

Arthur S. Moreau Jr.

 

«M» per gli intimi. Capo dai talenti eccezionali, considerato superiore da molti suoi superiori, godeva di peculiare influenza nei vertici di governo. Ai subordinati M offriva il seguente briefing: «Io rispondo al vicepresidente e voi fottitori di madre rispondete a me. L’agenzia non risponde a nessuno – non il presidente, non il Congresso, non il popolo americano». Assolutamente vietata ogni comunicazione con la Cia, per Moreau «un’organizzazione di pazzi che non si preoccupa delle conseguenze delle sue operazioni coperte». Fra Moreau e il vicepresidente due gradi di separazione, l’ammiraglio a riposo Daniel Murphy, capo di gabinetto di Bush, e Donald Gregg, suo consigliere per la Sicurezza nazionale. A questo ufficio sono attribuite almeno 35 covert operations. Tra cui qualche ruolo nell’Iran-Contra affair (1985-86), soprattutto nella sua fine. Operazione segreta, presto scoperta con grande scandalo mediatico e politico, intesa a scambiare forniture illecite di armi all’Iran con il rilascio di sette ostaggi statunitensi in mano ai guerriglieri libanesi di Ḥizbullāh.

 


A questa misteriosa entità, ignota fino al 2019 e tuttora protetta dallo scrutinio pubblico, va in buona quota ascritta la «scoperta» che l’Unione Sovietica non era affatto la mostruosa superpotenza descritta dalla Cia e cara al Pentagono per giustificare finanziamenti esagerati. La svolta offensiva nella guerra fredda, espressa da Star Wars – formidabile disinformazione che convinse Mosca della prossima capacità americana di fermare con uno scudo spaziale i suoi missili intercontinentali – matura infatti nella cabala di Bush-Moreau. Qui si smascherano le menzogne della Cia, impegnata a bollare «inganno» i samizdat clandestini dei dissidenti incistati negli sgabuzzini di Langley, che descrivevano l’Urss reale. Villaggio Potëmkin. Impotenza mascherata 23. Mentre Reagan scarabocchiava o si appisolava durante le riunioni e deliziava gli strateghi con barzellette – ricorrente quella sul giudice nero in Mississippi 24 – il futuro presidente Bush, con la squadra Moreau, sconvolgeva il paradigma della guerra fredda perché pensava di poterla vincere (carta 3). Si trattava di convincere i sovietici che gli americani avrebbero potuto rompere lo status quo della Mutually Assured Destruction (Mad) e sopravvivere a un primo attacco atomico rosso grazie allo scudo spaziale annunciato da Reagan il 23 marzo 1983, in cui i vertici militari del Pentagono non hanno mai creduto. Mosca sì. Nelle parole di un collaboratore di Moreau: «Volevamo che i russi credessero che avessimo rimosso la M da Mad». Rendendo inservibile la panoplia nucleare su cui l’Unione Sovietica poggiava la sua credibilità di superpotenza.

 


Carta di Laura Canali - 2022

Carta di Laura Canali – 2022


 

Sarebbe oggi possibile riattivare una cabala simile, potenzialmente dormiente in qualche angolo dello Steady State, per impedire a un presidente inaffidabile di compromettere la sicurezza degli Stati Uniti? Forse agisce mentre scriviamo. O forse no, perché ce ne sono troppe. Il caos destabilizza lo Stato stabile. Pensiamo alla molto informale furia con cui il capo degli Stati maggiori riuniti, generale Mark Milley, cercò di impedire che durante l’assalto al Campidoglio Trump potesse mettere mano ai codici nucleari. Ci vollero ore per accertarsi che l’arma definitiva fosse in sicurezza.


I venti di tempesta qualcosa di buono producono. Schiariscono l’aria. Scoprono le radici culturali della crisi americana. Chi vuole capire e contribuire a rimettere in carreggiata il Numero Uno, può. A una condizione: battere il regime dei tecnici che accelera la deriva dell’impero. E ravvivare il talento strategico disperso dall’idiocrazia degli esperti.

 


6. Dalla fine della guerra fredda gli Stati Uniti sono un mezzo in cerca di scopo. L’enorme potenza del mezzo implicherebbe scopo supremo: americanizzazione del mondo. Per il bene del mondo e dell’America. Fine della storia. Accade il contrario. Gli americani non sprizzano più energia missionaria e sono troppo indaffarati nel rimettere ordine in casa propria per pretendersi araldi di una Pax Americana Universalis. Il resto dell’umanità – oltre il 96% della specie – non invidia gli States come canonico ancora alla fine del secolo scorso, quando grattavi l’anti-americano e scoprivi il fanatico dell’American way of life.

 


Il clima a stelle e strisce segna bassa pressione interna per carenza di pressione esterna. Ne consegue allentamento dei vincoli d’ogni ordine e grado, dalla famiglia allo Stato agli «amici e alleati». Base e conseguenza della crisi è il declino culturale. Tradotto in geopolitica: l’incertezza strategica. Deriva alimentata dalla frammentazione degli apparati e viceversa. Spirale infinibile? In carenza di scopo condiviso – tipo impedire che i rossi mi entrino in casa e mi sovvertano la vita – si spezzano le legature fra e dentro comunità e istituzioni. Dalle università, corrotte dal politicamente corretto, allo Stato alias governo federale, dominato da tecnocrati specialisti del minimo disinteressati al fine del sistema in cui vagano come infeconde api operaie. C’è un modo infallibile per distinguere un gruppo di esperti da una squadra impegnata in un progetto collettivo: il prodotto dell’espertocrazia vale meno della somma delle sue parti, quello di squadra più.

 


Perfino lo Stato profondo ha perso il conto delle iperspecialistiche agenzie e sottoagenzie imperiali, visibili o segrete, in fiera contrapposizione con gli altri attori di un arcipelago incartografabile. Per tacere delle Forze armate,risorsa imperiale di prima e ultima istanza, demoralizzate dai vent’anni di perdute «guerre al terrore», equivalenti del tirar pugni alla cieca.

 


La diagnosi è semplice: manca il Nemico che in qualsiasi momento può distruggerti, che ti costringe a riunire le forze e fissare la rotta. Già proiettata verso l’esterno, la violenza che distingue l’americano medio si scatena dentro e contro il corpo della nazione. La terapia d’urgenza finora adottata consiste nel ridurre al minimo l’esposizione bellica. Operazione avviata nel 2007 sotto Bush figlio via presa d’atto di quanto insensata fosse l’avventura irachena, proseguita con Obama e Trump, completata da Biden e culminata nel ritiro dall’Afghanistan (letta al contrario, formidabile operazione di riarmo dei taliban con gli strumenti abbandonati dai G.I. in fuga). Ma l’America non è il Costa Rica. Qualcosa deve fare con il suo tremendo potenziale economico, tecnologico e militare, prima che gli si rivolti contro. Per esempio, dare uno scopo ai tecnici, esperti del quasi nulla e ignari di quasi tutto.

 


 

 

The Return of the Pentagon's Yoda – Foreign Policy

Andrew W. Marshall (13 settembre 1921 – 26 marzo 2019) è stato uno stratega della politica estera americana
segue : https://en.wikipedia.org/wiki/Andrew_Marshall_(foreign_policy_strategist)

 

 

C’era una volta l’Office of Net Assessment (Ona). E c’era Andrew W. Marshall, alias Yoda, suo mitico capo per 42 anni (1973-2015).

Abitava un modesto ufficio, al terzo piano del cerchio A, presso l’incrocio dei corridoi 9 e 10, tre minuti a piedi dallo studio del segretario alla Difesa, cui direttamente riportava. Affaccio sul cortile centrale – Ground Zero in pentagonese – perché si stimava che in caso di guerra un missile russo ne avrebbe vetrificato lo snack bar. Sulla porta blindata nessuna insegna, solo la sigla 3A932 e il bottone che ammette alla cava del sapere. Dentro, fra documenti classificati e cataste di libri delle più varie materie ammucchiati su tavoli ridotti a scaffali, mai più di 17 persone, molti i giovani. Nell’antro di Yoda – «The Boss» per i suoi – nessun computer, anche se fuori ufficio gli capitava di dare una mano a Herman Kahn alle prese con le simulazioni Monte Carlo sulla bomba atomica. A domanda, il laconico Marshall rispondeva, quando non poteva farne a meno: «Non entro mai nella Rete» 25. Poi, se di buon umore, soggiungeva che la tecnologia impedisce di cogliere la ratio politica della guerra. Marshall padroneggiava matematica alta e inferenza statistica bayesiana. Forse per questo se ne serviva il meno possibile.

 


L’Office of Net Assessment esiste tuttora, anche se qualcuno al Pentagono e dintorni pensa di chiuderlo. A dirigerlo James H. Baker, prima laurea in ingegneria elettrica, evoluto in esperto di analisi strategica a contatto con i vertici delle Forze armate. Baker non proviene dagli accoliti di Marshall, i St. Andrew’s Prep. E si vede. È un tecnico. Dunque preparato. Alcuni, persino al Congresso, lo accusano di deviare dai precetti di Yoda per concentrarsi sulle commissioni urgenti. Tattiche. Già, ma che cos’è – cos’era – il net assessment?

 


Se avessimo diretto questa domanda a Yoda ci avrebbe fulminato con i suoi occhi azzurri non filtrati dagli occhiali che sarebbero potuti appartenere al nonno (foto). A uno dei suoi freschi collaboratori, che gli chiedeva se per caso non stessero facendo geopolitica, rispose: «Taci. E lavora».

 


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Il net assessment non è definibile, nemmeno traducibile in italiano – alla fine «valutazione netta» è il modo più banale e meno scorretto di renderlo. Estrae l’utile netto (la valutazione) dall’incasso lordo (i dati). Dove la nettezza, o purezza, sta anche nell’indipendenza dalla burocrazia e dal potere militare e politico. Il net assessor secondo Marshall «pensa totalmente fuori dalla scatola del Pentagono» a profitto diretto del segretario alla Difesa, cui riporta. Infatti i documenti dell’Ona sono coperti da segreto, salvo rari casi. Dal potere Marshall non accettava raccomandazioni sui temi da studiare «perché corrompono l’analisi» – o se le accettava non l’ammetteva. Il compito dell’analista è diagnosticare problemi, non fornire soluzioni. Meglio una domanda rilevante ben posta che grandiose risposte a domande irrilevanti. Il campo d’indagine del canone Marshall è quello che il defunto segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, ammiratore di Yoda, battezzò «unknown unknonws» (sconosciuto, sconosciuti ). Ciò che non sappiamo di non sapere.

 


I princìpi, morali prima che professionali, del valutatore netto sono i seguenti.


Primo e decisivo. Il net assessment è relazionale, non autoreferenziale. Non puoi fare il valutatore netto di te stesso. L’obiettivo è la comparazione del rapporto di forza complessivo, non solo militare, fra te e il tuo opponente. Sforzandoti di pensare con la sua testa e sentire con il suo cuore. Per i primi dieci anni della direzione Marshall l’avversario è stato l’Unione Sovietica, da metà anni Ottanta in avanti la Cina. (Tra parentesi, non pare che il suo successore consideri centrale il pericolo cinese.) Nei giochi di guerra, il difensore è la squadra blu (Usa), l’attaccante è rosso (Urss o Cina) (carta a colori 6). Marshall non si limitava ai wargames canonici, inguaribilmente quantitativi, ma integrava nell’analisi suggestioni e approcci qualitativi tratti dalle discipline più diverse, su tutte la storia. L’analista serio induce non deduce. È scettico e riservato (Marshall: «Non c’è limite al bene che puoi fare se non ti importa a chi il bene è attribuito»). Valuta gli intangibili, per tali incommensurabili. Il net assessor non ama i modelli matematici da supercomputer perché adattano i dati al risultato atteso e trascurano variabili irrazionali. Come afferma uno degli studiosi di Marshall: «Sembra ci siano due tipi di persone al mondo: quelli che costruiscono modelli matematici e quelli che si concentrano sul mondo. I due gruppi di norma non si parlano. Parlano a due pubblici diversi. Il modellista guadagna status impressionando altri modellisti ed esibendosi conferenziere presso associazioni professionali. Chi si concentra sul mondo tende a non frequentare quegli incontri. (…) Invece di produrre modelli complessi, la valutazione netta modella semplice e pensa complesso» 26.

 


Carta di Laura Canali - 2022

Carta di Laura Canali – 2022


 

Secondo. Si guarda lontano. I semi della materia sotto analisi vengono rintracciati nel flusso storico di lungo periodo e ricondotti in un arco di 30 anni a partire dall’oggi. Nell’esposizione sempre provvisoria si salta 20 anni indietro e si scandaglia l’orizzonte a 5-10 anni, talvolta oltre. Il diavolo sta nella tirannia dell’immediato: la prescrizione sollecitata dal potente, travolto dalla necessità di risolvere un rebus in un battito di ciglia. Marshall scrutava lungo – indietro e avanti – perché si occupava di strategia, non di tattica. Ai suoi ragazzi, alcuni giovanissimi, dava anche due o tre anni di tempo per costruire un rapporto fondato su un what-if scenario, analisi di che cosa può succedere date certe condizioni e relative variabili.

 


Terzo. Il prodotto finale non è mai definitivo. Deve ridurre e interpretare la quantità dei dati di partenza, derivanti da agenzie in feroce contrasto reciproco o da contatti privati selezionati da Yoda. Marshall aveva in dispetto la Cia e l’intelligence in genere, e salvo eccezioni detestava gli economisti. Spie ed economisti avevano fra l’altro in comune la sopravvalutazione dell’Urss. Kissinger, che alle due citate categorie aggiungeva i diplomatici, suggerì infatti nel 1972 al presidente Nixon – il quale allargava il disprezzo all’establishment politico-mediatico – di chiamare Marshall a dirigere il nuovo ufficio per poter disporre di analisi d’insieme, depurate del sovrappiù miope e incoerente espettorato dalle pletoriche tecnocrazie confitte nell’interesse di corpo.

 


Non pare che i precetti di Marshall si siano radicati nel pensiero strategico americano, tantomeno nella prassi. Lui stesso, negli ultimi anni, deprecava lo spreco di risorse in guerre inutili, dall’Afghanistan all’Iraq, a scapito della concentrazione sulla minaccia strategica, la Cina. Il guaio è che la valutazione netta relazionale funziona solo quando c’è il Nemico, non con lo specchio di Grimilde. Il metodo Marshall presuppone il bipolarismo. Scaduto nel 1991 e non reinventabile. Lo conferma Guerra Grande, che esalta l’asimmetria del triangolo Stati Uniti-Cina-Russia, tre impari colossi tutti alle prese con le fragilità degli assetti domestici perciò refrattari a giocarsi la posta massima nella terza e triangolare guerra mondiale (carte a colori 7 e 8).

 


L’impero dei tre imperi resta in vantaggio sui presunti rivali. Non è affatto condannato alla disgregazione. Purché stabilisca una gerarchia: salvare il primo impero delimitando il secondo e applicando la sordina al terzo. Parola di Platone: «Accrescere lo Stato finché possa, crescendo, rimanere uno; ma oltre questo limite, no» 27.

 


Carta di Laura Canali - 2022

Carta di Laura Canali – 2022

Carta di Laura Canali - 2022

Carta di Laura Canali – 2022


Note:

1. W. Wilson, «Commencement Address at the U.S. Military Academy at West Point», 13/6/1916, Papers of Woodrow Wilson, Princeton, N.J. 1966, Princeton University Press, vol. 37, p. 212.

2. Cfr. «Igor Panarin, il crollo degli Usa potrebbe iniziare tra due mesi», Eurasia, 7/9/2009. Vedi anche l’intervista di Panarin al Wall Street Journal del 29/12/2008: «As if Things Weren’t Bad Enough, Russian Professor Predicts End of U.S.».

3. «Still miles apart: Americans and the state of the U.S. democracy half a year into the Biden presidency (extract)», Bright Line Watch, giugno 2021.

4. Cfr. V.B. Šklovskij, «Art as Technique», cbpbu.ac.in

5. G. Friedman, The Storm before the CalmAmerica’s Discord, the Coming Crisis of the 2020s, and the Triumph Beyond, New York 2020, Doubleday.

6. Ivi, p. 234.

7. Cfr. J.M. Conley, W. M. O’barr, R. C. Riner, Just Words. Language, Law and Power, Chicago 1988, University of Chicago Press, p. 149. La fonte della citazione è omessa, suono e senso sono da Mark Twain, dunque probabilmente è un falso. D’autore.

8. B. L. Gildersleeve, Hellas and Hesperia, or the Vitality of Greek Studies in America, New York 1909, Henry Holt and Co., p. 16.

9. Vedi lo studio dell’Environmental Protection Agency How We Use Water in These United States e il rapporto del Federal Bureau of Investigation Crime in These United States.

10. Cfr. G.. Bush, Remarks, 6/11/2005, Brasilia, georgewbush-whitehouse.archives.gov

11. The Constitution of the United States of America, Washington 1976, U.S. Government Printing Office, p. 21.

12. Cit. in B. Zimmer, «Life in These, uh, This United States», Language Log, 24/11/2005.

13. Cit. in B. Santin, D. Murphy, M. Wilkens, «The “United States” in Nineteenth-Century Print Culture», American Quarterly, vol. 68, n. 1 (marzo 2016), p. 104.

14. Ivipassim.

15. «The United States Has», The Washington Post, 24/4/1887.

16. J.W. Foster, «Are or Is? Whether a Plural or a Singular Verb Goes With the Words United States», The New York Times Saturday Review, 4/5/1901.

17. W. Wang, «Marriages Between Democrats and Republicans Are Extremely Rare», Institute for Family Studies, 3/11/2020.

18. N. Lupu, L. Plutowski, E. J. Zechmeister, «Would Americans ever support a coup? 40 percent now say yes», The Washington Post, 6/1/2022.

19. Attingiamo qui alla «Guida ai servizi segreti» stilata nel 1990 da Anonimo e da lui distribuita agli uffici responsabili. L’autore era Francesco Cossiga, allora presidente della Repubblica Italiana, che basava le sue istruzioni anche su «testi in uso nelle scuole di servizi esteri», specie americani, israeliani e britannici. Il saggio di Cossiga è pubblicato con il titolo «Intelligence: istruzioni per l’uso» in Limes, «Africa!», n. 3/1997, pp. 269-278. Seguito dalla tavola rotonda «A che servono i servizi» con Beniamino Andreatta, ministro della Difesa, Massimo Brutti, sottosegretario alla Difesa, Franco Frattini, presidente del Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti, Franco Battelli, direttore del Sismi e alcuni dirigenti di servizi esteri: John Gannon (Cia), Günter Manfred Rudolf vom Hagen (BND, servizio esterno tedesco), Pierre Lacoste (Dgse, servizio esterno francese), Aurelio Madrigal Díez (Cesid, servizio spagnolo), Leonid Šebaršin (ultimo direttore del Kgb) e Stefano Silvestri (vicepresidente dell’Istituto affari internazionali).

20. «I Am Part of the Resistance Inside the Trump Administration», The New York Times, 5/9/2018.

21. Blowback. A Warning to Save Democracy from the Next Trump, pagina pubblicitaria curata dall’editore Simon & Schuster.

22. Cfr. H. Kissinger, Diplomacy, New York 1994, Simon & Schuster, p. 765.

23. Cfr. S.M. Hersh, «The Vice President’s Men», London Review of Books, 24/1/2019.

24. Ivi. Seymour Hersh, il Premio Pulitzer che ha svelato la struttura segreta di Bush, annota: «Zbigniew Brzezinski, già consigliere per la Sicurezza nazionale di Carter, mi raccontò di essere stato invitato dal presidente (Reagan, n.d.r.) a informarlo sulla minaccia sovietica, all’inizio del suo mandato. Quando finì, chiese al presidente Reagan se avesse domande. Reagan rispose: “La sai quella del giudice nero appena eletto in Mississippi?”. Brzezinski disse di no. Reagan spiegò che il giudice, dopo esser stato informato dal suo funzionario che il caso in questione comportava l’accusa di stupro, disse: “Bene, porta la fottuta e il fottitore”. Punto. Appena uscito dallo Studio Ovale Brzezinski trovò Bush che aspettava fuori, curioso di sapere come Reagan avesse risposto al briefing. “Io dissi che mi aveva raccontato una barzelletta”, rammentò Brzezinski. Replica del vicepresidente: “Oh no! Non quella sul giudice del Mississippi!”».

25. Cfr. S. Weinberger, «The Return of the Pentagon’s Yoda. Can Andrew Marshall, the U.S. military’s longtime oracle, still predict the future?», Foreign Policy, Fall 2018.

26. P. Bracken, «Net Assessment: A Practical Guide», Parameters, vol. 36, n. 1, 2006.

27. Platone, La Repubblica, libro IV, in Id. Opere Complete, Roma-Bari 1973, Laterza, vol. 6, p. 143.

Pubblicato in: AMERICA? – n°11 – 2022

 

 

 

 

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