+++ LUCIO CARACCIOLO, LIMESONLINE DEL 18 DICEMBRE 2014 –La guerra Usa / Russia e l’Europa — Bilancio del 2014–Previsioni future ?

 

 

chiara : pubblichiamo un articolo vecchio ( dicembre 2014 ) di Lucio Caracciolo, di cui sottolineeremo solo quello che si riferisce alla rivolta ” EuroMaidan “, per poter decidere come rispondere all’articolo pubblicato ieri su Repubblica: ” insurrezione popolare o colpo di stato ? “. Tutto questo, si capisce, per farsi un’idea appena un po’ più concreta del paese invaso per il quale, tutti noi aneliamo ad una pace subito.
L’articolo è come sempre quelli di Limes, specie di Caracciolo, lungo ma piacevole da leggere e parla a noi, che non siamo degli esperti, anche della guerra di oggi e dei suoi pericoli– stupisce che tutto questo fosse chiaro ad alcuni specialisti, certo, dal 2014.

 

 

ENRICO FRANCESCHINI, Ucraina e la rivolta del 2014: insurrezione popolare o colpo di Stato? –REPUBBLICA DEL 12 MARZO 2022 

 

 

 

LIMESONLINE DEL 18 DICEMBRE 2014

https://www.limesonline.com/cartaceo/uomini-verdi-uomini-neri-ominicchi-e-quaquaraqua

 

Uomini verdi, uomini neri, ominicchi e quaquaraquà

Carta di Laura Canali, 2016

Carta di Laura Canali, 2016

 18/12/2014

L’editoriale del volume 12/2014 di Limes, “La Russia in guerra“.+

 

"La Russia in guerra", il sommario

 

 

Pubblicato in: LA RUSSIA IN GUERRA – n°12 – 2014

USA, RUSSIA, UE, UCRAINABARACK OBAMA, VLADIMIR PUTIN

1. La Russia è in guerra. Contro l’America. Di riflesso contro noi europei, suoi pallidi alleati. E se noi non vogliamo capirlo, poco importa. I russi si sentono aggrediti nella «loro» Ucraina e reagiscono di conseguenza. Tracciano linee rosse, muovono mezzi e truppe, scavano trincee, fisiche e mentali. Si mobilitano allo squillo delle trombe del Cremlino, al ritmo della propaganda di Stato, monotona e ossessiva come una marcia militare. Pronti a stringere la cinghia. Perché sui campi di battaglia della Nuova Russia (Ucraina orientale per il resto del mondo), dove i soldati di Mosca supportano in malcelato incognito i ribelli locali che rifiutano di assoggettarsi ai «golpisti» di Kiev, si gioca il destino della patria (carta 1).

La posta in gioco è massima. Alla fine, «o rimaniamo una nazione sovrana, oppure ci dissolviamo senza lasciar traccia e perdiamo la nostra identità», spiega Putin davanti alla nomenklatura schierata fra i marmi e gli stucchi del Salone di San Giorgio al Cremlino. Siamo nel tempio delle liturgie imperiali. Qui gli zar appuntavano sul petto dei loro generali la Croce di San Giorgio, suprema distinzione. Qui sotto Stalin si decoravano gli eroi della vittoriosa resistenza all’invasore nazista. E qui, il 4 dicembre, Putin chiama a raccolta il suo popolo ed esalta il suo «formidabile esercito» – «nessuno raggiungerà mai la superiorità militare sulla Russia!» – contro le oscure trame dell’Occidente che «senza dubbio vorrebbe lasciarci seguire lo scenario jugoslavo della disintegrazione e dello smembramento». Il leader sente di dover vestire i panni del supremo condottiero nella grande guerra patriottica 2.0 prima che un manipolo di suoi fedelissimi si faccia tentare dall’idea di pensionarlo perché troppo molle con il nemico: «Se per qualche nazione europea l’orgoglio nazionale è da tempo un concetto dimenticato e la sovranità un lusso eccessivo, per la Russia la vera sovranità è assolutamente necessaria alla sua sopravvivenza» 1.( nota al fondo )

 

 

 

 

L’occasione sarebbe di routine: il messaggio annuale del presidente all’Assemblea federale. Ma il capo sembra identificarsi con San Giorgio che uccide il drago, simbolo ricorrente nell’iconografia imperiale, evocato nel principale altorilievo dell’aula. Come tradizione vuole, quando Santa Madre Russia chiama, lo Stato – zarista, comunista o post-sovietico che sia – esibisce le millenarie radici cristiane a titolo di autolegittimazione. Se qualcuno coltivasse qualche dubbio sull’indisponibilità di Mosca a restituire la Crimea e Sebastopoli – i due gioielli della Corona recuperati in marzo ad attutire lo smacco della perdita d’ogni controllo sul resto di quelle terre ucraine che molti russi non cessano di considerare proprie – ascolti Putin: «È stato in Crimea, nell’antica città di Chersoneso o Korsun, (…) che il Grande Principe Vladimiro è stato battezzato prima di portare il cristianesimo alla Rus’. (…) Tutto questo ci permette di dire che la Crimea (…) e Sebastopoli hanno per la Russia un’importanza inestimabile in termini di civiltà e financo di sacralità, come il Monte del Tempio a Gerusalemme per i seguaci dell’islam e dell’ebraismo» 2.

Un’esegesi maliziosa potrebbe notare che qui la Gerusalemme russa non è più Kiev, come vorrebbe la vulgata patriottica, ma il Chersoneso Taurico già caro agli elleni, consacrato dal nuovo Vladimiro (Putin) quale «fonte spirituale» dello «Stato russo centralizzato», oggi provvisoriamente inquadrato nei mobili confini della Federazione Russa (carta a colori 1) 3.

Carta di Laura Canali, 2016

 

Il presidente sa essere pragmatico, quando necessario. La Gerusalemme russa si sposterà dove a lui converrà fissarla, a seconda dei rapporti di forza stabiliti nel corso di un conflitto prevedibilmente lungo, di cui nessuno è in grado di predeterminare le dinamiche. Ma la retorica retroagisce su chi s’illude di usarne in libertà. Specie in Russia, dove sull’enfasi raramente si economizza. E dove la geopolitica è anche una filosofia dello spirito. «Il russo è apocalittico oppure nichilista», stabiliva in tempi sovietici il filosofo cristiano Nikolaj Berdjaev, che Putin cita spesso, raccomandandone la lettura a intimi e sottoposti 4.

Apocalittica e nichilismo: due polarità che tendono a mescolarsi nello spirito nazionale. Avvertiva Berdjaev: «Il sentire apocalittico e nichilista rigetta tutta la me­dietà del processo della vita» 5.

uando Putin la manipola a fini strategici – dei quali il primo è la conservazione del potere – questa peculiare miscela si svela refrattaria al calcolo e al compromesso. Chi pensa di dominarla, rischia di esserne dominato. E si trova a dover sempre rilanciare per non deludere le aspettative del suo pubblico. Come a Putin è capitato all’inizio della crisi ucraina, quando ritenne di annettersi la Crimea esponendosi alle sanzioni occidentali pur di non apparire debole in casa propria. Poco dopo, sul Sadovoe kol’co, a Mosca, comparve una scritta: «Ci sono cose più importanti nella vita del mercato finanziario» 6.

 È anche per questo che quattro russi su cinque oggi si stringono attorno a Putin, a protezione dell’impero minacciato. E dei milioni di russi o russofoni sparsi negli altri Stati postsovietici, che il dogma del Cremlino vuole parte del Russkij Mir – il Mondo Russo (carta 2).

 

Carta di Francesca La Barbera, 2016

 

Per noi occidentali, che idolatriamo la scienza, pensiamo che ogni verità sia verificabile e matematizziamo la politica, confrontarsi con questa geopolitica escatologica esuberante di simboli e di visioni è sfida quasi impossibile. Prima ancora di rifiutarla, non la capiamo. A meno di non calmierare il nostro razionalismo, recuperando la lezione di un biblista cattolico americano (sì: americano), Raymond Edward Brown: «L’apocalittica è una tenace testimonianza di una realtà che sfida tutti i nostri calcoli» 7.

D’accordo, anche i russi amano i loro bambini, cantava Sting ai tempi di Reagan e Gorbačëv. Tanto che hanno ricominciato a farne più di noi. Ciò però non significa che il loro metro logico-strategico sia omologo a quello prevalente in America e diffuso in Occidente. Altrimenti non si sentirebbero (quasi) tutti in guerra, mentre (quasi) tutti noi non ci sogniamo di esserlo. Perché questo è un conflitto di rappresentazioni geopolitiche, ossia di idee di sé, della propria nazione e dei propri diritti. Punti di vista maturati nei secoli, che continuano a dividere i russi dagli occidentali.

È per questa reciproca incapacità di leggere nelle teste e nei cuori altrui che siamo finiti, da perfetti sonnambuli, in una trappola dalla quale non sappiamo come uscire (carta a colori 2). Prigionieri di una crisi che sta facendo dell’Ucraina una Somalia europea, minaccia di scavare un fossato permanente fra euro-americani e russi mentre accentua la disintegrazione nell’Unione Europea, costringe Mosca a collaborare con i suoi nemici storici – cinesi e turchi. E potrebbe infine indurre gli americani a rimettere gli stivali su una terra dove speravano di non doverli mai più poggiare, a dirimere la vertenza euro-russa.

Non basta constatare che coltiviamo idee inconciliate su quale sia il nostro posto nel mondo, quali i nostri diritti e i nostri legittimi progetti geopolitici. Se vogliamo fermare la deriva verso uno scontro globale perfettamente evitabile, conviene provare a capirci. In una guerra di percezioni è bene non soggiacere alla propaganda, specie la propria. Per prima cosa dobbiamo intendere che cosa vogliano i russi, poi anche – più difficile – che cosa vogliamo noi.

Carta di Laura Canali, 2014

 

 

2. Venticinque anni fa i soldati di Mosca, la stella rossa bene in mostra sul colbacco, erano a Berlino, a vegliare sulla Porta di Brandeburgo, distante 999,19 miglia (1.607,69 chilometri) dalla Piazza Rossa. Oggi, non troppo camuffati, militi russi pattugliano Donec’k (Nuova Russia=Ucraina orientale), a un tiro di artiglieria pesante dalla frontiera federale. In un quarto di secolo si è consumata la rotta dell’impero moscovita, tanto più dolorosa per un soggetto geopolitico che ha sempre idolatrato la centralità dello spazio, il controllo di territori smisurati: dal cuore dell’Europa è precipitato alla periferia occidentale della tajga, l’habitat boreale dove l’orso russo spadroneggia senza chiedere permesso a nessuno – la metafora è di Putin 8.

Per gli Stati Uniti d’America e buona parte degli europei, questa ritirata è frutto legittimo della vittoria occidentale nella guerra fredda. Per la Russia, l’avanzata della Nato nelle sue terre imperiali è umiliazione immeritata e indigerita, che oscura il proprio ruolo nel crollo dell’Urss: non furono gli stessi russi, guidati da El’cin, ad abbattere l’impero che Gorbačëv s’illudeva di riformare? Non è stata la Russia filo-occidentale stanca di guerra fredda a licenziare l’ultimo presidente sovietico, che l’America di Bush padre – per tacere dell’Europa di Mitterrand, Kohl, Thatcher e Andreotti – considerava invece un buon partner o almeno un utile idiota?

Oggi il Cremlino non intende più arretrare. Considera di aver ceduto troppo del suo spazio e vorrebbe recuperarne una parte. Persa in febbraio Kiev per quello che la grande maggioranza dei russi considera un colpo di Stato fascista pilotato dai servizi segreti americani e britannici, Putin si percepiva al bivio: resa o reazione armata a protezione della minoranza russa in Ucraina. Nel primo caso, una Majdan sulla Piazza Rossa sarebbe probabilmente stata questione di poco tempo. Non però, come spera(va)no i più russofobi fra gli strateghi americani o baltici, in nome dell’adesione all’Occidente, ma per fucilare il traditore Putin e la sua cricca antipatriottica. Alzare la voce e combattere, a rischio di tagliare i ponti con gli «amici» americani (al Cremlino continuano a chiamarli così, a svelare una vena di acido humour) e i «partner» europei, oppure subire un golpe.

Nella percezione russa la crisi ucraina è l’estremo capitolo di una sequenza che ha portato la Nato a inglobare tra il 1999 e il 2004 tutto l’ex impero di Mosca e tre ex repubbliche sovietiche (Estonia, Lettonia, Lituania). Qui Putin ha tracciato la sua linea rossa. Se gli atlantici provassero ad avanzare ancora nello spazio già sovietico, come nel 2008 in Georgia e oggi in Ucraina, la Russia si sentirebbe obbligata a reagire. Viste dal Cremlino le «rivoluzioni colorate» non sono affatto proteste spontanee, ma prove generali del cambio di regime a Mosca. Cedere l’Ucraina alla Nato, definitivamente considerata come il Nemico, significherebbe condividere con il potenziale aggressore duemila chilometri di frontiera indifendibile (carta a colori 3).

 

Carta di Laura Canali, 2018Carta di Laura Canali, 2018

Ciò che più irrita Putin è che il roll-back americano lo getta nelle braccia dei cinesi. Per tutti gli anni Novanta il popolo russo aveva continuato a vedere nell’Occidente un modello di vita. Il 90% dei russi amava gli americani (oggi nemmeno il 10%). El’cin e il primo Putin bussavano alle porte dell’Ue e della Nato. Per integrarvisi o almeno esserne trattati su un piede di parità. La Federazione Russa aspirava ad essere riconosciuta come il terzo pilastro dell’Occidente cristiano. Da civiltà autonoma, ma alleata di Stati Uniti ed europei. Nella convinzione di condividerne l’urgenza di contenere l’ascesa della Cina e il terrorismo islamista. Invece, nota amaro il ministro degli Esteri Sergej Lavrov, dopo il crollo del Muro «siamo stati trattati da subumani» 9.

E adesso, «come dicono i bulli, volevano che la Russia facesse la figura del pollo (non trovo una espressione migliore), per costringerci a ingoiare l’umiliazione dei russi e della gente di madrelingua russa in Ucraina» 10.

Non si capisce molto della reazione di Putin a Jevromajdan se non si considera un sentimento diffuso in Russia, che non ha nulla a che vedere con il caso ucraino – di cui è semmai un antefatto – e tutto con l’esito della guerra fredda. Sergej Karaganov, fra i più ascoltati strateghi russi, lo riassume così: «Il rapporto Usa-Russia è fallito perché l’Occidente non ha mai capito che non poteva trattarci da sconfitti. Primo, i russi non hanno mai creduto di essere stati sconfitti. Secondo, è il nostro carattere nazionale. Noi siamo una delle pochissime nazioni al mondo – ce ne sono solo due in Europa – che non sono mai state davvero sconfitte» 11. 

Specifica il politologo Sergej Mikheev: «I russi sono delusi dall’Occidente. (…) I russi hanno distrutto l’Urss e si aspettavano maggiore riconoscenza. Invece l’Occidente si è comportato come se avesse vinto la guerra fredda, come se noi fossimo un paese sconfitto, i cui interessi nazionali non andavano tenuti in alcun conto» 12.

Come ogni storia, anche questa ha il suo mito originario. Nel caso si tratta della promessa di Bush padre a Gorbačëv, per convincerlo ad accettare l’allargamento a est della Repubblica Federale Germania, di non spingere la Nato nell’ex impero sovietico. I leader russi continuano a lamentare la «truffa» di Washington. Putin è esplicito: «Ci era stato promesso che dopo l’unificazione della Germania la Nato non si sarebbe espansa verso oriente. (…) La nostra decisione sulla Crimea è stata in parte prodotta da questo» 13.

La recente storiografia americana, fondata sull’analisi di documenti appena declassificati, stabilisce che «Mosca ha ragione di affermare che l’Occidente ha infranto una promessa. (…) Alla fine, gli Stati Uniti hanno rovesciato il sistema che avevano promesso di far nascere»: riunificazione tedesca, ritiro sovietico, stallo atlantico 14. 

Resta che Gorbačëv volle credere ai suoi interlocutori americani sulla parola. Affidata ai meri rapporti di forza, la questione dei confini della Nato è stata quindi decisa da Washington e dagli ex satelliti di Mosca, indisponibili a ridursi a cuscinetto fra la «superpotenza unica» e ciò che restava della rivale. In privato, i dirigenti russi si dividono fra il disprezzo per il dilettantismo dell’ultimo presidente sovietico e la sensazione che mai Bush avrebbe codificato la promessa in forma di trattato.

Quanto agli europei, Putin è lapidario: «Con chi tratto per l’Ucraina? I baltici e i polacchi mi odiano. I britannici fanno quel che vogliono gli americani. Tedeschi e italiani un giorno sono con me l’altro contro» 15. 

Per il Cremlino siamo tutti, chi più chi meno, in tasca agli Stati Uniti. Compresa la signora Merkel, che Putin non ama essendone ricambiato. E che dopo lo scandalo delle intercettazioni Cia i servizi russi considerano sotto ricatto americano. Non toglie che la diplomazia e i vettori d’influenza russa lavorino a minare il frastagliato arcipelago europeo perché si decida a sospendere o almeno annacquare le sanzioni che alla lunga minacciano di sfibrare il tessuto economico e sociale della nazione, di erodere il consenso di massa attorno a Putin.

Basta tutto questo a spiegare l’annessione della Crimea, il sostegno surrettizio quanto decisivo ai ribelli del Donbas, il fuoco di sbarramento retorico contro l’Occidente, il gioco delle provocazioni e controprovocazioni fra militari russi e atlantici, come nelle più cupe ore della guerra fredda? Non sarebbe stato più logico, per Putin, accettare la sconfitta di Kiev nella certezza che prima o poi i leader ucraini, fascisti o non fascisti, avrebbero invocato il suo aiuto finanziario per evitare il collasso di un paese che si era sempre retto grazie ai sussidi russi, a partire dalle forniture di gas a prezzi sovietici?

A nostra domanda autorevoli interlocutori russi rispondono: «Molto ragionevole. Ma voi siete italiani. Non potete capire che cosa significa l’Ucraina per noi. Se avessimo ceduto, la Russia non esisterebbe più. Eppoi andate a rileggere quel che avete pubblicato. Anche solo queste tre citazioni». Da una borsa emergono vecchie fotocopie, con brani di Limes evidenziati in giallo. Rileggiamo.

Il primo è una citazione dall’intervista che l’allora nostro corrispondente dalla Svezia, Rolf Gauffin, fece nel dicembre 1993 a Vladimir Žirinovskij, oggi vicepresidente della Duma. Tracciando la sua carta ideale della Russia, il leader ultranazionalista stabiliva che il distretto di Leopoli fosse restituito alla Polonia o a una repubblica dell’Ucraina occidentale, «ma l’Ucraina orientale è interamente russa» (carta 3) 16.

 

http://limes.ita.chmst05.newsmemory.com/newsmemvol1/italy/limes/20141201/limes_12_2014_018.pdf.0/parts/adv_0.jpgCarta di Laura Canali, 2014

 

Il secondo è tratto da un articolo del maggio 1996, opera di Dmitrij Furman, profondo analista della società russa scomparso tre anni fa, non certo assimilabile alla genia di Žirinovskij: «Tutte le difficoltà delle relazioni russo-ucraine non possono essere comprese senza tener conto del sentimento che i russi provano nei confronti degli ucraini: “Si credono dei Padreterni! Nezavisimye (indipendenti) dei miei stivali!”» 17.

Infine, la predica di Putin all’amico Bush junior a Soči il 6 aprile 2008, citata nell’editoriale del volume dedicato al «Progetto Russia»: «Capisci, George? L’Ucraina non è nemmeno uno Stato! Che cos’è l’Ucraina? Parte del suo territorio è Europa orientale. Ma l’altra parte, quella più importante, gliel’abbiamo regalata noi» 18.

Chiediamo se quella magna pars significasse la Crimea più la Nuova Russia. «19-25 sicuri, 14-15 forse» è la risposta, mentre un dito scorre sulla carta di un progetto russo di spartizione dell’Ucraina, pubblicata a corredo del medesimo articolo (carta 4). I numeri segnalano le regioni più orientali dell’Ucraina, ma anche Odessa e Mykolajiv (Nikolaev), assegnate questo ottobre da Putin alla Nuova Russia davanti al club Valdai 19.

Ora intuiamo meglio senso e conseguenze dell’acme retorico con cui Putin, denunciato il tentativo di «alcuni governi» di «creare una nuova cortina di ferro attorno alla Russia», sigilla il suo discorso nel Salone di San Giorgio: «Siamo pronti a raccogliere ogni sfida e a vincere» 20.

 

Carta di Laura Canali, 2014

 

 

3. Veniamo al fronte occidentale e alle sue rappresentazioni geopolitiche. Qui siamo in un altro mondo. Ce lo conferma a contrario Angela Merkel: «Putin vive in un altro mondo» 21. Ma il nostro non è un pianeta, è una costellazione piuttosto eterogenea. L’Occidente è fatto di tanti Occidenti, o sedicenti tali.

Cominciamo dagli europei. Qui nessuno vuole morire per Kiev o per Odessa. Nemmeno quei baltici che a nostra domanda su che cosa dovrebbe fare la Russia rispondono: «Sparire». Putin guarda all’Ucraina come questione di vita o di morte, i leader europei proprio no. Gli euromediterranei – in buona misura anche tedeschi e associati – temono soprattutto per le rispettive economie più o meno depresse, su cui rimbalzano con effetti deflagranti le sanzioni alla Russia, mentre nordici ed ex satelliti di Mosca sono convinti sia in gioco la sicurezza nazionale, ma per proteggerla contano sulla deterrenza Nato ed esplorano la disponibilità russa a negoziati segreti. Si smarca l’Ungheria, che sta con Putin anche perché in caso di spartizione definitiva dell’Ucraina spera di riportare sotto la propria sovranità alcuni distretti magiarofoni della Transcarpazia.

Fra leader europei di vario colore comincia peraltro a insinuarsi il sentimento – eccitato dal centenario della Grande Guerra? – che per la prima volta dal suicidio dell’Urss il rischio di un terzo conflitto mondiale, magari scatenato per accidente, non sia trascurabile. Il primo ministro slovacco Robert Fico lo quantifica al 70% 22.

La cancelliera Merkel se ne inquieta e il suo ministro degli Esteri, Frank-Walter Steinmeier, riferimen­to delle «colombe» nell’establishment tedesco, invita la Nato ad allestire subito un sistema di preallarme per impedire che il conflitto «finisca fuori controllo e conduca a un’escalation militare» 23. Chi avrebbe detto che saremmo tornati all’epoca dei telefoni rossi per comunicare con Mosca?

Paradosso vuole che la Venere europea, irrisa dai marziali neocon tuttora influenti a Washington, abbia prodotto la causa occasionale della crisi ucraina. Senza volerlo. Oppure volendolo, ma non immaginandone le conseguenze.

La prima ipotesi riguarda noi italiani e il resto della «Vecchia Europa», Germania inclusa. Questo arcipelago non ha pesato seriamente gli effetti dell’ultimatum imposto lo scorso autunno dalla Commissione europea al presidente Viktor Janukovyč perché firmasse subito l’accordo di associazione all’Ue. Non ci si è resi conto che escludendo Mosca dalla trattativa fra Bruxelles e Kiev («non è affar vostro», spiegavano i negoziatori comunitari ai diplomatici russi) quel patto apparentemente anodino avrebbe assunto agli occhi di Putin ben altro colore: un accordo di dissociazione dalla Russia. Caso da manuale di eterogenesi dei fini.

La seconda concerne l’atteggiamento di Gran Bretagna, Polonia e altri baltici, sollecitati o coperti da Washington, decisi a rimettere la Russia nell’angolo. Per loro è inaccettabile che Mosca torni a contare in Europa e nel mondo. In tal caso, secondo gli ex sudditi europei del Cremlino, l’indipendenza nazionale appena riconquistata sarebbe di nuovo minacciata. In Ucraina il gioco è a somma zero: i russi o noi. Non sottrarre permanentemente Kiev alla sfera d’influenza russa significherebbe rianimarne le ambizioni imperiali. L’Ucraina integra e indipendente come cartina di tornasole del diritto a esistere delle nuove/antiche nazioni dell’Europa centrorientale. Che poi si sia disposti a pagare o financo a combattere per tanto obiettivo, resta da dimostrare.

Dal cortocircuito delle percezioni e intenzioni occidentali è scaturita la sequenza degli equivoci che ha alimentato la spirale dello scontro: l’illusione dei rivoluzionari di Jevromajdan che i «fratelli» europei fossero disposti a tutto pur di sostenerli e accoglierli subito nella casa comunitaria, poi anche in quella atlantica; la convinzione russa che alcuni «partner» dell’Ue partecipassero del complotto americano per soffocarli, stringendo attorno a Mosca una nuova cortina di ferro; la decisione dei «falchi» prevalenti nell’amministrazione Obama di far leva sulla crisi ucraina per allentare il vincolo russo-germanico fondato sull’interdipendenza energetica prima che potesse assumere connotati strategici, così ridimensionando Putin, o meglio sbarazzandosene; infine, la scelta del fronte euroatlantico di impugnare l’arma delle sanzioni – ovvero della guerra commerciale alla Russia – perché indisponibile al coinvolgimento diretto nel conflitto ucraino e per esibirsi formalmente unito.

 

Come siamo arrivati a tanto? Esploriamo cinque tracce.

A) Poiché l’Unione Europea non è un soggetto geopolitico, quando a negoziare è la Commissione e/o il servizio europeo per l’Azione esterna entra in campo la burocrazia. Il caso ucraino conferma che ogni organizzazione burocratica, tanto più se internazionale, quando chiamata a far politica agisce come se fosse diretta dall’intelligence avversaria. Ri­sultato: un dossier eminentemente geopolitico è stato trattato da Bruxelles come fosse solo economico, anzi contabile. Quando il 25 febbraio 2010 la responsabile della cosiddetta politica estera europea, la britannica baronessa Catherine Ashton, e il commissario all’Allargamento, il ceco Štefan Füle, presentano a Janukovyč i termini dell’accordo che dovrebbe aggregarlo al carro comunitario nel quadro del Partenariato orientale, gli espongono una matrice. Nella colonna sinistra, le condizioni per accedere all’intesa – regole europee, vincoli e precetti del Fondo monetario internazionale. A destra, i soldi che incasserà se si comporterà bene. In questa singolare versione della partita doppia, lo scambio è standard (molti) contro denaro (poco). Storia, cultura, spazio/tempo? Non valgono. Che cosa ne pensano i russi? Non interessa. O almeno non intacca l’impianto matriciale, il dare e l’avere. Solo tre anni dopo, quando scatta l’offensiva finale per obbligare Janukovyč a scegliere, il senso dell’operazione sarà esplicitato dall’allora presidente della Commissione José Manuel Barroso: «Non si può stare contemporaneamente in un’area di liberoscambio con l’Ue e in una unione doganale con la Russia» 24. Aut aut: o con la Russia, nella sua Unione Economica Eurasiatica, o con noi.

B) Cacciata dalla porta, la geopolitica rientra dalla finestra. Il Partenariato orientale è strumento assai diverso a seconda dei punti di vista. Per svedesi, polacchi e baltici, serve a formare una sfera d’influenza occidentale nell’Europa dell’Est. Il contratto di associazione con l’Ue deve perciò aprire la prospettiva dell’integrazione comunitaria, ma anche atlantica, a tutti i paesi ricompresi fra i confini orientali della Nato e la Federazione Russa. Nella formulazione del presidente polacco Bronisław Komorowski: «Non vogliamo mai più avere una frontiera comune con la Russia» 25.

Per italiani e altri europei meridionali, ma anche per una metà abbondante dell’establishment tedesco – industriali interessati al mercato russo, socialdemocratici, conservatori anti-Merkel, alcuni diplomatici – l’interpretazione nordica configura un uso improprio del Partenariato, che si vorrebbe invece compatibile con un proficuo rapporto con Mosca. Et et: l’Ucraina deve stare con noi e insieme con loro, perché altrimenti cessa di esistere, si spacca lungo linee di faglia interne e scade a campo di battaglia di un nuovo scontro Est-Ovest.

Anche qui contano le rappresentazioni geopolitiche: «Voi non conoscete i russi perché non li avete mai avuti in casa», osserva un leader esto­ne quando gli chiediamo ragione della sua russofobia. Mentre un polacco rievoca il «prometeismo», l’ideologia distillata da Piłsudski per salvare la patria dalle mire russo-sovietiche. Poi matrice geopolitica dell’Intermarium, agognato blocco antirusso dal Mar Baltico al Mar Nero, tornato in voga nell’odierna partita ucraina.

C) Domina sullo sfondo la lettura occidentalista del crollo dell’Urss. Abbiamo vinto noi, altro che Russia. Da tale tesi derivano però geopolitiche divergenti. Una di stampo neo-versagliese –vae victis– per cui spetta ai vincitori disporre dei vinti. È il sottotesto di Varsavia e del «gruppo del Nord», una coalizione a guida britannica che include anche Danimarca, Estonia, Lituania, Lettonia, Norvegia e Paesi Bassi, decisa a formare entro il 2018 una Forza di spedizione congiunta in ambito Nato. Obiettivo: erigere quanto più a est possibile una barriera di sicurezza euroatlantica contro Mosca. Quanto agli italiani e ad altri inquilini della periferia meridionale dell’Ue, a simili progetti non sanno opporre che mugugni e riserve, non una controstrategia. Anche perché suppongono che incontri troppo ravvicinati con Mosca incrocerebbero il veto di Washington (caduta di Berlusconi docet).

La Germania oscilla fra venti nordici e bonacce mediterranee, mossa da una crescente idea di sé e da una rappresentazione diminutiva della potenza russa. Quasi ne potesse disporre a piacimento. Come ci ricordava un ex cancelliere tedesco: «I russi hanno un tale complesso di inferiorità nei nostri confronti che alla fine faranno sempre quel che vogliamo». Di qui la recente sorpresa nel constatare che l’orso russo, quando si sente braccato nella tajga, tira fuori unghie e denti. Fa la guerra. Attività che noi europei, specie se italiani, eravamo convinti appartenesse a un altro mondo, nel senso merkeliano del termine.

D) Ci siamo sopravvalutati. Non abbiamo i soldi per impelagarci in un conflitto pur indiretto con la Russia. Rigore fiscale, stretta monetaria e geopolitica offensiva, con sanzioni a Mosca e aiuti a fondo perduto a Kiev per evitarne il collasso, dipingono un triangolo insostenibile. Specie considerando che le sanzioni colpiscono noi più che i russi, non fosse che per la minore disponibilità dei nostri cittadini a sopportare sacrifici. Per Kiev, poi…

E) Se i russi oscillano fra apocalittica e nichilismo, noi scarrelliamo serenamente dal pangiuridicismo – per cui le relazioni fra Stati sarebbero rette dal diritto internazionale – al cinismo. Dalla postura moraleggiante e dai proclami altisonanti si scade facilmente verso un compromesso qualsiasi, pur di evitare una collisione permanente con Mosca: ci costerebbe troppo, non solo per l’eventuale emergenza energetica. Sicché lo scandaloso furto russo della Crimea un giorno è inaccettabile, l’altro è un fatto compiuto cui ci rassegniamo con agilità, salvo trattare in segreto con Putin quali altri parti dell’Ucraina gli debbano essere tacitamente riconosciute, visto che le ha già prese o potrebbe prendersele.

4. «Putin mi ricorda quel compagno di classe che si piazzava da solo all’ultimo banco, immusonito e scostante, quasi il mondo ce l’avesse con lui e lui con il mondo». Così confidava Barack Obama a un collega europeo durante un vertice G8, prima che il ratto della Crimea obliterasse il formato allargato della costellazione dei potenti nord-occidentali. Sospeso Putin in attesa che rimetta la testa a posto – o che qualcuno ne prenda il posto – si torna al classico G7. Anche se, di fatto, il G8 fu sempre G7+1, non per il solipsismo del presidente della Federazione Russa. Così come l’altro augusto foro vittima delle sanzioni, il Consiglio Nato-Russia battezzato da Berlusconi nel 2002 a Pratica di Mare in nome della «ricomposizione dell’Occidente», esprimeva in realtà lo schema 1+27-1, con l’ambasciatore americano che dava preventivamente la linea ai soci atlantici per assicurarsi che il russo restasse isolato.

Questo modo di (non) pensare i russi esprime la rappresentazione che della potenza moscovita hanno avuto tutti i leader americani del dopo-Ottantanove. Un soggetto residuale, confinato nel limbo a meditare sulle sue irredimibili colpe. Non vero avversario né tangibile risorsa, salvo forse nella «guerra al terrorismo». Assolutamente non paritario. Sì, la Russia è l’unico paese che può vetrificare gli Stati Uniti d’America, salvo subirne la medesima sorte. Basterebbe mezz’ora di guerra atomica. Ma è roba del passato, si diceva, la guerra fredda è finita e l’abbiamo stravinta noi. C’è voluto lo scontro in Ucraina per svegliare il Dipartimento di Stato, secondo il quale la Russia ha raggiunto quest’anno la parità nucleare con gli Usa 26 (carta a colori 4). E per scoprire che la superiorità russa quanto ad atomiche tattiche in Europa è tale (dieci a uno) da costringere Washington a studiare uno scenario di escalation nucleare se Mosca, esasperata dalla crisi ucraina, dalle sanzioni e dal crollo del prezzo del petrolio, decidesse di passare all’offensiva contro la Nato 27.

Già ora, il colpo di mano con cui gli «uomini verdi» di Putin hanno preso la Crimea e poi consentito ai ribelli di consolidare due repubblichette «autonome» nel Donbas ha suscitato un raro sentimento di ammirazione tecnica negli specialisti del Pentagono. I quali sembrano convincersi che se la Rus­sia non è l’Urss, pure è tornata a costituire un non trascurabile fattore di potenza militare. Putin non bluffa quando minaccia di prendere Kiev in due settimane. Se non lo fa, per ora, è solo perché gli costerebbe troppo sotto il profilo economico e dell’immagine, non certo per timore di un intervento atlantico al quale l’attuale leadership americana sarebbe indisponibile, anche perché renderebbe concreto l’incubo nucleare.

In ogni caso Obama, una volta sottratta Kiev alla sfera d’influenza moscovita, non è incline a impegnarsi fino in fondo in una campagna per la reintegrazione di Crimea e Donbas nello Stato ucraino, che potrebbe sfociare nella disintegrazione della Federazione Russa. Per tre ragioni: dell’Ucraina agli americani non importa granché, tanto che quasi nessuno riesce a identificarla sul planisfero; la Casa Bianca è sufficientemente distratta dalle (ri)emergenze mediorientali per impelagarsi in un confronto con la Russia di cui si avvantaggerebbe solo il vero concorrente degli Usa, la Cina; soprattutto, gli Stati Uniti non saprebbero come riempire l’immenso vuoto creato dall’eventuale implosione della Federazione Russa, mentre sospettano che qualche idea al riguardo Pechino ce l’abbia.

 

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Certo, Obama ha cavalcato Jevromajdan. Alcune agenzie di Washington, ufficiali o informali, hanno investito per anni miliardi di dollari nel sostegno al movimento popolare che ha minato il regime di Janukovyč, riservando qualche spicciolo alle milizie armate – gli «uomini neri» – che gli hanno dato la spallata finale, quando gli europei sembravano averlo salvato (di qui il «Fuck the Eu!» dell’assistente segretario di Stato Victoria Nuland). Nulla di strategico, però. Il presidente già dimezzato voleva infliggere un’umiliazione a Putin, che negli ultimi tempi sembrava essersi montato la testa, intervenendo ben oltre il raggio di azione regionale (leggi: russo e centroasiatico) assegnatogli nelle carte mentali dei decisori di Washington. Risultato raggiunto con la fuga di Janukovyč e l’apparente trionfo dei democratici ucraini, come vengono pubblicamente qualificati a Washington gli oligarchi subentrati al collega rivale. Certo, se in conseguenza della disfatta di Kiev qualcuno al Cremlino avesse poggiato una mano sulla spalla di Putin invitandolo a prendersi il riposo meritato in tanti decenni di servizio per Madre Russia, Obama non ne avrebbe sofferto. Ma di qui ad attribuirgli chissà quale disegno o persino un abbozzo di nuovo ordine mondiale, parecchio ne corre.

Quanto al rumore mediatico sulla «nuova guerra fredda», non esprime affatto una priorità dei laboratori strategici a stelle e strisce, concentrati sull’Asia-Pacifico. È semmai istruttivo osservare come l’approccio di Obama all’Ucraina sia stato criticato dai due grandi vecchi della geopolitica americana, già protagonisti della guerra fredda, i cari nemici Zbi­gniew Brzezinski e Henry Kissinger. Entrambi gli hanno contestato il dilettantismo, la velleità di incardinare l’Ucraina nella Nato invece di farne una Finlandia, unica alternativa per impedire che Mosca s’impadronisse del suo Sud-Est.

Quanto al retropensiero di liquidare Putin, Kissinger ha ricordato a Obama che lo scopo degli Stati Uniti durante la fase calda del confronto Est-Ovest non era di rovesciare il regime sovietico, ma di contenerne l’espansione: «Il primo punto della nostra agenda era di gestire la guerra fredda per trasformarla in un nuovo ordine mondiale» 28. Secondo il Nestore dell’establishment diplomatico americano, invece di ricorrere alle sanzioni, che rafforzano il consenso popolare attorno al Cremlino e incentivano il mercantilismo su scala globale, Washington dovrebbe affrontare «il problema fondamentale, ovvero la relazione di lungo periodo fra Russia e Occidente» 29. Giacché «per l’Occidente la demonizzazione di Vladimir Putin non è una politica; è un alibi per la sua assenza»30.

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5. La guerra d’Ucraina non è dunque il prodotto del collidere di strategie inconciliabili ma dell’incapacità di leggere le intenzioni altrui. Qui, lungo la frontiera per eccellenza fra impero russo e nazioni europee, l’incrocio fra rappresentazioni geopolitiche totalmente asimmetriche ha acceso un incendio che potremo forse delimitare, difficilmente spegnere. Ricordiamo l’essenziale: per Mosca l’Ucraina non esiste, è Nuova Russia da annettere più Kiev da controllare, mentre l’appendice già polacca attorno a Leopoli va retrocessa a Varsavia; per Kiev l’Ucraina è la repubblica nata nel 1991 per sottrazione dall’Unione Sovietica, Crimea e Donbas inclusi (i più estremisti rivogliono le terre, senza gli abitanti russi o filorussi). Visione condivisa a parole da Nato e Unione Europea, nei fatti solo da Stati Uniti, Gran Bretagna, Polonia e altre nazioni recentemente emancipate dalla presa di Mosca, dai baltici alla Romania. Il fronte euroatlantico sembra d’accordo solo sul punto di non sfidare frontalmente Mosca. Con mille auguri agli ucraini che muoiono per la propria causa perché s’illudevano fosse anche nostra.

Rappresentazioni diverse generano diverse priorità. Qualsiasi strategia deve stabilire che cosa viene prima, per quali obiettivi vale battersi fino in fondo, per quanto tempo si può sostenere il conflitto, soprattutto sul fronte interno. I russi lo sanno o presumono di saperlo, noi occidentali ne abbiamo idee diverse. O nessuna. Certo quasi tutti, anche i «falchi» del Cremlino, vorrebbero evitare lo scontro diretto fra Stati atomici. Ma questa non è strategia, è sano istinto di sopravvivenza.

Il piano inclinato su cui ci muoviamo tende a sfociare, giusta la migliore ipotesi, nell’ennesimo «conflitto congelato». Non siamo però in Transnistria o nel Nagorno-Karabakh, classiche partite regionali. L’Ucraina è posta in gioco di calibro globale. Altrimenti non vi sarebbero implicati russi, americani ed europei. Finché cotanti attori non medieranno un compromesso, nell’attuale contesto d’instabilità e frammentazione tra Europa sud-orientale, Golfo e Nordafrica il rischio che le scintille ucraine accendano una guerra o un insieme di guerre d’assai più ampie proporzioni resterà serio – ne tratteremo nel prossimo volume.

Un’intesa non è affatto impossibile. Anzi, parrebbe logica. In questo scontro non possono darsi vincitori. Persino chi, come Washington, ha meno da perdere, e qualcosa ha guadagnato (l’umiliazione di Putin, costretto a mollare la presa su Kiev, macchia indelebile nella carriera di uno zar), non pare in grado di ottenere altro. A meno di non puntare su un cambio di regime a Mosca, che difficilmente eleverebbe al Cremlino un seguace di Jefferson. Quanto al popolo russo, passata la sbornia iperpatriottica, aver rimesso le mani sulla Crimea e su una devastata fetta di Nuova Russia parrà triste consolazione, a fronte del salasso economico, d’immagine e d’influenza geopolitica. La pazienza russa è leggendaria, non infinita. E ha i suoi costi anche per un potere tutt’altro che impopolare.

Non vale invece insistere sulle performance europee, se non per marcare la nostra primaria responsabilità nella crisi. Anche di chi, come noi italiani, avrebbe voluto evitarla salvo non sapere come – o non volerlo sapere. Abbiamo un modo per salvare la faccia: prendere l’iniziativa del processo di pace. Se lo faremo, non sarà per un soprassalto d’orgoglio, ma perché le sanzioni mordono (in Italia quest’anno ci hanno mangiato quasi un punto di pil). Tanto che negli ultimi mesi persino alcuni nordici, britannici compresi – fosse solo per proteggere l’interesse della City a non perdere i capitali russi – sembrano adattarsi all’idea del compromesso con Mosca. Fino a prendere qualche distanza dai «falchi» di Washington.

Tutti conoscono i termini generali del compromesso: Ucraina neutralizzata, ossia non integrabile nella Nato ma ammessa tanto nello spazio economico europeo quanto in quello eurasiatico, checché ne pensino a Bruxelles (siamo certi che Federica Mogherini avrà accomodato dove meritano le matrici binarie della baronessa); larga autonomia alla minoranza russa o russofona in cambio del reintegro di Luhans’k e Donec’k sotto la formale sovranità di Kiev; Crimea di fatto russa, ma non riconosciuta per tale dagli occidentali e da chi altri non intendesse sopportare tanto insulto al diritto internazionale. La diplomazia segreta è al lavoro su queste linee. Forse c’è una luce in fondo al tunnel. Manca il tunnel. Per carenza di costruttori coraggiosi. È così implausibile per l’Italia, insieme ad altri europei di fama meno inaffidabile, decidere di inaugurare questo cantiere?

Lo dovremmo a noi, certo, ma anzitutto agli ucraini. Per riparare parte dei danni che la brutta copia dell’Occidente ha loro inflitto, sperimentando sulla loro pelle i riflessi dell’orso russo, assai più pronti di quanto quasi tutti immaginassero. La guerra è già costata almeno cinquemila morti e centinaia di migliaia di profughi. L’Ucraina è a terra, la coppia Porošenko-Jacenjuk che dovrebbe reggere la barra della «nuova» Kiev è già scoppiata, gli oligarchi continuano a spartirsi ciò che resta della torta e Majdan minaccia di riesplodere, stavolta nel caos totale e con sempre più gente armata. All’Est il cessate-il-fuoco è piuttosto virtuale, mentre bande d’ogni colore – compresi i «volontari» russi e i mercenari nazisti del battaglione Azov, tra cui alcuni italiani – spadroneggiano impunemente.

A qualcuno parranno danni collaterali. A noi sembrano piuttosto le conseguenze della nostra abdicazione all’imperativo di considerare gli effetti di ciò che vorremmo, o crediamo di volere. In Ucraina ci siamo confermati velleitari. Ora ci incombe l’onere di limitare le perdite. Altrimenti dovremo sopportare la responsabilità di aver contribuito a distruggere un paese giurando di volerlo salvare.

1. V. PUTIN, «Presidential Address to the Federal Assembly», 4/12/2014, eng.kremlin.ru/news/23341

2. Ibidem.

3. Ibidem.

4. N. BERDJAEV, Gli spiriti della rivoluzione russa, Milano 2001, Paravia-Bruno Mondadori, p. 31.

5. Ibidem.

6. N. MACFARQUHAR, A.E. KRAMER, «With Russia on Brink of Recession, Putin Faces “New Reality”», The New York Times, 2/12/2014.

7. R.E. BROWN, Introduzione al Nuovo Testamento, Brescia 2001, Queriniana, p. 1056.

8. Così il presidente russo nella conversazione con i membri del Club Valdai, cfr. «Vladimir Putin Meets with Members of the Valdai Discussion Club. Transcript of the Final Plenary Session», 25/10/2014, valdaiclub.com/valdai_club/73300.html

9. «Remarks by Foreign Minister Sergey Lavrov at the XXII Assembly of the Council on Foreign and Defence Policicy, Moscow, 22 November 2014», The Ministry of Foreign Affairs of the Russian Federation, official site, www.mid.ru/brp_4.nsf/0/24454A08D48F695EC3257D9A004BA32E

10. Ibidem.

11. «U.S.-Russian Relations: From Bad to Worse?», Moscow Times, 25/11/2014.

12. M. BOFFA, «Un politologo cool ci spiega dove sbaglia l’Occidente con la Russia», Il Foglio, 19/11/2014.

13. Cit. in D. HERSZENHOM, «Away from Shadow of Diplomacy in Geneva, Putin Puts on a Show of His Own», The New York Times, 17/4/2014.

14. Cfr. J.R. ITKOWITZ SHIFRINSON, «Put It in Writing. How the West Broke Its Promise to Moscow», Foreign Affairs, 29/10/2014.

15. In una telefonata con Romano Prodi, da lui riferita in un’intervista a Limes, «Perché l’Europa e l’Italia non funzionano più», a cura di Lucio Caracciolo e Federico Petroni, n. 11/2014, pp. 10-11.

16. Cfr. V. ŽIRINOVSKIJ, «Le mie frontiere», a cura di R. GAUFFIN, Limes, n. 1/1994, «La Russia e noi», p. 30.

17. D. FURMAN, «Elogio funebre di un impero che non risorgerà», Limes, n. 2/1996, «Ombre russe», p. 37.

18. «Le sciabole dello zar», editoriale da Limes, n. 3/2008, «Progetto Russia», p. 7.

19. Vladimir Putin rispondendo a Neil Buckley, del Financial Times: «C’era una singola regione centrata su Novorossijsk, e per questo venne chiamata Nuova Russia. Questa terra includeva le regioni di Luhans’k, Donec’k, Nikolaev, Kherson e Odessa». Cfr. nota 8.

20. Cfr. nota 1.

21. Cit. in P. BAKER, «Pressure Rise as Obama Works to Rein In Russia», The New York Times, 2/3/2014.

22. Cit. in A. CROFT, T. KÖRKEMEIER, «Germany Wants Russia-Nato Channel to Avoid Accidental Escalation», Reuters, 2/12/2014.

23. Ibidem.

24. Cit. in CH. HOFFMANN, M. HUJER, R. NEUKIRCH, M. SCHEPP, G.P. SCHMITT, CH. SCHULT, «Gipfel des Scheiterns», Der Spiegel, n. 48, 24/11/2014, pp. 27-33, qui p. 29.

25. Ivi, p. 30.

26. Vedi «New START Treaty Aggregate Numbers of Strategic Offensive Arms», Department of State, United States of America, 1/10/2014, www.state.gov/documents/organization/232561.pdf

27. Cfr. G. RACHMAN, «Russia Is a Bigger Problem than Isis for Obama», Financial Times, 11/11/2014.

28. «Henry Kissinger Looks Back on the Cold War», Council on Foreign Relations, 4/11/2014, www.cfr.org/united-states/henry-kissinger-looks-back-cold-war/p33741

29. Ibidem.

30. H.A. KISSINGER, «Henry Kissinger: To Settle the Ukraine Crisis, Start at the End», Washington Post, 5/3/2014.

Pubblicato in: LA RUSSIA IN GUERRA – n°12 – 2014

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1 risposta a +++ LUCIO CARACCIOLO, LIMESONLINE DEL 18 DICEMBRE 2014 –La guerra Usa / Russia e l’Europa — Bilancio del 2014–Previsioni future ?

  1. ueue scrive:

    Bella e approfondita spiegazione di come si è arrivati alla tragica situazione attuale.

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