LIMESONLINE.COM — 8 LUGLIO 2022
https://www.limesonline.com/cartaceo/per-non-spaccarsi-la-russia-cerca-unidea
PER NON SPACCARSI, LA RUSSIA CERCA UN’IDEA
Carta di Laura Canali – 2022
La guerra può far esplodere i separatismi latenti e minare la coesione sociale nella Federazione. Per evitare il disastro il Cremlino punta a una nuova definizione dell’identità imperiale. Il caso tataro e i primi segni della lotta per il dopo-Putin.
1.Al terzo mese di «operazione militare speciale» in Ucraina, giorno più giorno meno, al Cremlino cominciarono a prendere coscienza di un’urgenza assoluta: serve un’idea, un’immagine nuova per la Russia in guerra e che in guerra si immagina ancora a lungo, pur con interludi in cui le armi taceranno.Secondo fonti vicine all’amministrazione presidenziale arruolate per la missione, ai vertici ritengono che solo con «un messaggio diretto e comprensibile a tutti sarà garantita la mobilitazione a medio termine dell’opinione pubblica e delle stesse élite».
Quindi la coesione della società russa, la tenuta del sistema di potere e in ultima istanza della Federazione. Tre fronti sensibili e un problema di fondo: è vero che i russi evitano di farsi troppe domande e restano in maggioranza a sostegno dell’impresa bellica putiniana.
«Ma la gente fatica a cogliere il senso di quanto sta accadendo» e se dopo l’estate le conseguenze delle sanzioni cominceranno a farsi davvero sentire allora un senso bisognerà darlo, e in fretta.
2. Il paragone tracciato da Vladimir Putin fra la guerra in Ucraina e quella settecentesca contro gli svedesi sarebbe il primo risultato dei lavori in corso per individuare «il nuovo concetto di Russia». Il 12 giugno, giorno della festa nazionale ispirata alla dichiarazione di sovranità russa del 1990, il presidente ha sostenuto che l’espansione sul Baltico di Pietro il Grande «non portava via niente, riprendeva le terre» un tempo abitate (anche) da popolazioni slave. «Tutto sembra indicare che anche a noi spetta il compito di riprendere e consolidare» 1 parti dello Stato russo che fu, ovvero dell’impero zarista. Tradotto in piani per il futuro prossimo, Putin rivendica il diritto di «recuperare» terre ucraine storicamente russe e avverte che potrebbero essere aperti altri fronti.
Inquieta gli Stati baltici il riferimento a Narva, cittadina estone di confine a maggioranza russa. Con il braccio di ferro avviato da Lituania e alleati sul collegamento tra la Russia e la sua exclave di Kaliningrad l’ipotesi di un allargamento del conflitto diventa meno ipotetica. Ma il capo del Cremlino stava parlando in primo luogo all’opinione pubblica interna, in vista di una fase turbolenta e di inevitabili sacrifici. La rivisitazione putiniana della figura di Pietro il Grande è doppiamente significativa, perché oggi la Russia chiude quella «finestra sull’Europa» aperta dal fondatore di San Pietroburgo e si dichiara proiettata (di nuovo) nel suo «cammino particolare», che intende percorrere assieme a Cina, India e altri paesi convinti che il tempo dell’egemonia americana stia finendo.
Carta di Laura Canali – 2022
Proprio il «recupero delle terre dove gli abitanti si sentono spiritualmente russi» è il fulcro del «concetto» in via di elaborazione.
Contemporaneamente si lavora su una idea fruibile sul piano internazionale, si cerca un messaggio di «unicità della Russia» in dichiarata contrapposizione all’Occidente e più in particolare all’Europa dall’altra parte della cortina di acciaio, in sintesi all’Unione Europea. Putin avrebbe bocciato le proposte di ispirarsi a paesi di altra storia e cultura, ma fuori dal Vecchio Continente – l’India il modello più votato – perché la Russia deve proporsi al mondo come l’Europa «giusta, vera, con i suoi valori originari». Quelli conservatori, che promuove da almeno dieci anni: patria, famiglia, radici cristiane e, più inclusivamente, fede in Dio,obbligatoriamente con la maiuscola, come prescrivono le nuove regole di ortografia russa in attesa di approvazione ufficiale.
3. Dopo un intenso giro di consultazioni con i principali analisti e istituti di ricerca, la visione ha cominciato a prendere forma, compreso un primo titolo: «La Russia recupera le terre i cui abitanti si sentono spiritualmente russi».
Esattamente ciò che ha detto Putin citando Pietro il Grande. E richiamando la nozione di mondo russo (russkij mir) che «si estende ben oltre i confini geografici e anche oltre la dimensione etnica russa», come diceva già nel 2001. Secondo i piani del Cremlino, la «nuova idea» che un po’ sa di antico sarà esposta e declinata in concreti contenuti da Putin con il messaggio all’Assemblea federale di cui si attende una data. Si diceva entro il 9 maggio, ora si ipotizza dopo le elezioni dei governatori che si terranno a Mosca e in altre 13 regioni a settembre. La tempistica è connessa alle prospettive della guerra in Ucraina. Non tanto all’esito delle operazioni militari nel sud-est, ma alla possibilità di una tregua o di una ulteriore espansione dell’azione bellica, alternativa che divide i vertici russi tra quanti vorrebbero fermarsi al Donbas e quelli che invece perorano l’avanti tutta.
Nello stretto entourage di Putin il «partito della pace» è composto da capi di aziende e banche pubbliche,oligarchi sotto sanzioni e chi in generale pensa che la traversata del deserto per il settore economico e finanziario potrebbe essere fatale al paese.
Sergej Čemezov (20 agosto 1952, Čeremchovo nell’Oblast’ di Irkutsk. )
OBLAST DI IRKUTSK
L’esponente di maggiore peso è il direttore generale del conglomerato industrial-militare Rostekh, Sergej Čemezov, talmente influente da poter bocciare in pubblico l’idea che tutte le importazioni possano essere rimpiazzate e che la patria economia ne risulterà alla fine rafforzata. «Insensato, privo di fondamenta dal punto di vista economico, semplicemente impossibile», ha messo nero su bianco Čemezov in un articolo su Rbk 2. Critiche ammesse perché tutti sanno, a cominciare da Putin, che l’amministratore di Rostekh non andrà mai oltre l’espressione di un personale dissenso. Questo vale anche per (quasi) tutti gli integranti dell’opposta fazione, quella che vuole la continuazione della guerra e dell’espansione territoriale almeno fino all’intera riva sinistra del Dnepr, quella orientale. Tra questi c’è chi sogna di tornare a Kiev e stavolta prenderla.
Sergej Kirienko ( Sukhumi, Rep. di Abcasia, sulla costa est del Mar Nero, Georgia occidentale, 26 luglio 1962)
Sukhumi
Nel gruppo, animato da monadi spesso in litigio tra di loro, spicca il numero due dell’amministrazione presidenziale Sergej Kirienko, di recente nominato supervisore per il Donbas al posto di Dmitrij Kozak, che ha difeso fino all’ultimo la linea negoziale sulla questione ucraina. Come responsabile degli Affari interni della Federazione, Kirienko si è inoltre opposto all’idea di rinviare le elezioni amministrative e dei governatori di settembre, sfidando parecchi esponenti dei ministeri forti, i siloviki che di questi tempi decidono molto, se non quasi tutto, anche negli affari domestici. L’argomento vincente è stato però che bisogna presentarsi alla popolazione locale come nuova realtà di lungo termine, che «la Russia è tornata e resterà». Di qui le misure di russificazione a tempi accelerati, dalla distribuzione di passaporti alle targhe russe già rilasciate nelle oblast’ ucraine occupate. A quadro «stabilizzato» si potrà organizzare poi il referendum sull’annessione.
A Putin l’approccio è piaciuto. Ai funzionari del blocco politico-amministrativo alle dipendenze di Kirienko è stato affidato il compito di coordinare e sintetizzare il lavoro sulla nuova immagine della Russia. Questa è la partita della vita per l’alto funzionario che compie 60 anni e che nel 1988 incrociava per la prima volta Putin: primo ministro per una breve stagione, toccò a lui nominare l’attuale presidente a capo del Servizio federale di sicurezza (Fsb), lanciando la più inattesa e longeva delle carriere ai vertici russi. Al viceré del Donbas– così addetti ai lavori e media russi hanno prontamente soprannominato Kirienko – non spiacerebbe ora invertire la prospettiva.
La sua improvvisa ascesa ha alimentato il dibattito su un filosofo scomparso nel 1994, Georgij Ščedrovickij, ispiratore del movimento dei metodologi attivo da metà anni Cinquanta del secolo scorso sino alla tarda perestrojka. La loro tesi centrale è che l’attività dell’individuo non è frutto di volontà propria ma del sistema entro cui si muove, che ne determina i comportamenti, influenzabili tramite l’applicazione di particolari schemi. Kirienko sarebbe un seguace di Ščedrovickij, come diversi alti funzionari transitati per l’amministrazione presidenziale nell’ultimo ventennio. Quando venne nominato al Cremlino, nel 2016, qualcuno arrivò a ipotizzare che il datore di lavoro (Putin) rischiasse di essere manipolato dal sottoposto.
Il fronte della narrazione interna si incrocia con quello della successione presidenziale, che le voci di una malattia suggeriscono vicina e i piani neo-imperiali per nulla imminente. Le élite russe tendono a considerare buona la seconda ipotesi e ad ammettere che non solo non esiste una valida alternativa al presidente ultraventennale, ma che in questa fase neppure è auspicabile che vi sia. «C’è una grande incertezza, anche insoddisfazione, però il dissenso si esaurisce a riflessioni personali», dice una fonte che frequenta quotidianamente i diretti interessati, «perché sono tutti sulla stessa barca. Eppoi, chi vorrebbe ritrovarsi a dover decidere quello che Vladimir Vladimirovič decide quotidianamente? Tutti vorrebbero essere al volante, ma non ora». Oltre a chi tifa per la guerra e a chi vorrebbe in fretta la pace, c’è un terzo polo, quello dei pragmatici o attendisti, anche definiti «i silenti». Tra questi spiccano il premier Mikhail Mišustin e il sindaco di Mosca Sobjanin, entrambi collocabili nella ipotetica lista dei successori d’emergenza, a disposizione in caso di improvviso impedimento presidenziale. Tra i potenziali reggenti figura anche Nikolaj Patrušev, segretario del Consiglio di sicurezza, amico di antica data di Putin. Nonché padre del ministro dell’Agricoltura Dmitrij Patrušev, sempre più spesso descritto come il candidato ideale al Cremlino con missione a lungo termine. Patrušev junior ha 44 anni, si è laureato all’Accademia dell’Fsb; nel blocco dei siloviki è per ovvie ragioni di casa. Senza l’Ok degli «uomini forti» nessuno può pensare oggi di entrare nelle stanze dei comandi per restarvi.
4. La questione della «nuova idea» da fissare in tempi brevi ha rilanciato le fortune dei cosiddetti polittechnologi, gli esperti di tecniche politiche, elettorali e manipolatorie molto attivi nei primi due mandati presidenziali putiniani. Versione spregiudicata e commerciale dei metodologi di sovietica memoria. Tecnocrati chiamati a produrre idee, schemi e sistemi da applicare alla gestione dell’opinione pubblica russa. Concetti come «democrazia sovrana» per rivendicare il diritto a governare affrancati dai modelli occidentali o i tentativi di contrastare le «rivoluzioni colorate» nell’ex Urss sono passati per le mani dei polittechnologi ora di nuovo richiestissimi, anche nella prospettiva delle elezioni di settembre. Il partito governativo Russia Unita non può rinunciare alla vittoria e si attrezza con formule ad hoc per ciascuno dei 14 soggetti della Federazione chiamati alle urne, dalla moltiplicazione dei candidati alle liste civetta ai negoziati diretti con gli sfidanti di altre formazioni. Il processo è seguito da vicino dal «blocco politico» dell’amministrazione presidenziale, quindi da Kirienko, che ha il doppio obiettivo di consegnare a Putin una elezione «degna» (come pubblicamente richiesto dal capo dello Stato) e un risultato convincente, che serva a scoraggiare qualsiasi tendenza centrifuga nelle periferie della Federazione.
5. In un mirabile articolo pubblicato da Limes nel 1998, titolato «La Russia esiste ancora?», Giulietto Chiesa individuava le fratture interne che avrebbero potuto portare allo sfaldamento della Federazione. Siamo alla fine dei dimenticabili anni Novanta, in piena crisi economica e sociale, e in molte regioni russe restano vive pericolose pulsioni centrifughe. Spinte consistenti rilevate prima, durante e subito dopo il tracollo sovietico e che a conclusione di quel decennio mettono ancora in forse la tenuta del paese centrato su Mosca, complice una gestione non impeccabile degli affari regionali affidata al traballante presidente Boris El’cin.
Dal 1990, e durante i primissimi anni del dopo-Urss, un drappello consistente di entità federali tenta di tagliare il cordone ombelicale col Cremlino. Qualcuna si autoproclama Stato sovrano, altre rivendicano il diritto a formare un proprio esercito, c’è chi chiude lo spazio aereo e chi nazionalizza le ricchezze del sottosuolo. Tutte prendono alla lettera le parole che l’allora «corvo bianco» pronuncia da leader della sola Rsfsr (Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa) proprio in Tatarstan, una delle repubbliche più propense al distacco dal centro: «Prendete quella quota di autonomia che sarete capaci di reggere» 3. Tutte, però, firmano il 31 marzo di due anni dopo il trattato federale con Mosca. Sole eccezioni la tatara Kazan’ e la cecena Groznyj.
Il centro non vuole e non può imporre le proprie direttive alle periferie. Con la nuova costituzione del 1993 sancisce il peso delle regioni nella gestione politica ed economica della Federazione, aumentato con l’elezione diretta dei governatori nel 1997. La crisi finanziaria dell’anno successivo riacuisce tensioni e impulsi autonomisti. Ma qualcosa di nuovo nei palazzi del potere moscovita sta accadendo. Al logoro presidente russo si affianca la figura agile e smilza di un grigio funzionario già Kgb, Vladimir Putin. Con lui scatta la seconda guerra destinata ad annientare le velleità indipendentiste della Cecenia. L’ex spia prende le redini della Federazione all’insegna della ricentralizzazione. Fresco nuovo presidente di tutte le Russie, Putin chiarisce subito un punto: la discrepanza tra leggi federali e locali è una bomba a orologeria che va al più presto disinnescata 4.
È l’agosto 2000. Nel giro di pochi anni il nuovo inquilino del Cremlino riesce a riportare sotto controllo del centro tutti i soggetti di una Federazione rimasta ormai tale solo di nome. L’ultima stretta è del dicembre scorso, a poche settimane dall’inizio di un conflitto evidentemente già deciso. Il nuovo ukaz «sui princìpi generali di organizzazione del potere pubblico nei soggetti della Federazione Russa» azzera di fatto i poteri regionali e prepara le leadership locali a rimanere allineate e coperte in attesa che le sorti della guerra e delle sanzioni occidentali scrivano le prossime pagine della storia patria. Riforma preventiva, perché in preventivo c’è da mettere un periodo indeterminato di turbolenze economiche e sociali. Con conseguente possibile riaffiorare di aspirazioni autonomiste/separatiste nelle periferie, che oggi più di ieri minerebbero seriamente la tenuta dell’impero del Cremlino, meglio conosciuto come Federazione Russa.
6. Pugno duro e finanziamenti a pioggia garantiscono finora al centro il controllo della situazione, ma la possibilità di uno sfaldamento del tessuto federale a causa del prolungarsi del conflitto, del peso delle sanzioni e dell’indebolimento del potere moscovita non si può escludere. Lo conferma a Limes l’analista russo Nikolaj Petrov, ricercatore presso Chatham House, sicuro che gli eventi degli ultimi mesi hanno aumentato la probabilità di uno sviluppo alla frammentazione nel medio periodo. Secondo l’esperto la Russia di oggi è il risultato di un impero giunto a metà del suo percorso di vita, il cui crollo è destinato a continuare inesorabilmente, accelerato dalla drastica riduzione della rendita da risorse naturali che Mosca utilizza in gran parte per garantire la lealtà dell’élite regionali. Spiega Petrov che le aspirazioni centrifughe dei soggetti federati cresceranno con l’allentamento del centro, reo di aver realizzato una macchina statale ipercentralizzata e di non aver preso nella giusta considerazione gli interessi delle periferie.
Problemi possono derivare dal mancato sovvenzionamento della stragrande maggioranza delle regioni. Se l’economia russa dovesse subire un tracollo e le periferie non venissero più foraggiate il distacco dal centro sarebbe quasi inevitabile. Nell’anno in corso saranno «soltanto» 62 su 85 totali le regioni finanziate dai sussidi statali, contro le 72 del 2021, ma con un aumento complessivo dell’importo destinato di oltre 40 miliardi di rubli. Neanche un copeco alle restanti 23, che a eccezione del Tatarstan sono in maggioranza abitate da russi etnici, dunque più propense, si immagina, a rimanere fedeli al Cremlino.
Nella speciale classifica dei soggetti federati meglio sostenuti da Mosca resta al primo posto il turbolento Daghestan, seguito da Jacuzia, Kamčatka e naturalmente Cecenia 5. Regione questa che ha combattuto due guerre contro Mosca negli ultimi trent’anni e che Nikolaj Petrov individua come primo possibile candidato alla separazione dal centro se le cose dovessero mettersi male, insieme a gran parte del Caucaso settentrionale. Stando all’analista russo la regione governata da Ramzan Kadyrov non rappresenta il modello di obbedienza al centro che il Cremlino intende replicare nella Federazione, ma una realtà a sé, unica nel suo genere. «Essenzialmente uno Stato separato», spiega, «il cui leader si riconosce vassallo di Putin ed è pronto a dimostrare lealtà» in cambio degli ingenti finanziamenti che riceve da Mosca. «Un sistema di relazioni quasi medievale formatosi a seguito della guerra e difficilmente riproducibile per altre regioni», conclude Petrov.
Senza la Russia non riusciremmo a sopravvivere, confessa Kadyrov qualche settimana prima dell’invasione russa all’Ucraina. Scrive di aver pensato a una Cecenia indipendente, ma di aver abbandonato l’idea perché senza i fondi russi la piccola repubblica caucasica non sopravvivrebbe neanche tre mesi. In effetti le cifre confermano: i sussidi per ceceno sono sette volte superiori alla media russa e le sovvenzioni moscovite pari a circa l’80% delle entrate totali 6. E l’equazione torna: niente soldi, nessuna fedeltà.
7. Speculare alla postura della Cecenia nei confronti del Cremlino è quella del Tatarstan, altra repubblica disobbediente a inizio anni Novanta e oggi tra le più accreditate a staccare la spina in caso di cortocircuito con Mosca. Regione ricca e non proprio russa, registra elementi di autonomismo/separatismo che riaffiorano di tanto in tanto. Ma dove in questo momento, mentre armi e incertezza la fanno da padroni, si concentrano i diktat del centro. Vediamo perché.
A cadavere dell’Unione Sovietica ancora caldo la repubblica tatara tenta la sua strada per sfuggire a un Cremlino in pieno caos gestionale. Indice persino un referendum per sancire la propria sovranità 7. Mosca reagisce ma evita di spedire le sue truppe in Tatarstan per riportarlo all’ordine come fa con la Cecenia. La leadership tatara è propensa al compromesso, forte soprattutto della sua ricchezza, e non rappresenta una seria minaccia alla tenuta della Federazione come invece Groznyj, possibile modello per le altre entità regionali incastonate nel sempre indomito Caucaso russo. Il rapporto tra Mosca e Kazan’ va avanti tra alti e bassi.
L’arrivo di Putin al potere ridimensiona però le aspettative della leadership tatara e il vincolo tra il centro e questa periferia del bacino del Volga. Alcune prerogative regionali saltano. Il Tatarstan resta donatore netto del bilancio federale, il che le concede margine di manovra nei corridoi moscoviti, almeno fino all’inizio della guerra e della conseguente entrata in vigore della riforma sui poteri degli organi regionali. Nel 2019, ultimo anno prima che il Covid-19 mordesse forte anche in Russia, Kazan’ è tra i primi cinque contributori delle casse federali con oltre 6 miliardi di dollari. E nel 2021 è tra le 12 entità regionali che insieme contribuiscono al 56,3% del pil statale. Punto di forza dell’economia tatara è il petrolio, la cui produzione è seconda solo a quella del circondario autonomo di Khanty-Mansijsk, con la compagnia petrolifera Tatneft’ tra le prime dieci dell’intera Federazione 8. Ricchezza, dunque forza contrattuale e parziale libertà di movimento, che potrebbe però svanire se dal Cremlino arrivasse l’ordine di statalizzare l’oro nero tataro, compagnia energetica compresa.
Questo e altri timori accompagnano la leadership regionale, insieme a una certezza: con la riforma imposta da Putin sul rapporto centro-periferia le cose non saranno più come prima e anche il «semi-autonomo» Tatarstan dovrà rigare dritto insieme al suo capo. La legge in questione, entrata in vigore nel giugno scorso, riserva infatti una cura particolare a ruolo e status dei governatori. Questione delicata per una repubblica tatara dove la figura del «presidente» ha da sempre avuto anche un forte valore simbolico legato all’alto grado di «libertà» rispetto al centro. La riforma assicura al presidente della Federazione Russa il diritto di rimuovere dall’incarico il capo dell’entità costituente per mancanza di fiducia e dopo la revoca questi non potrà ricoprire lo stesso incarico in nessun soggetto federato per un periodo di cinque anni 9. I governatori potranno essere rieletti per un terzo mandato, della durata di un lustro, ma non farsi chiamare «presidente». Il più alto funzionario regionale potrà scegliere tra «capo», «governatore» o altro, purché non utilizzi quell’appellativo riservato soltanto al leader del Cremlino.
Nell’autunno scorso, alla lettura della proposta di legge, in particolare di quest’ultimo punto, a Kazan’ è successo un putiferio: nel Consiglio di Stato repubblicano 82 deputati su 100 hanno votato contro. Scelta ripetuta poi a Mosca da altri 7 deputati tatari alla Duma federale. Calcolando che il Tatarstan ha scelto da sempre di stare all’ombra del potere centrale, premiando Putin con l’82,09% delle preferenze alle presidenziali del 2018 e Russia Unita col 79% dei voti alle parlamentari dello scorso anno, si intuisce che il nervo toccato sia particolarmente sensibile 10. In realtà una legge che vieta l’utilizzo del termine «presidente» per indicare il più alto funzionario di una entità federale è già in vigore dal 2015, ma il leader tataro Rustam Minnikhanov lo aveva bellamente ignorato, conservando l’ambito titolo. Come cerca di fare anche oggi, almeno fino a quando la nuova legislazione regionale non verrà completamente allineata a quella federale, ovvero entro la fine dell’anno 11.
Nel frattempo, il presidente tataro si lancia a difesa della lingua e della cultura russe. La prima, secondo lui, essenziale strumento di comunicazione interetnica sia nella Federazione sia in larga parte dell’impero ex sovietico. Entrambe da proteggere e promuovere soprattutto in questo periodo di turbolenza internazionale, dopo il quale troveranno il posto adeguato nello spazio europeo e nel mondo 12. Un ossequio al ceppo dominante e al «collega» del Cremlino. Dimostrazione non proprio plastica di come le leadership regionali, anche quelle più irrequiete come la tatara, restino adesso in modalità «sudditi obbedienti» in attesa di quel che accadrà. Per ridurre al minimo le perdite in privilegi e interessi di casta e per farsi trovare al timone di una scialuppa nel caso l’ammiraglia dovesse inabissarsi.
Poche sono insomma le voci dissonanti e le proteste registrate sul territorio della Federazione contro la guerra all’Ucraina e l’ulteriore stretta centralista. Il pugno duro le tiene a bada, per il momento. Poi sarà da vedere.
8. Inquietudini e dissensi hanno accompagnato le prime fasi dell’aggressione a Kiev. Poi sono andati scemando, ma non scompaiono, malgrado la stretta repressiva imposta dalle autorità. Proteste antiguerra sono scoppiate un po’ in tutte le regioni. Anche in quelle di etnia russa, nella parte più occidentale della Federazione come a Pskov e nel centro siberiano di Novosibirsk 13, fin nell’Estremo Oriente ai confini con la Cina, dove nel territorio di Primor’e membri del Partito comunista hanno chiesto al Cremlino di fermare i combattimenti e ritirare le truppe. Azione pagata col timbro di traditori della patria 14.
Stesso marchio affibbiato agli abitanti di Ekaterinburg, capitale della regione di Sverdlovsk, e in generale ai sudditi della regione degli Urali. L’artefice è il noto personaggio televisivo Vladimir Solov’ëv, che si è scagliato contro le autorità locali rappresentanti di una macroregione accusata di aver sempre desiderato staccarsi da Mosca. Già nel 2016 il conduttore russo aveva denunciato sentimenti separatisti riaffiorati nella regione. Tre anni più tardi etichetta Ekaterinburg come «città dei diavoli» per essersi opposta alla costruzione di una nuova chiesa ortodossa nel parco cittadino15. Questa volta però il riferimento è all’avventura che la regione sperimenta per pochi mesi nel lontano 1993, quando l’83,4% dei cittadini vota in un referendum per la creazione della Repubblica degli Urali. Esperimento che dura dal luglio al novembre di quell’anno, fin quando il centro, seppure in piena confusione organizzativa, trova la forza per porre termine al nuovo soggetto che in realtà non chiede la separazione da Mosca ma più indipendenza economica e legislativa. Formula che secondo l’allora governatore Eduard Rossel’ è riproponile anche in questa fase storica, per garantire sviluppo strategico alla regione e a tutta la Federazione 16.
Non mancano in Russia altre forme di contestazione in odore di antipatriottismo. Come gli attentati contro alcuni distretti militari per l’arruolamento nell’esercito russo dati alle fiamme in molte città del paese e persino in Crimea 17. Azioni seguite anche al dibattitto su come a morire in Ucraina siano soprattutto i soldati federali provenienti da minoranze etniche e dalle regioni più indigenti; mentre i russi che abitano quelle più agiate, quali Mosca e San Pietroburgo, riescono secondo Foreign Policy a evitare il fronte 18. La conta dei caduti appare particolarmente rilevante in regioni come Daghestan o Buriazia. Repubbliche povere, spiega Aleksandra Garmažapova, a capo della fondazione antiguerra Free Buryatia dove, come nel caso del suo paese al confine con la Mongolia, i ragazzi non hanno molte possibilità di impiego: o emigrano o entrano nelle Forze armate. Non è escluso che a questa ragione principale si possa aggiungere anche la scelta della leadership militare di mandare al fronte molti soldati di etnia non russa, meno legati agli avversari ucraini. Secondo Garmažapova i buriati che partecipano al conflitto vogliono essere riconosciuti pari dei russi. Infine, rivendica per la sua repubblica il diritto alla democrazia e alla libertà all’interno di una vera Federazione, oggi esistente solo sulla carta 19.
Un sistema di relazioni autenticamente federalista, secondo Nikolaj Petrov, potrebbe indirizzare i malumori regionali in una direzione costruttiva, ma potere ed élite militari non capiscono il federalismo e non intendono accettarlo. Il nuovo disegno che il Cremlino cerca di immaginare per il prossimo futuro dovrà trovare il giusto collante per tenere insieme centro e periferia. Altrimenti il rischio è che la Russia stavolta possa davvero finire in pezzi.
Note:
1. «Putin Compares His Actions to Peter the Great’s Conquests», themoscowtimes.com, 9/6/2022.
2. I. Sidorkova, «Čemezov nazval bessmyslennym popytki zameščenija vsego importa» («Čemezov ha definito insensato il tentativo di sostituire completamente l’import»), rbc.ru, 15/6/2022.
3. G. Chiesa, «La Russia esiste ancora?», Limes, «La Russia a pezzi», n. 4/1998, pp. 19-32.
4. «Istorija dogovornykh otnošenij Kremlja i Tatarstana» («Storia delle trattative tra il Cremlino e il Tatarstan»), kommersant.ru, 11/7/2017.
5. «Čislo dotacionnykh regionov v 2022 godu snizitsja do 62» («Nel 2022 il numero delle regioni sovvenzionate scenderà a 62»), iz.ru, 22/11/2021.
6. V. Prikhod’ko, P. Tamagut, «300 mlrd na soderžanie “pekhotinca prezidenta” i žitelej Čečni: vse li verno v podsčetakh glavy Čečni» («300 miliardi per il mantenimento del “fante presidenziale” e dei residenti della Cecenia: è tutto corretto nei calcoli del capo della Cecenia»), expertsouth.ru, 25/1/2022.
7. O. Moscatelli, M. De Bonis, «Non tutte le Russie sono di Putin», Limes, «La Russia non è una Cina», n. 5/2020, pp. 45-57.
8. A. Tóth-Czifra, «How to be a successful region in Russia: the case of Tatarstan», imrussia.org, 1/2/2022.
9. «Čto izmenitsja v sisteme publičnoj vlasti v Rossii?» («Cosa cambierà nel sistema dei poteri pubblici in Russia?»), duma.gov.ru, 1/6/2022.
10. I. Azar, «Vozvraščenie kazanskogo khana» («Il ritorno del khan di Kazan’»), novayagazeta.ru, 13/12/2022.
11. V. Mišina, «Rustam Minnikhanov ostalsja pri dolžnosti prezidenta» («Rustam Minnikhanov rimane presidente»), vedomosti.ru, 5/6/2022.
12. «Minnikhanov: “Russkij jazyk, kak i vsja naša mnogonacional’naja rossijskaja kul’tura, nuždaetcja v zaščite”» («Minnikhanov: “La lingua russa, come tutta la nostra cultura multinazionale russa, ha bisogno di protezione”»), m.business-gazeta.ru, 6/6/2022.
13. V. Shtepa, «Putin Opens Pandora’s Box for Russian Regionalism», jamestown.org, 17/5/2022.
14. «In Rare Display of Dissent, Lawmakers In Russia’s Far East Urge Putin To Stop Ukraine War», rferl.org, 27/5/2022.
15. D. Sarutov, «Antiural’skaja isterika imperskogo propagandista» («L’isteria anti-Urali del propagandista imperiale»), region.expert, 2/5/2022.
16. N. Anisimova, «Rossel’ vspomnil ob Ural’skoj respublike i preferencijakh dlja oblasti» («Rossel’ ha ricordato la Repubblica degli Urali e le preferenze per la regione»), rbc.ru, 03/5/2022.
17. «In Graphs: How Putin’s Invasion of Ukraine Impacted Russia», themoscowtimes.com, 3/6/2022.
18. A. Kovalev, «For Opposition to Putin’s War, Look to the Fringes of His Empire», foreignpolicy.com, 20/5/2022.
19. F. Kurbangaleeva, «“Burjaty protiv vojny” – pervaja etničeskaja antivoennaja iniciativa» («Buriati contro la guerra, la prima iniziativa etnica contro il conflitto»), republic.ru, 19/4/2022.