Questo libro è un’autobiografia in forma di raccolta di aforismi, aneddoti e ritratti folgoranti, un manuale di conversazione e un manuale di scrittura, una rassegna ininterrotta di pagine perfette in uno stile senza tempo. Ricostruisce il mondo di cui Indro Montanelli è stato non solo testimone ma protagonista mettendo al centro il suo punto di vista, il suo sguardo, la sua voce: dà quindi particolare risalto ai testi intimi e non concepiti per la pubblicazione come i diari e le lettere, alle interviste, alle risposte ai lettori («l’impegno che m’è riuscito meglio, o meno peggio») e a quello straordinario memoriale appena camuffato da invenzione narrativa, Disse male di Garibaldi, parte del romanzo Qui non riposano, uscito nel 1945.
Questa autobiografia per frammenti contiene cronache di guerra dall’invasione tedesca della Polonia nel 1939 alla rivolta di Budapest del 1956, e non è solo lo stile a essere di sconcertante attualità: presenta una galleria di protagonisti della storia italiana, della politica e della cultura del Novecento colti nei dettagli rivelatori; dà conto di un Montanelli poco noto, in servizio come critico cinematografico; ripercorre le ideologie e le contrapposizioni di un secolo, raccoglie i giudizi sui tratti distintivi del carattere nazionale e si sofferma sulla scrittura e sul mestiere di una vita, il giornalismo al servizio dei cittadini e non del Palazzo. Questo libro è il naturale punto d’incontro di due desideri: restituire lo spirito di Montanelli, e mirare al puro piacere della lettura, in una festa di battute, lampi, accensioni, rivelazioni che sorprenderanno sia i lettori che credono di sapere tutto di Montanelli sia quelli che lo conosceranno attraverso queste pagine.
Rizzoli, 2001
Questo romanzo fu pubblicato in Svizzera nel 1945, dove l’autore si era rifugiato per sfuggire ai nazifascisti, con il titolo di Drei Kreuze (Tre croci). Ispirandosi liberamente al romanzo di Wilder, “Il ponte di San Luis Rey” Montanelli racconta in prima persona le sorti di tre italiani qualunque trovati misteriosamente assassinati in Val d’Ossola il 17 settembre 1944. Chi li ha uccisi? Perché? A queste domande non è possibile dare una risposta finché il vecchio parroco, in procinto di essere deportato in Germania, consegna all’autore alcuni fogli manoscritti in cui è contenuta un’incredibile verità.
IL MANIFESTO DEL 7 LUGLIO 2022
https://ilmanifesto.it/unantologia-di-favole-firmate-montanelli
Un’antologia di favole firmate Montanelli
LIBRI. Deve essere un po’ in affanno l’editoria italiana se esce per Mondadori-Rizzoli un altro volume autobiografico «di un genio italiano». E Indro era un genio sì, ma a inventarsi un sacco di storie
Fabrizio Tonello
Dopo due anni di vacche grasse l’editoria libraria è in affanno e qualcuno, alla Mondadori-Rizzoli, ha deciso di grattare il fondo del barile. Capiente barile dove stanno decine di opere di Indro Montanelli, modestamente definito “Il più grande giornalista italiano del Novecento” nel risvolto della nuova antologia di suoi scritti, pubblicata nei giorni scorsi con il bizzarro titolo Se non mi capite l’imbecille sono io. Il titolo fa riferimento a un episodio, probabilmente inventato, in cui un comune cittadino dell’Ohio avrebbe apostrofato l’aspirante giornalista gridandogli «Se io non ho capito l’imbecille è lei!» (p. 286).
IL LIBRO si presenta come “Autobiografia irregolare di un genio italiano” ma la finta modestia del titolo redazionale è tanto più bizzarra quanto Montanelli non faceva mistero del suo disprezzo per i lettori, e per gli italiani in generale, in particolare nei suoi diari e negli acidi interventi della vecchiaia quando ritornò al Corriere della sera. Il suo senso di superiorità sugli abitanti della nostra penisola datava da molto prima: per esempio, l’8 maggio 1949 scrisse sul Corriere «Noi amiamo i nostri lettori, ma diffidiamo un poco di quelli dalla memoria troppo lunga». Aveva ragione, perché chi ricordava allora, o ritrova oggi, i suoi articoli nella lunga stagione di inviato di guerra scopre che Montanelli, più che “il più grande giornalista del Novecento” è stato il più grande affabulatore del Novecento.
Lo spazio di un articolo non consente di fare molti esempi quindi ci limiteremo a citare ciò che compare nel volume appena uscito, dove vengono riprese parecchie pagine da La lezione polacca, pubblicato nel 1942 da Mondadori e ripubblicato con il titolo Cronache di guerra nel 1978.
Una nota redazionale in fondo a Se non mi capite… ci dice che il libro originario conteneva “rivisti e ampliati” i reportage scritti per il Corriere da Germania e Polonia nel 1939. Rivisti, di certo, ampliati forse: peccato manchino all’appello alcuni degli articoli più succosi dello spericolato giornalista-romanziere.
A P. 51 di Se non mi capite… Montanelli scrive: «Mi trovavo in Germania dalla fine di luglio 1939 al seguito di una centuria di Giovani fascisti in bicicletta. La stampa parlava delle atrocità polacche». È un peccato che la zelante redazione dell’antologia abbia tagliato questo brano: «Via via che si procedeva nell’interno del Reich, l’accoglienza delle popolazioni si faceva sempre più calda. I Gauleiter ci venivano incontro e ci arringavano…». E sull’entusiasmo del cronista i titoli del Corriere non lasciano spazio a dubbi: “Il marziale saluto del Segretario del Partito” (31 luglio); “I Giovani fascisti in Baviera” (4 agosto); “Con le camicie nere attraverso la Germania di Hitler” (13 agosto). Ciliegina sulla torta: “Goebbels parla ai ragazzi di Mussolini” (22 agosto) in cui Montanelli loda la “voce calda e chiara” oltre alla “cordialità” del ministro della Propaganda nazista.
UN CONFRONTO tra il libro e gli archivi del Corriere, meritoriamente disponibili on line, ben organizzati e facili da consultare, permette di scoprire che, al seguito delle truppe tedesche che invadevano la Polonia, il 6 settembre 1939, Montanelli aveva scritto: «Abbiamo incontrato il Fuehrer. Era venuto come aveva promesso a condurre egli stesso i suoi soldati, primo soldato della Germania. Semplicemente vestito nella sua uniforme grigioferro con la sola decorazione della croce con esiguo seguito, modestissimo. Era venuto per essere con i suoi al momento del passaggio della Vistola, momento sacro nella storia della Germania. (…) il volto di Hitler ermetico, diafano, lontano come il suo sguardo». A chi altri sarebbe venuto in mente di dipingere Hitler come qualcuno di “modestissimo”, dal “volto diafano”?
La guerra, si sa, è il paradiso delle fake news, e quindi può darsi che questo incontro sia avvenuto come no. Sappiamo, invece, per certo, che l’articolo successivo, “In volo su Varsavia”, fu di pura invenzione. Scriveva Montanelli: «Varsavia è intatta. Dall’alto (non molto alto) dell’aereoplano abbiamo esplorato la deserta città quasi strada per strada. Tante strade uguali male pavimentate fra case disuguali male architettate. È una città sfatta, Varsavia (…) Qualche masserizia per le strade sconnesse, un carro rivoltato, un autocarro rimasto infisso col radiatore in uno spigolo di casa. E la piazza del castello dall’alto pareva una caricatura di piazza di Spagna» (Corriere, 9 settembre 1939).
ANCHE QUI lo stile impressionistico, il finto realismo creato dai dettagli curiosi (“galline razzolavano beccuzzando, guardandosi intorno stupite…”). Successo di critica e di pubblico ma falsità completa: lo sappiamo perché nell’ Archivio centrale dello Stato esiste un rapporto dell’OVRA dell’agosto 1940, nel quale si rivela che Montanelli “ebbe modo di inventare di sana pianta la relazione di un suo volo su Varsavia”, come confermato nel 2006 dall’ottima biografia di Sandro Gerbi e Raffaele Liucci, Lo stregone.
Molto usata, nel nuovo volume, anche l’intervista-testimonianza Soltanto un giornalista curata da Tiziana Abate e uscita postuma nel 2002, sempre da Rizzoli. In quel testo ci sono innumerevoli episodi dubbi o inverificabili ma una delle parti più costellate di invenzioni è quella relativo al brevissimo periodo in Norvegia, durante l’invasione tedesca del 1940, cui seguì uno sbarco di truppe inglesi e francesi, che dopo un breve periodo furono costrette a ritirarsi.
MONTANELLI sosteneva di essere arrivato a Namsos, dov’era la base franco-inglese e di aver trovato questa situazione: «Nessuno sapeva quale fosse il suo reparto d’appartenenza, il materiale sbarcato s’accumulava alla rinfusa sul greto del fiordo: i formaggi insieme alle mitragliatrici, il whisky insieme ai fucili. Comandavano tutti e nessuno. In quel bailamme io e Stevens [un collega inglese] potemmo allestirci una tenda principesca, ricolma di vettovaglie, che fu battezzata ‘il Ritz’. Io avevo visto la macchina militare tedesca operare in Polonia: uno strumento a orologeria, che non sgarrava né d’un minuto né d’un metro. In confronto la macchina da guerra franco-inglese pareva l’esercito di Franceschiello».
Affascinante ma la “tenda principesca, ricolma di vettovaglie” appartiene soltanto alla fantasia del romanziere: allo sbarco francese, testimoniò il comandante della spedizione Carton de Wiart nelle sue memorie di guerra, i tedeschi risposero immediatamente con un bombardamento “e nel giro di poche ore Namsos fu ridotta in cenere. Le perdite non furono gravi, poiché le mie truppe erano avanzate e i francesi erano accampati fuori città”.
Montanelli, in un articolo datato Formofoss, una cittadina norvegese a qualche chilometro da Namsos, riferisce dei danni del bombardamento nel suo stile consueto: “Noi abbiamo visto gli effetti delle esplosioni. Vetture furono sollevate di peso, sbalestrate in mezzo alla città. I binari colpiti non si spezzarono ma (…) si slargarono in ampolle di cinque o sei metri di diametro per ricominciare, di poi, a correre in rette parallele” (Corriere, 1 maggio 1940).
NEL LIBRO, la realtà romanzesca si arricchisce di un impossibile viaggio “sotto la grandine delle bombe tedesche nella stiva di un incrociatore stipato di soldati inglesi”, con addirittura il generale Carton de Wiart che avrebbe detto a Indro: “Venga con noi”. In realtà le navi inglesi erano ovviamente dirette in Gran Bretagna (sarebbero arrivate dopo poche ore di navigazione alla base di Scapa Flow) mentre Montanelli già due giorni dopo era a Stoccolma, città dalla quale dettava un articolo intitolato “Dove sono annegate le vanterie britanniche”. Ma alla Rizzoli glielo hanno spiegato che nel 2021 le cose si possono controllare e le bugie, anche dei “geni” hanno le gambe corte?
Sandro Gerbi, Raffaele Liucci
Lo stregone
La prima vita di Indro Montanelli
«Indro carissimo, ho riletto pacatamente il tuo scritto sul 25 luglio ’43 e ne sono rimasto entusiasta ed ammirato. Tu sei riuscito a fare di questa storia una cosa originalissima, piena di novità e scoperte anche a me stesso. Sei uno stregone davvero!»
Dino Grandi a Montanelli, 1963
Indro Montanelli rappresenta un caso unico nella storia del giornalismo italiano. Sarà per l’impareggiabile facilità di scrittura o per il temperamento sulfureo e anarco-conservatore, o anche per l’inusuale longevità professionale. Fatto sta che a cinque anni dalla scomparsa, la sua fama di testimone del Novecento rimane intatta. La grande firma del «Corriere della Sera» è tuttora oggetto di animate discussioni, i suoi lavori sono costantemente ristampati e opinionisti di ogni tendenza ricorrono alle sue sferzanti battute. Ma nemmeno le biografie montanelliane piú recenti, basate come sono su aneddoti di dubbia consistenza o sulle discordanti interviste da lui rilasciate, soddisfano le legittime curiosità dei lettori. Questo libro, dal piacevole taglio narrativo, è il primo ad affrontare Montanelli attraverso la sua sterminata produzione giornalistica, le sue opere a stampa e una miriade di fonti archivistiche finora inesplorate. Tra luci (le corrispondenze dall’Ungheria) e ombre (l’oscillante approccio alla «questione ebraica» o le iniziative «eversive» degli anni Cinquanta), tra verità e millanterie, emerge un Montanelli per molti versi inedito. Che non mancherà ancora una volta di dividere l’opinione pubblica.
Montanelli suscita tuttora passioni contrastanti. Era stato originale e preveggente suo padre Sestilio, al momento del battesimo di quell’unico pargolo. Gli aveva infatti attribuito quattro nomi: Indro, Alessandro (nonno materno), Raffaello (nonno paterno) e Schizogene. «Schizogene»? Pare uno scherzo, ma un’elementare analisi etimologica consente di svelare l’arcano. Basta tradurre le due parole greche che compongono il nome, «schizo» e «gene». Ed ecco il «generatore di divisioni» o, piú efficacemente, il «seminatore di zizzania». Nulla di piú pregnante per sintetizzare il provocatorio temperamento, insieme charmeur e scostante, del nostro protagonista. Che nel corso degli anni, tra una polemica e l’altra, ha comunque depositato nell’opinione pubblica l’immagine del giornalista libero per eccellenza. È davvero stato cosí? Oppure le sue tesi, spesso presentate come sorprendenti o «controcorrente», meriterebbero una piú seria e pacata riflessione? Tutti hanno in mente il Montanelli del «Giornale» e poi quello dell’ultimo periodo al «Corriere»: un sopravvissuto ai contemporanei, che ha costruito la propria leggenda incarnando il fascino della storia. Oggi è forse giunto il momento di cominciare a «storicizzare» il mito, senza preventive assoluzioni o condanne.