La casa di Hans Fallada , dal nome di Hans Fallada, è un museo degli scrittori fondato nel 1927 nel Meclemburgo-Pomerania occidentale nel distretto dei laghi del Meclemburgo. L’edificio è un monumento nel distretto dei laghi di Feldberg.
La casa di Hans Fallada a Carwitz è stata la residenza di Fallada dal 1933 al 1944 . Fallada fece ricostruire più volte la casa a graticcio del 1848 circa con il vecchio indirizzo “Carwitz, Büdnerei 17” e aggiunse una veranda. Fallada aveva comprato la casa per sfuggire alla sua dipendenza da morfina e alcol lontano dalla capitale Berlino.
La casa di Hans Fallada a Carwitz
Ch.Pagenkopf – Opera propria
cucina
Hermann Junghans – Opera propria
al fondo della strada
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Il blog di Gabriella Alù
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NEL MIO PAESE STRANIERO – HANS FALLADA
Pubblicato il 9 aprile 2013 da gabrilu
Ci si può sentire a casa propria in tutto il mondo, ci si può sentire stranieri a casa propria.
«Cerco di allontanare qualsiasi pensiero di ciò che mi succederebbe, se qualcuno dovesse leggere queste righe. È necessario che le scriva. Ho il presentimento che la guerra finirà presto, e prima che succeda voglio aver messo per iscritto quel che ho vissuto: dopo la guerra lo faranno in centinaia. No, meglio adesso – anche a rischio della vita»
Scritte da Fallada nel 1944 mentre si trova rinchiuso nel manicomio criminale di Neustrelitz, le pagine che compongono il manoscritto di Nel mio paese straniero, rimasto incompiuto, rappresentano per l’antinazista Fallada non solo un bilancio personale della propria vita nella Germania di Hitler, Goebbels, Goering ma anche una
formidabile galleria di ritratti di persone
— oscure figure di uomini e donne qualunque o molto famosi come l’editore Rowohlt, il drammaturgo Brecht, il gerarca Goebbels —
trasformate narrativamente in veri e propri personaggi dei quali viene descritto il comportamento negli anni del nazismo a partire dall’incendio del Reichstag fino agli ultimi anni di guerra. Pagine, anche, che meglio ci fanno comprendere i personaggi (gente comune, “piccoli uomini”) dei Pinnenberg e dei Quangel, i protagonisti dei suoi romanzi più famosi (di E adesso, pover’uomo?
ne ho parlato >>QUI :https://nonsoloproust.wordpress.com/2013/04/09/nel-mio-paese-straniero-hans-fallada/nonsoloproust.wordpress.com/2008/12/04/e-adesso-poveruomo-hans-fallada/ )
Rudolf Ditzen (questo il vero nome di Fallada) aveva avuto la possibilità di lasciare in tempo utile la Germania e di rifugiarsi all’estero, ma aveva preferito rimanere; nonostante tutto non si è pentito della sua scelta, e nel 1944 scrive, a proposito dei tanti altri artisti ed intellettuali che hanno scelto di andarsene:
“Tutto ciò noi l’abbiamo vissuto e patito, costretti a tremare ogni momento per la nostra vita e per quella dei nostri cari, da undici anni ormai ci troviamo in questa situazione. Undici anni senza tregua, senza pace! E fuori di qui, all’estero, ci sono dei dissennati, che conducono una vita comoda e priva di pericoli, e che ci insultano, chiamandoci opportunisti, mercenari dei nazisti – biasimano la nostra debolezza, la nostra inerzia, la nostra incapacità di opporre resistenza! Ma noi abbiamo sopportato tutto quanto e loro no, noi abbiamo provato ogni giorno la paura e loro no, noi abbiamo fatto il nostro lavoro, abbiamo coltivato il nostro campo, abbiamo fatto crescere i nostri figli, sotto una continua minaccia di morte, e abbiamo pronunciato una parola qui e un’altra là, ci siamo fatti forza a vicenda, abbiamo tenuto duro, anche se spesso avevamo paura – e loro no!”
…E noi che leggiamo oggi queste parole di Fallada non possiamo non pensare alle sprezzanti parole contenute nella famosa lettera indirizzata al poeta Walter von Molo, già presidente dell’Accademia tedesca di poesia con cui Thomas Mann nel settembre del 1945 rifiutò l’invito a tornare in Germania ed a quanta forse eccessiva sicumera fosse in esse:
«Può darsi che sia una forma di superstizione, ma mi sembra che tutti i libri che vennero comunque stampati in Germania dal 1933 al 1945 valgano meno di niente e che sia bene non prenderli in mano. C’è rimasto attaccato un lezzo di sangue e di ignominia; bisognerebbe mandarli tutti quanti al macero»
(Testo integrale della lettera di T. Mann in William Shirer, Diario di Berlino 1934-1947, Einaudi, 1967, pag. 458 e segg.)
Si è comportato meglio Thomas Mann andandosene o Hans Fallada a rimanere? Forse la cosa migliore, per noi, consiste nel rispettare entrambe le scelte. Scelte diverse, situazioni personali molto diverse (uno dei motivi per cui la permanenza della famiglia Mann in Germania era diventata molto a rischio era costituito anche dal fatto non trascurabile che Katia, la moglie di Thomas, era figlia del professore universitario e collezionista d’ arte Alfred Pringsheim, un ricchissimo e coltissimo ebreo di Monaco, tanto per dire) ma entrambe e per entrambi egualmente dolorose.
Hans FALLADA, Nel mio paese straniero. Diario dal carcere 1944,(tit. orig. In meinem fremden Land. Gefängnistagebuch 1944 ), cura di Jenny Williams e Sabine Lange, traduzione e nota di Mario Rubino, p.361, Sellerio Editore, Palermo, 2012
Hans Fallada, pseudonimo di Rudolf Ditzen (1893-1947).
Nei mesi di reclusione nel manicomio criminale di una cittadina prussiana, Hans Fallada decise di stendere il diario della sua vita sotto il Nazismo. Un resoconto personale che racconta la complicata vita di un intellettuale nella Germania di Hitler.
Nel settembre del 1944 Hans Fallada fu internato nel manicomio criminale di una cittadina prussiana per un atto di violenza compiuto durante una forte ubriacatura. Nel corso della reclusione, l’autore di E adesso, pover’uomo? e Ognuno muore solo, lo scrittore del «kleiner Mann», il piccolo uomo tedesco su cui la storia passa possente e indifferente come uno schiacciasassi, decise di stendere il diario della sua vita sotto il Nazismo.
E lo fece, di nascosto dai suoi carcerieri, vergando fogli con una specie di crittografia, in uno stile concitato e drammatico, a compilare un fascicolo che avrebbe intitolato: «L’autore non gradito. Le mie memorie dei dodici anni sotto il terrore nazista».
Era stato un romanziere di grande successo, l’avvento di Hitler aveva spezzato la sua carriera, e la sua vita e il suo stesso equilibrio, con una serie ininterrotta di vessazioni e umiliazioni ma, a differenza di tanti altri esponenti della cultura tedesca, mai aveva voluto lasciare la Germania, pur avendone avuto occasione; e adesso, intuendo la fine della guerra, voleva lasciare ai posteri la spiegazione (più che la giustificazione: non avendo nessuna colpa) del suo rifiutato esilio, o meglio: del suo esilio in patria.
È questo libro, rimasto inedito a lungo tra le carte dell’autore, e pubblicato in Germania solo nel 2009.
Fallada fa i conti con se stesso e racconta dal basso la vita nella dittatura, in una miniatura quotidiana ma in cui balenano di continuo i grandi personaggi come protagonisti di un romanzo, con dialoghi immaginati e monologhi interiori. Il memoriale di un’innocente catastrofe personale che è anche il documento fedele al millesimo, volutamente privo di ogni autocoscienza ideologica, storica o politica, del mondo dei tedeschi qualunque sotto Hitler, dall’incendio del Reichstag alla guerra. Perché Fallada non è soltanto lo scrittore del «kleiner Mann»: è lui il kleiner Mann e non cerca di nasconderlo.
«Perché mai devo fare dell’altro, oltre a descrivere l’esistente? Sono forse un riformatore? Un educatore? No, sono soltanto uno che sta a descrivere», «È vero, sono un debole, ma non sono cattivo, non lo sono mai stato». Che suona, nel suo disarmato consegnarsi all’abisso, come l’eco più miseramente tragica della maledizione alla terra che ha bisogno di eroi.
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