+++ FREDERICO PETRONI, LA CRISI UCRAINA E LA NATO — LIMES ONLINE — 11 FEBBRAIO 2022 — AGGIORNATO IL 12 FEBBRAIO ALLE 17.45

 

 

LIMES ONLINE — 11 FEBBRAIO 2022 — AGGIORNATO IL 12 FEBBRAIO ALLE 17.45

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LA NEBBIA DELLA GUERRA IN UCRAINA

 

di Federico Petroni, aggiornato il 12/2 alle h17.45

 

Gli Stati Uniti danno per imminente un attacco della Russia in Ucraina. Hanno ordinato l’evacuazione dell’ambasciata a Kiev e delle poche centinaia di militari in loco, imitati dal Regno Unito. Paesi come Israele, la Germania e l’Italia stanno ritirando il personale diplomatico. Unica potenza a restare nella capitale: la Francia. Pure la Russia sta facendo lo stesso, ma per il motivo opposto: Mosca accusa gli occidentali di preparare un’offensiva nel Donbas contro i ribelli filorussi.

 

Le ultime mosse di americani e russi suggeriscono che si vada verso una qualche forma di scontro armato. Il governo statunitense sostiene di possedere informazioni secondo cui Putin potrebbe ordinare di invadere l’Ucraina il 16 febbraio e che l’assalto fisico sarebbe preceduto da attacchi missilistici e cibernetici.

L’attacco potrebbe puntare a Kiev, sul porto di Odessa per togliere agli ucraini l’accesso al Mar Nero oppure a collegare via terra l’isolata Crimea al Donbas (ma anche a tutte e tre le cose), nella speranza che si installi un governo filorusso manovrabile da remoto. A Mosca ovviamente si sostiene il contrario, ossia che gli americani stiano incitando l’esercito ucraino a sparare.

 

Sarà probabilmente difficile stabilire chi scatenerà l’offensiva. La nebbia della guerra sta scendendo sull’Ucraina. Nelle prossime ore, il fuoco di sbarramento della propaganda si farà fittissimo. Sarà quasi impossibile capire che cosa realmente succeda sul terreno. Ciascuno presenterà la propria verità, armato di prove insindacabili, nella certezza che saranno ampiamente diffuse in Rete, alimentando teorie del complotto e fortificando ogni spettatore nelle sue convinzioni precedenti.

 

I nostri schermi saranno campo di battaglia. Obiettivo: dividere (i russi) o compattare (gli americani) le opinioni pubbliche negli Stati Uniti e in Europa. La discordia in America ha ormai ampiamente contagiato la politica estera: la parte dell’establishment in orbita trumpiana vorrebbe mollare l’Ucraina alla Russia per dedicarsi alla Cina senza minimamente considerare le ricadute di tanta decisione sugli equilibri europei; la parte dell’establishment più tradizionale (dai russofobi agli interventisti liberali) considera una bestemmia arretrare di un solo millimetro in Europa, anche per l’idea che Putin sia un mostro e la “democrazia” a rischio assassinio per mano degli autocrati; la cerchia del presidente, infine, fino all’altro ieri pensava di dedicarsi solo a sanare le ferite interne alla società americana.

 

Quanto ai paesi europei, sono una delle primissime poste in gioco di questa partita. Se si dividono fra loro o al loro interno su chi è il responsabile o su che cosa fare, è a rischio la Nato, dunque la sfera d’influenza dell’America, fra i principali obiettivi di Putin. Lo shock di una guerra vera nel continente che s’illudeva di averla debellata produrrebbe terremoti.

 

 

 

 

IL GIOCO DI PUTIN

di Federico Petroni

 

Il braccio di ferro tra Stati Uniti e Russia è prova di resistenza, non di velocità. Si gioca in Ucraina ma non riguarda solo l’Ucraina, bensì il futuro dell’impero europeo dell’America, organizzato anche mediante la Nato, e la legittimazione dei bisogni di sicurezza di Mosca – in altre parole, il rango di quest’ultima.

Per farsi sentire, Putin ha scelto di minacciare la guerra, cioè l’escalation, di cui siamo soltanto alle primissime fasi. Ha bisogno di rendere credibile questa minaccia. Aveva programmato per questa settimana un’esercitazione in Bielorussia che è molto più di un’esercitazione, assomiglia al tradizionale passaggio in rassegna delle truppe prima di sferrare un attacco. Continua in queste ore ad aggiungere soldati, navi, veicoli corazzati, ospedali da campo ai confini dell’Ucraina. Per questo ha rimandato indietro Macron con un pugno di mosche, dopo averlo tenuto a distanza (letteralmente, con quei metri di tavolo).

 

Non sappiamo, né sapremo mai, che cosa si siano detti Putin e Macron. Il secondo però ha provato a sdoganare le sue idee per smorzare la crisi: finlandizzare l’Ucraina e ritenere ammissibili le preoccupazioni russe. Traduzione: coinvolgere Mosca nell’architettura della sicurezza europea ridimensionando la Nato e rendere impossibile a Kiev aderire all’Alleanza Atlantica, non mediante veto internazionale ma mediante veto interno. Cioè mettendo in costituzione che le regioni ribelli dell’Est manovrate dalla Russia possono impedire di entrare definitivamente in campo occidentale. Il governo di Kiev non ha accettato: avrebbe voluto dire castrare a tempo indeterminato l’Ucraina. Un paese a cui è vietato scegliere è un paese che ha perso vitalità.

 

Putin sta lasciando che gli europei si scannino tra loro su che cosa (non) concedere ai russi, per far emergere le divisioni interne al continente e con gli americani. Per esempio, italiani e tedeschi hanno preteso da Washington di smorzare le sanzioni allo studio, ottenendo di non eliminare la Russia dal sistema finanziario Swift. In cambio, Berlino è costretta a promettere agli Stati Uniti che in caso di invasione annullerebbe Nord Stream 2. Ma solo in privato, mentre in pubblico il cancelliere Scholz non si azzarda a pronunciare il fatidico verdetto, per tipica paura germanica di assumersi responsabilità e per non essere additato come colui che uccise il gasdotto.

Putin si è messo nella posizione di dettare le regole del gioco. Il che non vuol dire posizione di forza. Anzi, è tutt’altro che invidiabile, poiché rischia di chiuderlo in un angolo che ne limiterà le opzioni, in particolare quelle più morbide. Per ora, ma soltanto per ora, il gioco è a suo favore. Sta costringendo gli americani a trattare secondo le sue condizioni. Ha già ottenuto da Washington l’evacuazione dall’Ucraina e il chiarimento che non interverrà in difesa di Kiev, una forma di concessione negoziale che l’ex repubblica sovietica non entrerà nella Nato e che se ne accetta la neutralizzazione.

In questo quadro, un attacco in grande stile della Russia all’Ucraina sarebbe poco plausibile. Ma la tensione si sta alzando perché evidentemente si è prodotto uno stallo nei negoziati.

 

 

 

 

LA RISTRUTTURAZIONE DELLA NATO

 

 

 di Federico Petroni

All’ombra della crisi ucraina si sta svolgendo qualcosa di estremamente rilevante. Gli Stati Uniti stanno ristrutturando la loro presenza militare nel continente. Senza stravolgerla, stanno dando nuova forma alla Nato, provando a conservare il suo tradizionale significato.

Riassumiamo i principali avvenimenti.

— Gli americani hanno aumentato il contingente in Polonia e in Romania di tremila unità. Stanno negoziando con la Slovacchia un accordo per accedere alle sue infrastrutture, in cambio di denaro per ammodernarle. Ne stanno negoziando un altro simile con la Danimarca, per inviare all’occorrenza truppe nella penisola dello Jutland (o sull’isola di Bornholm, ma non in Groenlandia o alle Fær Øer).

Non casualmente, l’Ungheria in questi giorni si è detta contraria a ospitare nuovi reparti della Nato sul proprio territorio. Nelle stesse ore, l’Alleanza Atlantica ammetteva che potrebbero nascere nuove strutture militari permanente in Est Europa.

 

Basta guardare una mappa per capire che cosa sta avvenendo:

gli americani vogliono costruire uno schieramento militare senza soluzione di continuità nell’Europa fra i due mari (Nero e Baltico). Fra i tre, se si include l’Artico, con la Norvegia con la quale sono stati siglati accordi per una presenza in quattro basi.

 

Non è un piano figlio della crisi ucraina perché l’intesa con Oslo è del 2021 e sempre lo scorso anno sono iniziate le trattative con Copenhagen. I semi sono stati gettati ben prima, con progetti infrastrutturali di lungo respiro come la ferrovia tra Costanza e Danzica, che tocca proprio tutti i paesi Nato confinanti con l’Ucraina.

 

Tuttavia, il piano certifica diversi aspetti di fondamentale importanza. Innanzitutto, gli americani non hanno alcuna intenzione di lasciare l’Europa, nemmeno al salire dell’intensità della sfida con la Cina. Poi, come argomentavamo lo scorso anno, la nuova cortina di ferro va consolidandosi selezionando i nuovi paesi perno. Di conseguenza, il nuovo assetto dimostra la crescente divisione interna alla Nato, con gli orientali e i nordici come avamposti antirussi e gli occidentali meno coinvolti nel contenimento.

Questo fattore lascia a Italia, Francia e Germania margine d’azione per farsi valere altrove (per noi è essenziale il Mediterraneo) e/o per studiare posizioni comuni nel negoziato con la Russia.

Infine, una parola sulla posizione della Danimarca: l’adesione al progetto americano conferma il suo crescente distacco dalla Germania, visibile non solo nella diversa percezione della Russia, ma pure in materia fiscale (i danesi erano fra i frugali più tenaci contro gli eurobond concessi da Merkel all’Italia).

Considerando che la Nato si fonda sulla neutralizzazione della Germania, la scelta di Copenhagen non è affatto banale.

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