LIMESONLINE DEL 30 LUGLIO 2020
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“Mosca, vattene!” L’Estremo Oriente russo preoccupa Putin
Luglio 2020: una manifestazione a favore dell’ex governatore di Khabarovsk Sergej Furgal, il cui nome è scritto sulla macchina. Foto di Dmitry Morgulis\TASS via Getty Images.
Le proteste scoppiate dopo l’arresto del governatore di Khabarovsk rivelano il malcontento della periferia orientale del paese, che si sente ignorata dal potere centrale. Per il presidente, una calda estate siberiana.
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Sergej Ivanovič Furgal (in russo: Сергей Иванович Фургал?, traslitterato: Sergei Ivanovich Foorgal; Poyarkovo, 12 febbraio 1970) è un politico ed ex governatore regionale russo, membro della Duma di Stato dal 2007 al 2018.
KHABAROVSK E VLADIVOSTOCK
MARE DI OCTHOTSK ( OTKHOSK ) è un mare che appartiene all’oceano Pacifico e si trova racchiuso tra la costa orientale della Siberia, la penisola della Kamčatka con l’arco delle isole Curili e la costa settentrionale dell’isola di Hokkaidō, appartenente al Giappone. La cittadina che ha dato il nome al mare è la cittadina di Ochotsk che a sua volta ha preso il nome dal fiume Ochota (dal termine even okat, “fiume”); altre città importanti che si affacciano sul mare sono Magadan, Palana, Korsakov sull’isola di Sachalin, e Severo-Kuril’sk sull’isola di Paramušir.
“Mosca, vattene!”. Così invocava uno striscione in bella mostra a Khabarovsk il primo giorno delle proteste scoppiate con l’arresto il 9 luglio del governatore Sergej Furgal, accusato di essere il mandante di omicidi di imprenditori risalenti a quasi vent’anni fa.
Simili imperativi sono risuonati a Komsomolsk e Nikolaevsk sull’Amur, ad Amursk.
Anche a Vladivostok, nell’adiacente territorio di Primorie, dove il governatore non era Furgal, ma la gente è scesa in strada lo stesso, segno di solidarietà con Khabarovsk e crescente insofferenza in tutto il Lontano Oriente russo.
Lo ‘sconfinamento’ a Vladivostok conferma che le manifestazioni nella regione non sono solo a favore del governatore ammanettato, ma soprattutto contro le politiche del centro federale, percepite come estranee ai bisogni di queste terre lontane, malgrado i tanti piani di sviluppo e le numerose promesse. Il trasferimento in custodia cautelare a Mosca di Furgal – già eletto nel 2018 contro il volere del Cremlino e poco mobilitato per il plebiscito sulla riforma della Costituzione dello scorso giugno – doveva essere un richiamo all’ordine per tutti i soggetti della Federazione tentati di sollevare la testa in vista dei prossimi appuntamenti elettorali. Invece è stata la classica goccia di troppo e ha innescato una dinamica che ora Vladimir Putin non sa come gestire, nel timore che diventi contagiosa e con il concreto rischio di uscirne indebolito, per diversi motivi.
Il caso Furgal ha messo in questione l’assetto partitico alla base del sistema di potere putiniano, quello che nel parlamento di Mosca e nelle regioni assicura una comoda convivenza tra i governativi di Russia Unita e l’opposizione in diversa misura addomesticata del Partito comunista e dei liberaldemocratici (Ldpr) di Vladimir Zirinovskij, di cui l’amministratore ammanettato è un esponente. Sempre pronto a sbraitare per poi allinearsi, il sulfureo Zirinovskij ha solo minacciato le dimissioni di massa dei suoi deputati e il Cremlino gli ha assicurato la nomina del nuovo governatore; ma il meccanismo scricchiola.
La protesta nell’Estremo Oriente è abbastanza lontana da poter sperare che non venga emulata altrove e si esaurisca piano piano da sola, come ha pubblicamente auspicato il portavoce presidenziale Dmitrij Peskov. Proprio la lontananza la rende però insidiosa, perché frutto di dinamiche che il centro fatica a comprendere, o quantomeno a rispettare, privilegiando la necessità di controllare in modo ferreo l’est siberiano, baluardo proteso verso il Pacifico settentrionale, con Cina, Corea del Nord e Giappone a ricordare quanto l’area sia vitale per la tenuta dell’impero russo sotto forma di Federazione.
Inoltre, Khabarovsk segnala che dalla galassia del potere regionale può spuntare un ‘anti-Putin’, più pericoloso dei leader dell’opposizione glamour che regolarmente tenta di mobilitare le piazze a Mosca o San Pietroburgo. Il presidente russo sa che non cadrà per le contestazioni di questa calda estate siberiana. Ma sa anche che potrebbe essere l’inizio di un fatale processo di disgregazione della famosa ‘verticale del potere’ in base alla quale l’ordine impartito nella capitale arriva – e viene eseguito – in tempo reale anche nel più piccolo villaggio della più lontana e dimenticata provincia.
La gente di Khabarovsk e dintorni sa che potrebbe esserci del vero nelle accuse all’ormai ex governatore. Prima di lanciarsi in politica, all’inizio del nuovo secolo, Sergej Furgal era un uomo d’affari e in quegli anni ogni business nell’Estremo Oriente russo era in contatto, o in contrasto, con il crimine organizzato. Gli abitanti in rivolta hanno subito domandato, infatti, perché le accuse siano spuntate solo ora e hanno rivendicato “un giusto processo” nella loro regione, non a Mosca.
I cortei che hanno richiamato in piazza sino a 50 mila persone a Khabarovsk (più di una su 10, come se nella capitale russa manifestasse un milione di abitanti) chiedono il rispetto delle loro scelte elettorali e delle specificità di un territorio dove la vita è complicata per definizione, con temperature che d’inverno arrivano a -40 °C e d’estate superano spesso i 30 °C.
Nata come avamposto militare nel 1858, il capoluogo del Khabarovskij kraj (Territorio di Khabarovsk) oggi ha 600 mila abitanti. Era la capitale di tutto il circondario federale del Lontano Oriente russo (Dal’nyj Vostok), prima che Putin ordinasse di elevare lo status di Vladivostok, il capolinea della Transiberiana affacciato sul Pacifico che fino al 1991 era città chiusa, in quanto importante porto per la Marina militare sovietica.
Guarda caso la promozione è avvenuta nel 2018, subito dopo l’elezione di Furgal, confermando un’inversione di rotta rispetto al primo decennio del secolo, quando Mosca faceva costruire a Khabarovsk un istituto di chirurgia vascolare, finanziava la ristrutturazione del centro, organizzava qui, addirittura, un vertice Russia-Ue. Ma se questa città oggi in ebollizione è una vetrina di relativa modernità, considerate le latitudini, nel territorio circostante e in tutto l’Estremo Oriente la situazione è ben diversa.
Le strade versano in condizioni disastrose, la sanità pure, i prezzi dei biglietti aerei – malgrado le facilitazioni introdotte proprio dal governatore caduto in disgrazia – rendono proibitivo viaggiare, la gente continua ad andarsene, l’economia resta zavorrata a poche materie prime, boschi e pesca. Khabarovsk, come un po’ tutto il circondario del Lontano Oriente (Dal’nyj Vostok), il più esteso e il meno popolato degli otto che raggruppano le regioni della Federazione russa, si sente sfruttato e abbandonato.
Tanto per intendersi: Mosca da Khabarovsk dista in linea d’aria 6.140 chilometri (in automobile o treno diventano oltre 8 mila), la frontiera cinese meno di 30. Il rapporto con la Repubblica Popolare Cinese è complesso, imprescindibile dal punto di vista economico, eppure carico di tante ombre. Quelle lontane del dominio cinese fino a metà Ottocento, quando il trattato di Aigun destinò l’area ai russi e nacque l’avamposto militare di Khabarovka, poi diventata Khabarovsk. E le ombre di oggi, a fronte della sproporzione demografica con la Cina nord-orientale.
Quindi non stupisce se qualcuno vede la mano cinese dietro le contestazioni delle ultime settimane, diventate virali sul social network cinese TikTok a forza di video rilanciati da migliaia di bot. Pechino è interessata a pubblicizzare le turbolenze nell’estrema periferia orientale dell’alleata Russia? Il sospetto è lecito, ma in epoca di ‘partnership strategica’ con la Cina meglio sorvolare e comunque nessuno a Mosca dubita davvero della natura spontanea delle proteste. La regia di qualche collaboratore dell’ex governatore finito in disgrazia ha contribuito alla mobilitazione. Anche il capo carismatico del fronte moscovita anti-Putin, il blogger anticorruzione Aleksej Naval’nyj, ha tentato di salire sul carro delle nuove proteste, ma si tratta di fattori secondari.
Quanto ai cinesi, Vladimir Putin sperava che sarebbero diventati fondamentali per lo sviluppo dell’Estremo Oriente (per i quali dal 2012 esiste uno specifico Ministero) dopo l’annessione della Crimea e la svolta russa ‘verso Est’. Per promuovere gli investimenti nella regione, nel 2015, il presidente russo ha inaugurato il Forum economico orientale di Vladivostok, ma i grandi capitali di Pechino non si sono mossi. O meglio: i dati al riguardo sono a dir poco confusi. Secondo la Banca centrale russa, che non tiene conto delle piccole medie imprese e non registra le origini dei capitali offshore, a luglio 2019 gli investimenti cinesi rappresentavano un minuscolo 0,8% degli investimenti diretti esteri (Fdi) totali.
Per il ministero dello Sviluppo economico, invece, il 63% degli Fdi nella regione è cinese, pari a 2,6 miliardi di dollari.
Pechino cita suoi investimenti nell’area per oltre 30 miliardi di dollari, cifra che mette in conto probabilmente i progetti da realizzare oltre a quelli già in atto, in particolare nei settori agricolo, del legname e delle costruzioni. In ogni caso, la presenza di capitali cinesi è concentrata nel territorio di Primorie e nell’oblast’ di Amursk.
E ogni progetto rilancia le voci di piani di “vendita” della Siberia e del Lontano Oriente agli emissari di Pechino: grande diffidenza che genera spesso ostacoli, mentre sono ben visti gli investimenti dal Giappone e dalla Corea del Sud. Significativamente, il leader internazionale che ha partecipato ogni anno al Forum di Vladivostok è il premier giapponese Shinzo Abe.
Chi vive lungo gli oltre quattromila chilometri di confine con la Cina si sente sotto assedio anche per oggettive ragioni demografiche.
Il distretto federale del Lontano Oriente comprende 11 regioni, ovvero un terzo dell’intero territorio russo; aveva solo 8,37 milioni di abitanti registrati dal censimento del 2010. Oggi le cose vanno pure peggio.
Secondo calcoli citati dallo stesso Putin, nell’ultimo quarto di secolo la regione ha perso quasi due milioni di abitanti. Per cercare di tamponare l’emorragia demografica, il governo centrale ha lanciato il progetto “un ettaro a ogni cittadino russo”, sperando di replicare almeno in parte l’ondata migratoria interna verso la regione dell’inizio del secolo scorso: 383 mila persone arrivate tra il 1855 e il 1914.
All’epoca però lo zar regalava cento desjatine di terra, oltre cento ettari. Dal 2016, il piccolo appezzamento concesso per 5 e poi altri 49 anni è stato ottenuto da poco più di 83 mila persone, a fronte dei 30 milioni ipotizzati.
È difficile immaginare che l’economia dell’Estremo Oriente russo diventi autosufficiente e che in un futuro non troppo lontano possa sganciarsi dal giogo delle dotazioni e dei sussidi che Mosca invia sperando di convincere la gente, quantomeno, a restare. Un sondaggio realizzato dai sindacati locali nel 2018 rilevava che per il 30% degli abitanti di questa enorme area il più grosso problema è l’impossibilità di viaggiare nel resto della Federazione, in particolare per le ferie. Tre su dieci indicavano “uno o due viaggi gratuiti ogni anno” come condizione sufficiente per non abbandonare la regione. Sempre nel 2018, durante una “linea diretta” del presidente russo con i cittadini, i dalnevostocniki hanno lamentato di non sentirsi parte della Russia proprio a causa dei biglietti di aerei e treni troppo cari o esauriti, a differenza di quanto avveniva ai tempi dell’Urss. Putin ha allora ordinato di togliere l’iva dai titoli di viaggio per l’Estremo Oriente e ha promesso altre misure, senza grandi effetti però sulle tariffe.
Le agevolazioni ai viaggi per gli abitanti della regione di Khabarovsk sono la misura più popolare introdotta dal governatore Furgal e la più citata in queste settimane dai manifestanti per motivare la fedeltà all’ex capo dell’amministrazione territoriale.
La ribellione di Khabarovsk ha colto di sorpresa il Cremlino, che ora cerca una via di scampo, ma faticherà a uscirne indenne.
Il sindaco Sergej Kravcuk non ha autorizzato le manifestazioni, chiamando in causa il coronavirus, e le forze dell’ordine, almeno per le prime due settimane, hanno ricevuto disposizioni di non intervenire. L’emissario presidenziale per il Lontano Oriente Jurij Trutnev, che non ha mai digerito l’elezione di Furgal, è arrivato a dire che “la gente ha il diritto di esprimere la propria opinione”. Il nuovo governatore ad interim, il 39enne Mikhail Degtjarev, come il suo predecessore esponente del partito Liberaldemocratico (Ldpr) del simil-oppositore Vladimir Zirinovskij, ha cercato di mischiare toni duri a promesse, la più gradita quella di lasciare l’incarico se Furgal verrà assolto e ricandidato. Con questa nomina, Putin ha per ora blindato l’assetto partitico che garantisce la non belligeranza della cosiddetta “opposizione sistemica”, ma – allarme – all’arrivo di Degtjarev una serie di deputati locali ha deciso di voltare le spalle al movimento di Zirinovski. Il premier russo Mikhail Misustin ha intanto annunciato nuovi stanziamenti per Khabarovsk.
Insomma, tutti a tastare il terreno con grande cautela, sperando che i rivoltosi si stanchino. L’errore iniziale di Mosca è stato non interpretare il segnale mandato dagli elettori della regione con il plebiscito sugli emendamenti alla Costituzione del primo luglio: qui solo il 62% li ha approvati, contro il 78% di sì a livello nazionale.
E soprattutto, l’affluenza si è fermata a un debole 42%: perché mai correre alle urne su richiesta di Mosca, se Mosca poi non ti ascolta.
La montagna russa
Khabarovsk, come tutta la Siberia orientale, è stata anche terra di gulag. E la memoria dei campi di concentramento e lavoro coatto sovietici si incrocia con le sorti toponomastiche del punto più alto del territorio, il picco Berill, 2.933 metri. Sino al 1955 sulle carte geografiche compariva come Monte Berija, ma dopo l’arresto del capo della polizia segreta di Stalin, Lavrentij Berija, la ‘ja’ venne sostituita con due l.
Montagne russe è una rubrica sulla Russia odierna e sulla Russia di sempre. Leggi tutte le puntate.
E’ difficile immaginare la vita di queste regioni così lontane. E’ significativo che gli abitanti vogliano poter viaggiare!