TOMMASO RODANO, “La guerra partigiana e la lotta in fabbrica: il mio Pci era libertà” – IL FATTO QUOTIDIANO DEL 22 MARZO 2021

 

IL FATTO QUOTIDIANO DEL 22 MARZO 2021

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L’INTERVISTA – RENZO SARTEUR, COMUNISTA ITALIANO

“La guerra partigiana e la lotta in fabbrica: il mio Pci era libertà”

DI TOMMASO RODANO

Il compagno Renzo Sarteur porta sulle spalle i suoi 90 anni di storia con la leggerezza di un bambino. È un signore sorridente, un conversatore ironico e generoso. Racconta una vita da film: l’infanzia in collegio, l’adolescenza partigiana in un passo alpino della Val d’Aosta, la gioventù da operaio in Olivetti, le lotte sindacali e la militanza comunista. Continua a contemplare, alla sua non più tenera età, un orizzonte rivoluzionario. Un’utopia di rivoluzione gentile: “Il pensiero comunista – dice – non deve resuscitare perché non è mai morto. È un modo di vedere il mondo. Mica solo dei comunisti, anche di molti cattolici. In fondo, Cristo diceva le stesse cose che dicevamo noi”.

 

Cosa ha significato per lei il Pci?

Per me il comunismo era ribellione. Era un grido interiore, una presa di coscienza: “Io voglio essere libero”. Il sentimento per me nasce negli anni del collegio, ancora prima di maturare una vera coscienza politica. È una reazione al bigottismo iper religioso dell’ambiente in cui sono stato costretto a crescere.

 

Cosa si ricorda di quegli anni?

Tutto, purtroppo. Sono arrivato in collegio a 8 anni e sono rimasto per 5. Mi ci portò mia madre, orfana dalla prima guerra mondiale, non poteva occuparsi di me. In quei 5 anni l’avrò vista forse due volte. Gli altri bambini mi prendevano in giro perché ero “quello senza papà”. Avevo il numero di matricola 128. A Natale i genitori potevano passare un po’ di tempo con i figli e portarli a casa per pranzo, poi tornavano la sera. Ci mettevano in fila fuori dallo studio della direttrice in attesa che ci venissero a prendere. Io però non avevo nessuno. I miei compagni tornavano con caramelle e giocattoli, io niente. Quella condizione mi faceva riflettere: perché per me non esiste Gesù bambino? Credo sia in quel momento che è maturato il senso di ribellione alle ingiustizie che mi ha accompagnato per tutta la vita.

 

Lei è stato un giovanissimo partigiano.

Non ho partecipato alla lotta armata, ma se per partigiano si intende chi fu costretto a fare una scelta e a prendere parte, non ho mai avuto dubbi nel rifiuto del fascismo, è stato netto.

 

La lotta armata però l’ha vista da vicino.

Nell’estate del ’44 finalmente lasciai il collegio e raggiunsi mia madre, il suo compagno e mio zio in un passo alpino della Val d’Ayas, in Valle d’Aosta, ai piedi del Monte Rosa. Vivevamo negli alpeggi, oltre i 2mila metri, in mezzo alle mucche e al bestiame. La lotta partigiana era in mezzo a noi e sotto di noi. Mio zio era scappato da una caserma di Ivrea, come tanti altri militari. Dentro una baita nella nostra valle c’erano quattro ex prigionieri dei tedeschi – un americano, un australiano, un neozelandese e un inglese – che erano riusciti a fuggire. Noi li nascondevamo e gli davamo da mangiare, in attesa di trovare una soluzione per fargli attraversare il confine.

 

Aveva paura?

No, avevo un’incosciente voglia di partecipare. Vedevo le bande partigiane che si organizzavano e attraversavano la valle. Avevo 13 anni e mezzo, non mi permisero di portare armi pesanti. Ero un ragazzino, davo una mano come potevo. Mi diedero solo un moschetto, che sapevo montare e smontare da solo – con grande sorpresa di mio zio – perché l’avevo imparato in collegio, quando ci obbligavano a partecipare alle manifestazioni dei balilla fascisti. Quell’estate andavo a dormire in altura: eravamo io, il moschetto, il cane e un centinaio di pecore. Ogni tanto sentivo dalla valle, in basso, il rumore dei rastrellamenti e delle mitragliatrici tedesche.

 

Poi arriva la primavera del ’45, i partigiani scendono dai monti, l’Italia è libera.

Ricordo bene la fine della guerra. Tutti volevamo partecipare. Avevo il desiderio ardente di scendere con loro, volevo unirmi al gruppo del partigiano Fulmine. Mi fermò mia madre: “Ue bòcia, dove credi di andare? Tu resti qui”.

 

Il nucleo della sua vita adulta è in Olivetti, a Ivrea.

Ho iniziato a lavorare lì subito dopo la guerra, a 14 anni, partecipando al loro centro di formazione tecnica. Poi per alcuni anni ho viaggiato, la vita di fabbrica mi metteva angoscia: ho sempre odiato l’automazione, l’idea che qualcun altro decidesse i tempi e i modi delle mie azioni, mi privasse della personalità e della coscienza. Ho girato, ho conosciuto un po’ di mondo. Poi sono tornato in Olivetti, ma senza smettere di aspirare all’emancipazione.

 

Quello di Olivetti è passato alla storia come un modello straordinario. È sbagliato?

La vita degli operai era sicuramente molto migliore in Olivetti che nelle altre fabbriche. Ha speso soldi per la cultura, l’istruzione, le biblioteche. Ha avuto una funzione informativa, se non altro, del tipo di condizione che poteva essere in una società industriale matura.

 

Eppure con il Pci ha combattuto il suo Movimento Comunità.

Avevamo le nostre ragioni, ma forse avremmo potuto aiutare quel movimento a evolvere e trasformarsi, a farlo diventare uno strumento per una società socialista.

 

Sua figlia mi ha mostrato una lettera che le ha mandato Palmiro Togliatti.

La conservo con tanto orgoglio. Sono stato rappresentante sindacale, ho diretto per anni il giornale interno del partito di Ivrea, si chiamava Il Tasto. Ho collaborato con Vie Nuove e con l’Unità, andavo a distribuire il giornale. L’Unione Sovietica era l’utopia, l’andammo a vedere grazie a un viaggio organizzato in fabbrica: ricordo il treno della Transiberiana e il primo maggio a Mosca. Nel comunismo ho riconosciuto me stesso, il bisogno di lottare contro le ingiustizie, di garantire i diritti per tutti.

 

Cosa rimane di questa storia?

L’educazione, la cultura: un modo di osservare la realtà.

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