IL MANIFESTO DEL 30 GENNAIO 2022 — LINK IN FONDO
Stanno regalando la Russia alla Cina
Crisi ucraina. Nelle tensioni tra Est e Ovest i cinesi sanno muoversi con accortezza. E possono indicare anche soluzioni.
Alberto Negri
EDIZIONE DEL 30.01.2022
PUBBLICATO 29.1.2022, 23:59
Le cronache di Le Monde ci dicono che Kiev non è una città in stato di assedio: scaffali dei negozi ben forniti, caffè aperti, benzinai con carburante e misure di sicurezza invisibili. Lontano dal fronte si combatte soprattutto una guerra dei nervi e strategica, in cui gli ucraini sono più pedine che protagonisti.
Invitato a partecipare come speaker al Forum sulla Russia del Centro studi americani di Roma e dell’Aspen, mi è parso di cogliere negli interventi, sia degli occidentali che dei russi, un messaggio più o meno esplicito: «Non regaliamo la Russia alla Cina». In questa crisi i cinesi hanno mostrato un aplomb straordinario: che non significa distacco da quanto avviene ai confini dell’Ucraina ma consapevolezza che nelle tensioni tra Est e Ovest sanno muoversi con accortezza. E possono indicare anche soluzioni.
Prima ancora del colloquio tra Macron e Putin per tornare al formato Normandia sull’Ucraina, la conferma è venuta dal colloquio telefonico tra il ministro cinese degli esteri Wang Yi con il segretario di Stato Usa Antony Blinken.
La Cina, ha affermato il capo della diplomazia di Pechino, ritiene che «per risolvere» la crisi Ucraina sia necessario «tornare ancora al punto originale del Nuovo accordo di Minsk», mentre «tutte le parti dovrebbero abbandonare completamente la mentalità della Guerra Fredda e formare un meccanismo di sicurezza europeo equilibrato, efficace e sostenibile attraverso negoziati».
Pur sottolineando i rischi dell’allargamento della Nato a Est: «La sicurezza – ha detto – non può essere garantita rafforzando o espandendo i blocchi militari».
Una posizione volta al dialogo, non troppo distante, anzi assai vicina, a quella sostenuta da tempo dalla Germania di Angela Merkel dove ora è alla guida il cancelliere Scholtz, che da poco insediato deve affrontare forse l’incubo maggiore di Berlino: i venti di guerra con quella Russia che è il maggiore partner tedesco per le forniture di gas e molto altro ancora.
È da sottolineare che la Germania è anche il più importante partner commerciale della Cina con circa 200 miliardi di euro all’anno di interscambio, lo stesso livello che Mosca vuole raggiungere entro tre anni con Pechino.
Sono cifre e interessi da tenere a mente quando si pensa alla tensione Est-Ovest: è evidente che qui le guardiamo con occhio diverso rispetto agli Stati Uniti. Soprattutto i tedeschi che hanno appena completato il gasdotto Nord Stream con la Russia e hanno una gran parte dei loro scambi commerciali con la Cina attraverso il territorio ex sovietico: anzi, il 90% degli scambi cinesi con l’Europa passa dalla Russia e dall’Asia centrale.
Si capisce bene di che stiamo parlando: di export, di import, di materie prime, semilavorati: il sangue che fa scorrere le nostre economie. Gli Stati Uniti lo sanno benissimo, come sanno perfettamente che avere incoraggiato in questi anni l’Ucraina a entrare nella Nato è stato un errore che oggi si ripercuote sui rapporti con Mosca e l’Europa. Nel 2014 perfino Henry Kissinger aveva sostenuto che l’Ucraina doveva essere un «ponte» tra Est e Ovest, ben sapendo che una Ucraina nella Nato avrebbe scatenato nei russi la sindrome dell’assedio. Purtroppo le amministrazioni di Obama, Trump e Biden giudicavano e giudicano diversamente la situazione strategica: bisogna togliere spazio alla Russia e minare la sua sfera di influenza perché così indeboliamo anche la Cina.
In realtà corriamo il rischio opposto, quello di «regalare» la Russia, cioè un pezzo di Europa e di Eurasia a Pechino, proprio compattandoli. Se dovesse avvenire, sarebbe un fallimento epocale della politica estera americana che di fallimenti ne infila uno dietro l’altro: l’ultimo è stato l’Afghanistan, per non citare i «guai» provocati dalla guerra in Iraq nel 2003 e dall’intervento in Libia nel 2011.
Per la pandemia, per la «crescita», per abbattere la povertà serve la stabilità, non la destabilizzazione.
Gli europei devono svegliarsi perché, a dispetto dell’Unione di Bruxelles, non esiste una sola Europa ma diverse Europe, come scriveva Vittorio Strada. Forte della sua profonda conoscenza della Russia, Strada affermava nel suo volume Europe che l’Europa è fatta di nazioni che nascono, rinascono, si rinnovano, si fondono, si separano. L’Europa o le Europe sono aree anche molto diverse che sembrano orientate verso un’ideale unificazione ma non sono certamente fuse in una compatta unità. Come leggere le storie di Polonia e Ucraina, regioni che per secoli hanno fatto parte dell’impero russo, e ora della vita europea ma sono anche in fase di complessa transizione? Il governo polacco sostiene per esempio che la legislazione nazionale è superiore a quella dell’Unione europea, eppure questo Paese incassa ogni anno miliardi di euro da Bruxelles. La storia, però, non si compra.
La verità è che gli europei «occidentali» sbagliano nella chiave di interpretazione: nel tempo lungo il presente non è l’odierna attualità ma l’intero secolo scorso che ha visto la graduale perdita di centralità dell’Europa a partire dalla prima guerra mondiale, una perdita di ruolo sfociata dopo la seconda nella fine del colonialismo e nell’insorgere della guerra fredda.
Fu così che nell’89 il crollo del Muro di Berlino venne interpretato da alcuni sciocchi molto mediatizzati come la «fine della storia». Una tremenda stupidaggine alimentata tra l’altro da cosiddetti «esperti» americani: in Europa cominciava la fine della Jugoslavia e la Cina iniziava il suo decollo come grande potenza economica e militare.
I cinesi, che oltre alla loro rivoluzione hanno alle spalle anche un impero di migliaia di anni, non si sono scomposti. E ora aspettano che in Ucraina americani e atlantisti affondino il piede nella palude e ci rimangano impantanati. Poi lanceranno una fune ai russi e magari pure a noi. Ma non sarà gratis.
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