Chiara continua a pubblicare vecchie cose …

 

 

 

Ma più di tutto vorrei parlarvi di oggi (bozza)

Marc Seales – New  Stories – Highway Blues

https://www.youtube.com/watch?v=KuyogMrZqd4

Ma più di tutto vorrei parlarvi di oggi, della “bestia” con cui mi intesto anche in questo momento mentre vi parlo, ma credo invece che vi parlerò del passato. Non è in verità, questa di oggi, una grande bestia, piuttosto una bestiolina assonnata e sgusciante, voglio dire che mi sguizza tra le mani per quanto l’afferri e così facendo mi toglie la voglia di combattere: una nebbiolina in cui mi perdo, l’obbiettivo incerto e contradditorio al mio sentire: “so-non so/ voglio-non voglio”.

Di questa mia svogliata battaglia, una storia che in realtà va da sé sciolta come la vita, vi lascerò all’oscuro almeno per ora. Questo vedere tutto lontano da me, eventi e persone, questo fregarsene in fondo di tutto, di tutto quello che non brucia la tua identità, s’intende!,  segna il tradimento di tutta una vita, la mia, abituata a vedere un albero, un cielo, un bambino, un fiore, tutto quanto è bello, insomma, diventare “una persona” con cui colloquiare.

Se, in febbraio, all’epoca della fioritura, almeno qui in Liguria, guardavo una mimosa, io stessa ero quello splendore di luce sulla collina e mi sentivo bene; una persona, altro esempio, addirittura chiunque, anche chi incontravo per caso per strada (il ragazzo che sta fisso sotto casa seduto su una panchina, tutti i giorni, a volte è ubriaco, ma di poco,  per giocare mi chiede cinquanta euro ed io, dandogli una moneta, gli dico: “te ne do cento”) era subito mio “familiare”, come dire, guardandolo negli occhi era come lo abbracciassi stretto; e i racconti che gli altri mi facevano di loro stessi, diventavano i miei stessi racconti.
Troppi “neuroni specchio” (quelli che ci permettono di empatizzare) o troppo vivaci, trasbordanti sulle altre cellule nervose che ci mostrano il mondo come oggetto. Fermo, distante e indifferente a noi che guardiamo. Forse, con la vecchiaia, questi neuroni che ci lasciano immedesimare con gli altri, si sono un po’ spenti…Forse “rotolo correndo nella vecchiaia”, come dice mia figlia, che si chiama Francesca…

Ma so che non è questo. La mia ipotesi è che sia arrivata la fine conclamata della malattia. E, francamente, non so se mi piace. Perché diventare “normale”, normale in tutto, “adeguata”, “adattata” a questa ” m. di mondo “, è il termine giusto,  ecco, non è mai stato un mio obbiettivo di vita.

E a voi?

Questa “normalità” che vi circonda vi piace, vi aiuta a vivere meglio? Non la sentite stretta, in certi momenti soffocante, spesso impossibile da vivere?

“L’altro sempre strumento e mai fine”

“Niente rapporti tra persone”

“Meglio stare nei ruoli, nella maschera”

“Se colpiscono la maschera, non colpiscono me”

Ma non dicono: “A forza di stare dietro la maschera, “io” non ci sono più”

“Non ti piacerebbe ricordare come eri ieri, l’altro ieri e ieri l’altro ancora?” chiedo a mia sorella.

“No, sto bene, sono felice così e non vorrei cambiare”.

“ E così come sono, che mi butto tutto dietro alle spalle, vivo senz’altro meglio di te!” è la risposta che i più mi danno.

Quando ho il coraggio di chiedere.

Ma – mi chiedo sconfitta – ha un senso dirmi che “così”, come vivono loro, per me non è vita?

Gente che non ha mai il bisogno di chiedere la verità!

E’ allora che mi guardo dall’alto, credo da lassù in alto ben oltre la nostra galassia…recentemente ho letto che ve ne sono altre, tante altre, una con un sole e sei pianeti che girano intorno proprio come la nostra…e vedo un minuscolo puntino, veramente non si vede neanche, ma me lo immagino, e sono io che, per la frazione di un battito di porta, esisto e pretendo un nome…e ho delle opinioni…!

Che vivere è intrecciare relazioni, tanti fili che legano tante cose, una coscienza che integra tutti i momenti della vita, ci prova per lo meno, e credo anche che è meglio essere così che colà! Ma figuratevi come è ridicolo questo pulviscolo di un attimo che neanche si vede, bisogna immaginarlo tanto è insignificante!

Ebbene, è allora che mi sento proprio una stupida, la propria stupida messa lì!

Ma, nonostante tutto questo sia vero, vissuto davvero fino in fondo, fino a scomparire nel nulla…”io mi vedo veramente”,  testarda e arrogante voglio affermare che i normali tanto bene non stanno e che gli psicotici, gli “anormali”, di cui loro hanno una indicibile terrore, proprio i malati di mente, ripeto, con il loro insieme di valori, “io”, insomma, quel pulviscolo che bisogna sognarselo se no non esiste,  voglio “gridare” (piano) che la loro serietà di fronte alla vita e alla morte, la grande onestà con se stessi e la dimensione del gratuito che reclamano, per dire i valori principali, ha molto da dire ai normali. E di questi tempi, mi appare addirittura urgente.

Così, ripeto: “nonostante tutto”, voglio raccontarvi il loro (nostro) mondo, farvelo almeno conoscere, anche se agli inizi vi sembrerà che nulla ha a che fare con voi.

Ma aspettate: non voglio denigrare i normali né esaltare i malati, sarebbe un’idiozia. Entrambi mi appaiono come “visconti dimezzati” in cerca di una pastorella che li ponga in dialogo e un chirurgo che li cucia, se ricordate Calvino.

 

L’ipotesi mia che vi sottoporrò, la verità della mia lunga storia è che i veri sani sono gli ex-malati, quelli che in vario modo hanno ascoltato la loro parte pazza, e, quando ci sono riusciti, l’hanno rimodellata,  e …(e qui ho veramente bisogno di voi) mantenendo in buona parte il loro punto di vista di psicotici, hanno provato a riappropriarsi della normalità.

 

Ma ricordatevi sempre che tutto questo mio affermare-e discutere- e oppormi-e poi fare pace col nemico- e poi di nuovo ricominciare è…attenzione!…di quell’inutile pulviscolo, un po’ pelosino, lasciatemelo dire, ma praticamente inesistente, di cui vi ho già detto.

 

E’ comunque, la mia, “la bestiolina”, quella di oggi (cosa siamo noi? Come ci mettiamo in relazione? “tutti soggetti o tutti oggetti… solo strumenti o solo fini…siamo sempre persone, in tutti i momenti della nostra vita anche quando vaneggiamo,  o lo siamo solo ogni tanto?”), un dubbio e una lotta per “esserci” che mi porta lontano dalla malattia mentale, tanto lontano da non aver più significato l’espressione “una psicotica guarita”, con cui descrivevo me stessa nello scritto che vi porgo in seguito (voglio sentire da voi critiche ed elogi, o anche dei “così così”, dei “tutto scontato”, “già si sapeva…e da tempo!”. Va tutto bene purché uniate la vostra voce alla mia.)

Oggi mi guardo e ho la sensazione di essermi inoltrata in un altro pianeta, proprio come è già successo al tempo della crisi, adesso sono accanto a voi, ma questo pianeta in cui sono entrata timidamente e con reticenza è quello degli “assolutamente normali”, se mai potessero esistere.

 

“Non è a me che è successo”, mi dico, “la malattia non mi riguarda più”. E mi fermo perplessa. Guardo in avanti e vedo solo deserti che non mi suggeriscono niente. E’ anche per questo che ho bisogno di voi tutti. Di voi, per suggerirmi le parole che mi permettano di entrare in società, nella “buona società”, ma senza abbandonare la mia, quella dei malati, e i valori in cui ho creduto.

 

Non voglio solo entrarci, ma sentimici bene. Invece oggi, forse perché sono a metà, mi sento molte volte a disagio. La gente mi dà disagio e mi disorienta. A meno di riuscire a stare sempre nella prima fila di un teatro… allora ti diverti da morire!
Ma io non ho abbastanza pratica di questo vostro mondo e, per così dire, scendo sempre dal pero… un po’ ammaccata!
Ma il mio problema esiste ed è vivo in me e mi spinge ad ascoltarvi: come essere parte di due comunità tanto distanti come quella dei malati mentali e quella dei normali, sentendosi “a casa” in entrambe? Ci vorrebbe qualcuno accanto a me, simile a me, un gruppo, un individuo è sempre troppo fragile.

Se avessimo un gruppo, subito potremmo formare una compagnia di teatro…canterina! Il mio sogno era fare l’aedo, raccontare le mie storie, magari nei vari paesini arroccati del Ponente ligure, con l’aria fine d’inverno e la luce dell’estate che sa di basilico e gerani rossi. Cantare a tutti questa bella storia a lieto fine, questo è d’obbligo, perché è a lieto fine, una storia in cui l’eroe percorre le montagne più impervie della malattia mentale, l’appennino ligure, magari, e da solo, sì, deve essere molto da solo, come è stato nella realtà, ma per la storia si può esagerare… giusto un pizzico!
Ahimé sono una donna, una donna eroe che scala solitaria montagne ostili (e ignare) è un po’ improbabile, ma io l’ho fatto, psichicamente s’intende, e devo raccontare la verità. Che è quella che vivevo nel territorio di tutti fino a trent’anni, ma una grande vulnerabilità allo stress, che mi veniva da lontano, addirittura dall’ultima guerra!…quando sono nata, e la fede in valori difficili, “del tutto fuori”, dice mia figlia, come l’assoluta onesta, assoluta! la ricerca della verità: sempre!, anche in me stessa, la solidarietà con gli altri, sempre la generosità e mai l’egoismo!, “ogni essere vivo è una persona”!…

lo vedete da voi, ero storta, un albero storto che non poteva “adattarsi” e si è spezzato a trantadue anni: la polizia mi ha internato a Parabiago, a Milano nel 1966, tenendomi legata per tre ore (non si trovava un posto dove spacchettarmi) perché mi ero ribellata al personale che mi sollevava di peso mentre dormivo in un angolo del pavimento.

 

Un pacchetto!

Ecco, ci siamo arrivati: la mia è la storia felice di come un pacchetto diventa una persona, un po’ vecchietta, ormai, senza più l’occasione di farsi una vera professione, ma posso cantare, ho ancora una bella voce, ma non solo di me, di tante storie di malati e anche di sani che vogliono dire: “nonostante tutto” “gracias a la vida”.

Se sono ormai una normale, mi sorge subito una domanda: “come poter scrivere della mia pazzia ed essere credibile, adesso?”. Adesso che assomiglio a tanti altri che vedo passare nelle strade accanto a me?  Ma rimane, nonostante tutto questo, il bisogno di parlarvi, a voi malati, a voi normali, soprattutto alle famiglie e anche ai professionisti, se mai vorranno prestare attenzione, a me che sono solo una paziente; voglio parlarvi ed ascoltarvi con molta attenzione perché in base a quello che mi dite voglio modificare il mio scritto e, certamente, la mia testa.

Oggi preferisco farlo con testi di molti anni fa, quando ero guarita, per come si può guarire da una psicosi, ma questo star bene era così recente che mi lasciava ricordare perfettamente come ci si sente da malati.

Ma, a questo punto, quando ormai sapete tutto di me, passato presente e futuro (il mio futuro siete voi che potete offrirmi verità che non conosco), voglio dirvi con chi state parlando: mi chiamo Chiara, uno pseudonimo che mi somiglia più del mio vero nome che è “Bruna”. Ho anche trovato un cognome: Salvini… ”Chiara Salvini” a me suona bene. E a voi? Posso cambiarlo se non vi piace.

 

Come avete ormai chiaro, visto che l’ho ripetuto quasi una cantilena, sono stata per tanti anni, per secoli di sofferenza, una malata mentale. Una pazza. Una matta. Una fuori di testa, come dite voi giovani. E anche se ritengo che non ci siano così tante differenze tra una psicosi e l’altra come si trovano nei manuali, vi dirò la diagnosi che mi è stata fatta nel ’75, quando avevo trent’anni: una psicosi maniaco-depressiva, disturbo che da tempo chiamano “bipolare” perché uno viaggia attraverso due poli, una troppo caldo e uno troppo freddo. Così non ha mai un posto dove posare il capo.

Ma non è che i miei compagni di avventure, i vari schizofrenici, siano tanto differenti da noi così estremati perché anche loro vivono tra due poli opposti, forse più terribili: l’essere, l’esistere/ e il morire. Morire piano piano, assopirsi, a volte per sempre, in uno stato quasi vegetativo. Assistendo, svegli, a questo lento deliquio della loro mente. Come a noi accade durante il delirio.

Immaginate uno, perfettamente lucido, condannato ad assistere alla lentissima decomposizione del proprio corpo mentre, lui, è vivo: questo è stato il mio delirio, solo che assistevo al venir meno della mia mente.

Il contenuto dei miei vari deliri è sempre stato lo stesso: cercavo una terapia per gli psicotici dal momento che mi ero convinta che non c’era. E vedete, anche se questo non è più un delirio, la cerco ancora con voi: molti miglioramenti sono stati fatti nell’ultima metà del secolo scorso, ma una cura che risparmi tante inaudibili sofferenze ancora non c’è.

Anche noi bipolari abbiamo un possibile “per sempre” che ci aspetta come per gli schizofrenici, anzi due e  ve li dico subito: tra di noi ci sono malati che rifiutiamo le medicine o le prendono in modo irregolare.

Oppure non vogliono fare una psicoterapia anche quando è necessaria (una psicoterapia a fianco dei farmaci è sempre necessaria). Queste persone rischiano di rimanere malati “per sempre”.

Un’altra sorte ci riguarda e questa è definitiva: più spesso la depressione, quando arriva a far sparire totalmente l’immagine di noi stessi, ma anche il delirio quando è un macigno da sorreggere che dura tanto tempo, entrambe queste situazioni sono condizioni che possono portaci al suicidio.

Immediatamente, a proposito di suicidio e di morte nella malattia mentale, vi devo dire una cosa seria: “è meglio morire che guardare noi stessi in delirio”, meglio morti che sapere e vedere che siamo pazzi: una parte normale, legata alla realtà, rimane sempre, e il confronto che questa parte sana, ad ogni istante, ad ogni milionesimo di secondo, fa con quella malata, è un’agonia che può durare mesi, anni, senza poter morire.

Osserviamo la nostra mente a brandelli, “mentre si fa a brandelli” sempre più piccoli, la nostra immagine, il nostro “io” distrutto in pulviscoli mentre piano piano sembrano sparire anche loro. E senza immagine o con un’immagine lacerata, nessuno può vivere.

Pensate forse che “senza un’immagine di voi stessi”, diciamo pure un’identità, un’identità qualsiasi, anche provvisoria, vi azzardereste ad uscire al mattino per incontrare gli altri e gli avvenimenti, a volte seri, che vi aspettano? Non si può. Matematicamente non si può, non avremo coraggio sufficiente. E’ come uscire senza pelle…senza una pelle mentale.

Infatti, questa è la funzione della nostra identità, proteggerci dall’urto del mondo.

Invece il malato mentale è uno che deve viverne senza e parlare con gli psichiatri, i terapeuti, quando ci sono, i compagni di delirio e quelli intorno a lui che non delirano più, ma non stanno bene, e i familiari!

I familiari sempre così incerti e ansiosi, purtroppo incapaci perché “non sanno”, ma in certi casi sono loro e i parenti, quelli che ci rifiutano di più nella nostra verità perché provano una terribile vergogna di noi, loro congiunti. Ma a questa vergogna dovremo dare un nome.

 

Marco, attualmente mio amico e, precedentemente, mio paziente per circa vent’anni, definito dagli psichiatri “schizofrenico paranoide o paranoico”, ha sviluppato negli anni un’identità che prende la forma di chi gli sta di fronte: per questo non ha mai potuto accostare al suo viso il volto di un altro. A non essere un terapeuta, uno che lo cura, qualunque tipo di cura sia.

“Lui non c’era” e quindi non poteva esistere neanche “l’altro”.

Mi avete sentito? Riuscite ad immaginare in voi questo freddo siderale? Per questo, recentemente, gli ho proposto di diventare sua amica: volevo offrirgli finalmente “un rapporto gratuito”, fuori dai ruoli,  “tra gente dello stesso sangue”, se si potesse dire, dal momento che siamo parenti, o meglio dicendo, “familiari” strettissimi.

Fra di loro i malati si riconoscono subito come fratelli anche quando litigano, sanno di appartenere alla stessa tribù che li differenzia dai normali. Marco è rimasto colpito dalla mia proposta, ha capito che il mio era un “dono”, ma mi ha chiesto di farlo piano piano. Lasciandolo abituare all’idea. Le novità lo terrorizzano.

Forse lasciandogli imparare ad accettare un dono: penso che a lui sia sembrato “un impegno” che non si sentiva di assumere. Forse prima voleva lui fare un dono a me. Per non sentirsi umiliato, ma più di tutto si chiedeva: “Come ricambiare?”…io, nella situazione in cui mi trovo? Per ora ha accettato di pagarmi un compenso simbolico. Ma so che faremo progressi su questa strada.
Ha altri tre curanti, in ruoli diversi, ma nessun rapporto esclusivamente “tra persone”, nessun amico anche se fantastica continuamente di amici. Quelli di infanzia soprattutto. Che invece lo sfuggono. Anche al telefono, farfugliano sempre di impegni urgenti per cui devono correre. (Ma non è facile fare compagnia ad un malato senza avere il più piccolo strumento).

Pensate di passare una vita (ha sessant’anni ora) andando per strada senza mai incontrare qualcuno che vi saluta e vi chiede “come state”. Ci pensate come potreste sentirvi.

“Non esistente”, direi, perché sono gli altri a certificarci. Inoltre il più forte bisogno di un malato mentale è avere qualcuno abbastanza normale che lo abbracci comunicandogli che “anche lui ha diritto di esistere”.

Un malato mentale è uno a cui è stato tolto questo diritto e deve continuare a vivere con altri che “non lo riconoscono” uguale a sé. Un inferiore, sì. Una specie umana che “non ci riguarda”.
Ed io voglio “dimostrarvi” (proprio con la forza di un teorema, tanta è la mia certezza!) che è necessario per voi, sia chiaro per voi, per la vostra felicità che un matto vi parli e vi sveli quel mondo così fondamentale per esistere “sano” che ci studiamo fin da bambini di occultare. Perché ci da fastidio e ci fa soffrire, “scombina i nostri piani”.

Un’altra cosa che voglio mostrarvi è che “il familiare” del malato mentale è un ex malato.

Può avere uno psichiatra ed un psicoterapeuta, ma per quanto eccellenti siano questi professionisti, non stanno con lui in un rapporto di parità, in un terreno comune: uno ha conosciuto la malattia e l’altro no, la conosce solo nei libri o sulla pelle di un altro, mai sulla propria. E’ questo fa una differenza significativa. Perché stando così le cose, non può mai vederlo come un “familiare”, uno “come lui”, un uguale a sé, ma solo qualcuno su cui “chinarsi” per aiutarlo. E so bene che non è poco.

 

Ma io ho verificato che trattare uno psicotico come una “persona”, non un oggetto di cura, ma un soggetto che si cura con la nostra collaborazione, solo questo-ho visto- è già una cura, quella fondamentale in quanto gli  “restituisce” quell’umanità, quel “mondo comune” che ha perso con la crisi.

Ho detto che il compagno di strada (com-pagno, colui che divide insieme il pane) di uno psicotico può essere solo un ex-malato, ma ci sono varie iniziative che prevedono che i malati si possano curarsi tra di loro, senza un “intermediario”. L’unica “professione” riconosciuta  è aver vissuto la malattia mentale.

Nella mia esperienza, però, non è così e io posso parlare solo della mia esperienza. Uno psicotico è per definizione, se si potesse dire, chiuso nel suo essere, assolutamente centrifugato da se stesso al punto di scorgere nelle pareti che lo circondano solo variazioni della propria immagine e sono queste variazioni che lui chiama “gli altri”, il mondo.

Mettendo in relazione due malati in relazione, quello che ho osservato io, in diverse situazioni, invece,  è stato che il più forte (che in questi casi può anche voler dire “il più malato”) ha riversato tutte le sue parole sull’altro che lo ascoltava a disagio e che poi si è rifiutato di ripetere quell’esperienza. Mai più.

Di mio ho vissuto parecchi mesi in ospedali psichiatrici (in Italia prima della legge 180, e poi in Brasile, dove mi sono trasferita nel ’76), quando ancora nessuna riforma era stata votata in Italia. In Brasile c’erano quelli che da noi si chiamavano “manicomi” e bisogna osservare che il Brasile non aveva neanche avuto l’occasione, in quegli anni, di partecipare a quella “cultura” che in Italia ha preparato la legge Basaglia.

Posso testimoniare che quando sono stata ricoverata la prima volta a Milano nell’ospedale- o manicomio- di Parabiago, i miei superiori, per dire “i tecnici” mi hanno sempre trattato “con grazia”, se posso dire. In Brasile i rapporti erano ben diversi, pur stando nella parte privata dell’ospedale.

Qui devo dire che ho avuto un po’ di sollievo, un po’ di aria buona, non dal contatto con i vari ospiti come me, né da psichiatri e infermieri, ma conversando nelle notti in cui non potevo dormire (molte) con la persona che ci badava dalla sera alla mattina presto. Era la stessa che al mattino faceva la pulizia delle camere.

Queste persone, forse “disgraziate” come me (in Brasile la vita per questo tipo di gente era molto dura in un modo inimmaginabile in Italia) dopo un  po’ mi hanno permesso di entrare in quella grande cucina dove si riuniva tutto il personale non infermieristico alle cinque e mezzo del mattino.

 

Mi hanno mostrato come mettere il pane, dopo averlo tagliato a fette, sul gas, equilibrandolo sulle pareti di un enorme pentolone in cui bolliva il latte per tutto l’ospedale (le bottiglie sulla porta della cucina che dava sul cortile erano tantissime). Poi ci si passava il burro (forse margarina perché era morbido e si spalmava bene) mangiandolo poi con il caffè e latte. Tutti insieme. In tutto una decina. Ed io con loro. “Avevo acquisito il diritto di stare con loro”, gente tartassata dalla vita che mi accettava, pur “malata”, come fossi uno di loro. Io cercavo di non fiatare per la paura che mi rimandassero in camera. Ma non è mai successo. Parlavano e scherzavano tra di loro. Ragazzi e ragazze di età molto diverse, in generale più vecchi di me.

C’era anche un uomo che quando mi trovava nella parte pubblica dell’ospedale, dove andavo sempre perché potevo incontrare gente più divertente di quegli ammuffiti della parte privata, sempre zitti e inespressivi, dicevo, quando quest’uomo mi trovava lì, mi scorreva sempre via, con aria burbera ma allegra, come a dire: “ma sei ancora qui?!” Ma quando al mattino ci incontravamo nella cucina non mi diceva niente, anzi faceva mostra di non conoscermi lasciandomi  a mio agio.

Non essere notata, oppure essere trattata come una di voi, una delle tante possibili variazioni di questo mondo così colorato e così ingiusto, è ancora il mio intento, oggi, mentre vi porgo con gentilezza la mia storia in questi miei scritti di un tempo che non è più il mio e di cui a volte ho un po’ di nostalgia.
Sì, la nostalgia mi viene esclusivamente dal dover vivere in un mondo di chiacchiere, di pettegolezzi, direi, che è questo in cui viviamo: non c’è mai un momento per parlare di cose serie, a nessuno potrei fare le domande che mi sorgono se non a qualcuno che vive in una piccola tana come la mia e correre, non corre da nessuna parte.
Un superfluo, come me, che osserva lo spettacolo di questa società provando dolore.  Neanche indignazione. Dolore, sofferenza nel vedere tante cose belle, bellissime come le stelle buttate nel pattume, così, come una cosa “che si deve fare”, seri, impegnati e leggeri (sempre), divertenti e allegri.

Anni fa (ora non lo sono più, ho imparato ad avere una maschera) quante volte mi sono sentita chiedere: “Ma perché sei così seria? Fai come me, non ho memoria, mi butto tutto dietro e vivo bene, molto meglio di te!”

Recentemente (voglio dire circa dieci anni fa!) li ho ripresi in mano e riscritti (una psicoanalista che li aveva letti li aveva trovati “incomprensibili”) per renderli più chiari.

Ma una certa insoddisfazione della minuscola tana in cui vivo e osservo il mondo, anche se piacevole e tranquilla, mi ha spinto contraddittoriamente ad uscire e a mettermi di nuovo in gioco su questo sito, io che quest’anno, a luglio, ho 67 anni, io e la mia continua ricerca di ciò che sta “al di là”, io e la mia “preziosa” esperienza… che voi mi mostrerete essere uguale a quella di tutti noi, malati e sani.

Vi ho raccontato apposta l’esperienza nella cucina dell’ospedale per dirvi che so che troverò dei compagni tra i normali. Li aspetto.  Vorrei che mi certificaste il diritto di far parte della nostra comunità magari con un abbraccio. Magari con un rifiuto. In entrambi i casi sarei riconosciuta come un interlocutore, un “altro possibile”. Ma prima di tutto dobbiamo riscrivere il mio libro insieme. Siete pronti?

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1 risposta a Chiara continua a pubblicare vecchie cose …

  1. mariapia scrive:

    un abbraccio

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