Per un uomo elegante e compassato come Giuseppe Conte deve essere stato pari a una tortura subire con sorriso forzato gli abbracci e gli slanci maneschi del suo dante causa ( ” colui che trasmette – dante – un diritto “, ling. giuridico ), Beppe Grillo, tanto più che sa bene chi racconta balle sulle pressioni che Mario Draghi avrebbe esercitato sull’Elevato per rimuoverlo dalla guida del M5S.
Non può nutrire dubbi sull’affidabilità delle rivelazioni fatte dal sociologo napoletano Domenico De Masi e sa che non è il premier ma il Garante che un anno prima lo ha pubblicamente bollato di incapacità e assenza di visione politica.
Una consapevolezza che non aiuta a sciogliere il dilemma tra rimanere al governo mantenendo il profilo moderato che più gli è congeniale o sbattere la porta in faccia all’amico-nemico Mario Draghi, oggi o in autunno, nel tentativo di recuperare un consenso che, con l’abbandono di tutti o quasi i pilastri del pensiero pentastellato, va scemando di giorno in giorno.
È in questa incertezza che sono state messe a punto le nove condizioni per restare in maggioranza ma nessuna di queste è davvero indigeribile per il premier.
La discontinuità invocata è piuttosto una richiesta di continuità con le politiche del Conte primo e del Conte secondo, dal reddito di cittadinanza alle causali per i contratti di lavoro a tempo determinato (decreto dignità), dal superbonus 110% al cashback fiscale, una misura affine al precedente e assai discusso cashback di stato.
Niente che non possa essere accolto, magari con qualche limatura, dagli alleati di governo.
Lo stesso può dirsi per il salario minimo, per gli aiuti a famiglie e a imprese, per gli investimenti sulle energie rinnovabili, per la rateizzazione dei debiti fiscali e per la garanzia che il governo torni in parlamento per la discussione di quei decreti legislativi non conformi ai pareri espressi dalle commissioni parlamentari. Su queste basi non si rompe.
Così stando le cose, il governo non corre seri rischi ma è altrettanto evidente che l’iniziativa avviata da Conte non sarà neppure utile a frenare l’emorragia del suo elettorato, crollato dal 33% delle elezioni politiche 2018 al 17% delle europee 2019 e al 7% delle regionali 2020, ancor prima della scissione operata da Di Maio.
Se Conte avesse voluto mettere in serio imbarazzo l’esecutivo avrebbe inserito fra le richieste quella, pur ventilata alla vigilia dell’incontro chiarificatore con Draghi, di uno stop all’invio di armi in Ucraina.
È molto probabile che in questo caso la rottura sarebbe stata inevitabile. Ma una rottura su questo punto, ammesso che fosse nelle corde dell’avvocato del popolo, sarebbe stata utile a recuperare consensi o avrebbe esposto maggiormente il fianco alle critiche di un Di Maio calatosi oramai perfettamente nei panni dell’uomo politico responsabile e atlantista?
C’è, invece, una richiesta altrettanto forte che metterebbe in difficoltà i vecchi compagni di cordata e potrebbe far recuperare ai Cinquestelle la simpatia di una parte del Paese, il Mezzogiorno, dove il M5S ha da sempre la sua base elettorale più consistente, ma non solo di quella.
Conte chieda a Draghi di mettere da parte il disegno di legge sull’autonomia differenziata collegato alla legge di bilancio per il triennio 2022-2024o almeno di non riservargli un iter legislativo che sottrae le norme da approvare al dibattito in parlamento e persino a un eventuale referendum abrogativo.
L’autonomia differenziata nuoce al Sud e mette a serio rischio l’unità nazionale, un bene che dovrebbe interessare gli italiani di tutte le regioni. Su questo punto l’eventuale rottura sarebbe comprensibile a chiunque e avrebbe il merito di accendere i riflettori su una questione di enorme rilevanza per il Paese, di cui si continua a parlare poco e a dibattere per lo più tra specialisti. Su questo punto si può andare sulle barricate anche con la pochette.