RIVISTA IL MULINO.IT 06 OTTOBRE 2021
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ELEZIONI.
LA POLITICA DOPO IL VOTO NELLE CITTÀ
Le elezioni comunali che si sono appena tenute aprono nuovi scenari, ancora in larga parte però ignoti. Un buon risultato per il Pd e per Enrico Letta, certo. Ma è presto per parlare di una nuova stagione politica
di Mario Ricciardi
Non è stata una cattiva giornata. Enrico Letta è entrato in Parlamento. Un buon risultato per il segretario del Pd, che sarà nelle migliori condizioni per rafforzarsi all’interno del partito, guidandolo verso scadenze importanti, come l’elezione del prossimo presidente della Repubblica. In politica i simboli e i gesti non si possono trascurare, e guidare dalle retrovie può esporre a insidie che ora Letta sarà in grado di fronteggiare con maggiore efficacia. La sfida è di continuare nel sostegno al governo Draghi, ma senza appiattirsi su esso. Non cadere nella stessa ingenuità che i Democratici pagarono cara ai tempi del governo Monti. Acquistare quel minimo di distanza critica – nelle aule parlamentari e nel Paese – che è indispensabile per rafforzare la democrazia in una fase in cui essa appare sfibrata (i dati sull’astensione, che vanno letti anche nel contesto delle situazioni locali – quella di Milano ha forse spiegazioni in parte diverse da quella di Roma, Bologna o Napoli, sono preoccupanti).
Ciò non vuol dire mettere in difficoltà il presidente del Consiglio, ma aiutarlo invece ad articolare quei profili di equità della sua azione che egli stesso ha più volte richiamato, ma che avrebbero bisogno anche di una sana dialettica tra sinistra e destra per essere messi a fuoco e trasformarsi in politiche. Fino a quando la composizione del Parlamento è quella attuale, ciò richiede un rapporto costruttivo con il M5S. Che la formazione guidata da Giuseppe Conte sia apparsa in difficoltà nelle elezioni amministrative è indubbio. Si deve approfondire l’analisi del voto per capire se c’è una tendenza che potrebbe avere una spiegazione unitaria, ma tenendo conto del fatto che si tratta di consultazioni diverse da un voto politico, che non hanno quindi un impatto immediato sulla consistenza dei gruppi parlamentari del Movimento. Letta ha le qualità per fare da punto di riferimento per un’area che va oltre i confini del Pd. Può farlo se resiste alle sirene che in queste ore cercano di incantarlo, spingendolo a impegnarsi in improbabili disegni neocentristi, che godono di ampio consenso soltanto nelle chattering classes.
Come ha scritto di recente Carlo Trigilia, il Pd deve puntare a mettere insieme un’alleanza sociale ampia, che sappia trovare una mediazione virtuosa tra le necessità della crescita e quelle della giustizia sociale e della sostenibilità.
Sarà ora possibile aiutare il presidente del Consiglio ad articolare quei profili di equità della sua azione che egli stesso ha più volte richiamato, ma che avrebbero bisogno anche di una sana dialettica tra sinistra e destra per essere messi a fuoco e trasformarsi in politiche?
Sotto questo profilo, la vittoria al primo turno di sindaci progressisti in città importanti come Milano, Bologna e Napoli è un segnale positivo. Così come fa ben sperare il secondo posto di Gualtieri a Roma. Sarebbe tuttavia un grave errore aggregare a livello nazionale consensi che sono stati espressi localmente, su candidati e coalizioni ciascuna delle quali ha le sue peculiarità, che sono state valutate da elettori che erano chiamati a pronunciarsi sull’elezione di un sindaco e di un consiglio comunale, e non sul governo del paese. In vista dei ballottaggi questa caratteristica del voto amministrativo non deve essere persa di vista. La battaglia per Roma deve essere fatta sui problemi della città e dei suoi abitanti, sul programma della coalizione, senza cedere alla tentazione di sovrapporre a questa dimensione altri obiettivi – la tenuta del governo nazionale, l’Europa – che sono importantissimi, ma che devono trovare la propria collocazione nei tempi e nei luoghi appropriati.
Dal voto romano emerge un dato significativo, che merita una riflessione. Anche al netto dell’astensione, il risultato ottenuto da Carlo Calenda è notevole. Premia una scelta coraggiosa, quella di correre da solo, e una determinazione che certamente ha colpito una parte degli elettori. Nei prossimi giorni si capirà come Calenda darà seguito alla fiducia che ha ricevuto. Impegnarsi a tempo pieno in Consiglio, rinunciando al seggio al parlamento europeo? Impegnarsi per sostenere Gualtieri, anche se ha lasciato i suoi elettori liberi di scegliere? Lo sono, ovviamente, in un senso essenziale, ma è normale che essi si aspettino un’indicazione da chi hanno scelto come candidato preferito per la carica di sindaco. Decidere di rimanere in consiglio comunale con un ruolo attivo, di presenza costante e di pungolo per il sindaco che uscirà dal ballottaggio è un’ipotesi che un solista come Calenda probabilmente trova poco congeniale, ma che potrebbe dargli modo di consolidare un’esperienza che altrimenti corre il rischio di sfaldarsi se egli decidesse invece di lanciarsi in un’altra avventura, come molti amici (non disinteressati) in questo momento lo invitano a fare.
A consigliare prudenza dovrebbe poi essere la consapevolezza che un buon successo a livello locale, sia pure in una città importante come la capitale, non si traduce automaticamente in un vantaggio in vista di elezioni politiche che avverranno in condizioni diverse da quelle attuali.
Mettersi a capo di un’aggregazione centrista con tanti generali e poca truppa potrebbe essere un errore fatale. Anche alla luce dell’affidabilità che alcuni dei suoi ipotetici partner hanno mostrato nel passato recente. Ci sarà certamente qualcuno che in queste ore non si fa scrupolo di rassicurarlo: “stai sereno Carlo”. Ma le parole in politica prima o poi devono fare i conti con la realtà, con gli interessi, le ambizioni, e i rapporti di forza. Mettere insieme un partito che abbia un buon radicamento su scala nazionale è un compito che richiede un tempo e un lavoro che appaiono incompatibili con una presenza costante in una realtà difficile come sarà comunque quella romana.
Dal voto del primo turno di queste elezioni amministrative emergono insomma segnali positivi per i progressisti, alcune novità interessanti, e qualche indizio di difficoltà delle destre, che faticano a trovare candidati davvero convincenti. Sarebbe tuttavia avventato affermare, come ha fatto qualcuno, che si apre una fase completamente nuova. Che i “populisti” o le destre sono sconfitte, e che si torna a una presunta normalità. La democrazia in questo momento è fragile quasi ovunque, la crisi italiana è grave, ma nessuno, certamente non il Regno Unito, gli Stati Uniti, e neppure la tanto idealizzata Germania, naviga in acque tranquille. Se non ci lasciamo alle spalle la pandemia, consolidiamo gli indicatori di crescita economica, e facciamo i conti con le cause profonde di un malessere che ci portiamo dietro da più di un decennio, non potremo sentirci davvero al sicuro.
Realizzare questi obiettivi non sarà facile, anche perché è inimmaginabile che si ottenga senza andare incontro a tensioni e conflitti. C’è bisogno di più politica, non meno. Di un nuovo modo di intendere il ruolo del pubblico potere (per riprendere l’espressione di Massimo Severo Giannini) nell’economia e nella società. Che non è più lo Stato novecentesco, un fantasma che un liberalismo privo di principi e di idee sembra temere più della diseguaglianza, della povertà e della catastrofe climatica. Promuovere la partecipazione, non scoraggiarla. Dare respiro alle giovani generazioni, offrendo loro qualcosa di diverso da un futuro fatto di incertezza economica ed esistenziale. Sarebbe bello pensare che il tempo dei guitti e dei demagoghi è finito. Ma sarebbe incosciente affermarlo prima che l’ambiente sociale in cui hanno prosperato in questi anni sia stato bonificato, e reso nuovamente salubre per una democrazia all’altezza delle proprie promesse.
Insomma, bisogna tornare a fare politica, quella nobile attività che fa partecipare le persone.