TRE TESTI CHE INIZIAVANO QUESTO BLOG OLTRE DIECI ANNI FA…( 2011 )

 

 

 

chiara : questa mattina torno a vecchi temi e antiche esigenze da  cui è  nato questo blog. Nonostante la baldanza con cui scrivevo allora, mi è sembrato ancora oggi interessante. Gentilmente ve lo ripropongo, quizàs quizàs, come dice la canzone…

 

 

 

 

Io temo tanto la parola degli uomini.
Dicono tutto sempre così chiaro:
questo si chiama cane e quello casa,
e qui è l’inizio e là è la fine.
……….…………………………………..
A me piace sentire le cose cantare.
(Rilke)

 

 

 

Cantami o diva…

Questa poesia è un invito a leggere quello che segue mettendo tra parentesi, per quanto è possibile, il mondo della realtà e il suo modo di inquadrare le cose, per lasciar affiorare l’immaginazione e le emozioni, insieme al loro modo un po’ sognante di accogliere il mondo di un altro.

Ma quello che vorrei davvero io sarebbe una cosa impossibile e che oso dire solo a voce bassissima.
“Vorrei essere letta tenuta stretta in un grande abbraccio!”

Allora sarebbe possibile sentire il profondo canto di gioia che sale da tutto il racconto.
Voglio però chiedere venia per la sua “drammaticità”, così lontana dal bisogno di divertimento e di svago che caratterizza la nostra epoca, facendo miei i versi della poetessa polacca Wislawa Szymborska:

“Non avermene lingua se prendo in prestito parole patetiche e poi faccio fatica a renderle leggere”.

 

 

In costruzione e aperto a tutti

Questo blog è volutamente “in costruzione” (preferite “work in progress”?) perché non vuole essere una cosa definita, pronta da ingollare e ri-emettere attraverso qualche commento del tipo “mi piace” “non mi piace”.Vuole essere aria cielo terra acqua mare e sabbia, che corre verso uno “sconosciuto – non sapere”, che tocca a noi modellare, attimo per attimo (se ci riusciamo), lasciandolo però costantemente incerto. Voglio dire che, a mio modo di vedere, la realtà, dentro e fuori di noi, ammessa provvisoriamente una possibile distinzione, è un diamante dalle facce infinite: si può dire in tanti modi, ma tenendo buona questa immagine, ne consegue che ciascuno di noi – previo studio ed impegno costante- può arrivare a decifrarne che so… una-due facce o più, ma deve sapere, questo sì “con certezza”, che ogni sua affermazione, anche emessa con fervore e massima convinzione come è il caso mio, è sempre una parzialissima visione, appunto, alcune facce di un tutto che come tale ci sfugge.  Per questo ogni verità che scopriamo va sempre situata in un contesto specifico, un vasto territorio che si perde all’orizzonte (“infinito”), di cui siamo qualche metro coltivato, o una bella pianura piena di alberi rari,  dipendendo da chi siamo, gente comune come me o altri che si distinguono dalla massa.  Quanto dico può essere anche un artificio che ci facciamo, un metodo di lavoro allo scopo di relativizzare drasticamente quei pezzetti di diamanti di cui veniamo in possesso. Nel mio caso, è invece l’unico modo che ho di stare al mondo e vedere la realtà e, ancor più, una persona.

Per continuare la metafora, altri scopriranno altre facce, altre realtà con cui entrare in relazione e compararci, accettando di buttar giù una parte o anche tutto della nostra costruzione. E apprendere dagli errori, una benedizione donata a tutti quelli che nella vita imparano qualcosa. E incontreremo  altri e altri e altri ancora, sia passati che presenti, con  cui confrontarci in un’attività che non è mai finita.  In tutta serenità, l’ultima verità di noi stessi, o l’ultimo errore per apprendere sarà nel confronto finale con la morte. Se saremo lucidi.

Altrimenti ci addormenteremo dolcemente senza il “piacere” dell’ultima sfida. Forse meglio così, anche perché questi miei “buoni propositi” sono formulati adesso che sono viva e vegeta, ma confesso che questa aspirazione, che sia la mia morte a riflettere l’ultima immagine che avrò di me stessa, è tanto radicata in me che la scrivo, sia pure in termini mistici, nelle prime pagine di un diario dei miei dodici anni, iniziato per imparare a conoscermi. Forse già allora qualcosa tremolava nel mio cervello se ho avuto la necessità di imparare a “tenermi in mano”: non c’è bisogno che lo dica io che il sapere ci dà più potere.

Sarebbe difficile altrimenti, se non fosse così come cerco di descrivere, capire l’evoluzione della scienza della cultura e dell’umano sentire.

Oltre che in costruzione questo blog è aperto a tutti cioè chiunque può pubblicare dei testi propri e non solo lasciare commenti: ci si augura che questi contributi siano in sintonia con il tema principale: la malattia mentale e il rapporto tra malati e sani (cos’è cioè la sanità mentale e la malattia e come si rapportano una all’altra). L’unica censura, se volete proprio chiamarla così, sarà la serietà dell’impegno: non pubblico sciocchezze scritte tanto per scrivere o, ancor meno, per disturbare chi lavora.

Ma non si parlerà solo di malati mentali: ci confronteremo anche su adolescenti, rapporti di coppia, su persone che nascono handicappate (tra cui metto la maggioranza delle donne in tutto il mondo), insomma, si tratterà di qualunque cosa significativa che venga in mente a voi ed a me, anche se alla fine tutto si raccorderà intorno all’asse principale dedicato alle persone che operano nel campo della malattia mentale.

Nelle prime pagine del blog trovate un racconto sulla demenza senile e sui malati terminali perché stavo assistendo una persona cara in queste condizioni.

Voglio sottolineare che questa impostazione del blog è per me molto importante e vorrei lo fosse anche per voi: ho bisogno di comunicare e capire con voi quello che vivo (o ri-vivo) adesso, proprio in questo momento: è il famoso e impronunciabile “hic et nunc” che è, in fondo, una disciplina per avvicinarci alla vita.

Ho bisogno di un blog che realizzi pubblicamente che sono viva e che “esisto” attraverso la relazione voi-io, o meglio ancora: attraverso la relazione voi-io-altri che collaborano. Se volete proprio ricordarvi del grande Martin Buber che, tra l’altro lo dice meglio, ho bisogno di esistere, acquistare un posto di diritto nel mondo di tutti, riconosciuto, nonostante sia un’ex malata di mente; questo blog spera di realizzare questo bisogno (che è stato anche un sogno) attraverso quella relazione con un “tu” (voi) che mi costituisca legittimamente come un “io”.

Una delle favole che vi racconterò sarà proprio questa: vi racconterò (e voi mi aiuterete a capire) il perché di questo enorme bisogno di esistere che avevo fin da piccola, di quanto mi sia arrabattata negli anni per realizzarlo e cosa è successo quando la malattia mentale, da privata che era, è diventata una cosa pubblica (avevo 32 anni).  Essere dichiarata pazza davanti a tutti (è sufficiente la diagnosi data come etichetta) ha demolito alla radice non solo la possibilità di realizzare, ma anche di pensare questo enorme bisogno; l’idea stessa è sparita dalla mia testa perché questa pubblica etichetta mi ha fatto diventare “un pacchetto”.

Siete un pacchetto quando, essendo presente, nessuno si fa scrupolo di parlare di voi, di cosa dovete o non dovete fare, di quanto è giusto spendiate per il vostro mantenimento e cosa potete o non potete permettervi (ad esempio “non più di una volta alla settimana dal parrucchiere!” senza che vi venga chiesto, come di fatto era per me, se i capelli per caso ve li lavate in casa).

Siete un pacchetto quando è lo psichiatra che vi ordina di andare a vivere con l’uomo che amate, mentre la sorella con cui vive viene a stare nella vostra stanza: “una sale e l’altra scende”, mi ha detto per telefono.

Siete un pacchetto quando vostro marito e vostra cognata decidono di cosa avete bisogno per la casa in questa nuova situazione “matrimoniale”, letto, lenzuola ecc e siete soprattutto un pacchetto quando essendo intervenuta con molto buon senso dicendo: “ma guarda che queste cose potremmo deciderle da noi…”, i due continuano nei loro progetti dandomi la sensazione di non aver parlato. Un pacchetto è per definizione inesistente.

Siete un pacchetto quando…e quando…

Allora si può capire come mai, se già da bambina sentivo questo bisogno di esistere, adesso –finita la malattia –sia diventata la necessità più impellente della mia vita al punto di decidermi a fare un blog,e quindi ad espormi, io e le mie storie, ad un giudizio non obbligatoriamente benevolo, nella speranza di essere accettata quale membro legittimo del nostro-vostro mondo.

 

 

 

IL NOSTRO PROGETTO: dare una voce propria ai pazienti

 

 

Questo blog è in costruzione per definizione.
Questo blog è aperto a tutti anche per pubblicare testi propri.
Questo blog può essere modificato anche totalmente in funzione di una crescita della gente.

Questo blog si pone un obbiettivo fondamentale: “Dare finalmente voce ai pazienti.”

Primo obbiettivo: vuole far conoscere la malattia mentale “dal punto di vista del paziente”, senza escludere altri modi di guardarla;

Secondo obbiettivo: raccogliere le voci (possibilmente scritte) dei malati, prima di tutto, ma anche di famigliari, assistenti sociali, infermiere, badanti e del personale altamente specializzato (psichiatri, psicoterapeuti, neurologi, neuroscienziati, geneticisti ecc.), se mai avessimo la fortuna di interessarli.

E’ proprio questo che manca alla nostra psichiatriapsicoterapia-infermieristica psichiatrica- assistenza sociale psichiatrica e altro (sempre per quel poco che conosco io): cercare di far crescere delle relazioni tra soggetti professionisti che si comparano nella loro “pratica” clinica, stabilendo tra di loro dei “patti di alleanza” su alcuni punti, pur parziali, parzialissimi, in funzione della cura.

Ma attenzione: secondo noi, anche il paziente è un professionista: anzi è l’unico veramente titolato a parlare della sua malattia e della sua vita perché la vive. Tocca poi – se possibile ai pazienti e familiari- ma soprattutto ai professionisti, enucleare dal suo discorso  quanto di “scientifico” ci sia  e sia utile sia per i farmaci sia per la psicoterapia.

Al centro di ogni ricerca di cura per il malato mentale deve esserci:

il paziente e i suoi reali bisogni.

“Reali” per sottolineare che “non sono quelli  immaginati da noi terapeuti” a cui siamo arrivati tramite le vie più  legittime e consacrate: la percezione clinica diretta e gli strumenti che ci forniscono i diversi  modelli storico-teorici.

Questo retroterra ci è indispensabile, ma dobbiamo  dare voce al paziente cioè insegnargli la lingua che piano piano lo porterà a confermare o correggere quanto noi professionisti abbiamo rilevato da alcune sue frasi e dal nostro bagaglio di esperienza clinica.

(nota: su questo aspetto vedi gli articoli: “Come lavoro e come ho imparato a lavorare”)

Una specie di rivoluzione copernicana è necessaria, lasciando che la terra (specialisti in genere) facciano un passo indietro e si lascino illuminare da “colui che sa” della sua vicenda ossia dal paziente.

Tutte queste cose sono state dette e ridette milioni di volte e tutti i professionisti sono, tutti, assolutamente d’accordo, fin dai tempi di Basaglia e anche prima, negli anni ’50, ma non si fanno.

Forse non si hanno gli strumenti per farlo o forse è molto difficile per i tecnici, con tutta la loro sapienza,  metterla momentaneamente da parte e guardare ai pazienti “con occhi scientifici” ossia sgombri di schemi.

All’inizio della mia malattia ho avuto una diagnosi psichiatrica e una psicoanalitica: la prima è stata “psicosi maniaco depressiva” e la seconda, formulata dal Prof. Zapparoli, è stata: “simbiosi con la mamma e la sorella, essendo quella con la sorella erotizzata”.

In entrambi i casi, nessuno dei due mi ha chiesto: “come ha passato gli ultimi mesi?”

La mia storia avrebbe potuto dare alla diagnosi (da cui naturalmente sono state tratte conseguenze pratiche) una configurazione diversa, del tipo: “lei ha ecc ecc ma potrebbe fare una vita normale se non si sottoponesse a stress eccessivi o se impara a difendersi dallo stress. Lei ha certamente una speciale vulnerabilità allo stress, forse è questa la sua vera malattia.”

Anche questa avrebbe avuto conseguenze pratiche per la cura. Ma io sono dovuta andare in Brasile, dove sono rimasta dieci anni, sei sedute psicoanalitiche alla settimana, per superare la simbiosi.

Questo potrebbe essere un esempio di come mettere al centro il paziente e i suoi reali bisogni prima di impacchettarlo ed etichettarlo ben bene. Questo modo di procedere soffoca ogni iniziativa del paziente che, da essere attivo, si trasforma in passivo: lui, la sua storia che servirebbe a capire, la sa, ma non gli passa per la testa di “imporla” (infatti non basterebbe dirla) perché il gioco è totalmente al di fuori delle sue mani e lui è un’oca con la bocca tenuta forzatamente aperta per fargli ingollare il nutrimento di un altro.

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1 risposta a TRE TESTI CHE INIZIAVANO QUESTO BLOG OLTRE DIECI ANNI FA…( 2011 )

  1. ueue scrive:

    Siamo tutti “pazienti”, nel senso di “patire” ( la stessa radice di “passione”). Amiamo questo blog perché ci consente di “com-patire”, patire insieme, le bellezze e le brutture di questo “mondo infame”, che non si può capire, comprendere, sopportare senza la com-passione.

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