REPUBBLICA DEL 12 AGOSTO 2021
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Il Fmi promuove lo Ius soli: “I Paesi che ce l’hanno sono più sviluppati”
di Eugenio Occorsio
La sede del Fmi
Secondo gli economisti di Washington si tratta di uno strumento di convivenza civile e di riconoscimento di diritti che favorisce la crescita. “Escludere certi cittadini può in casi estremi portare a seri conflitti e danneggiare l’economia”. Essere inclusivi, insomma, conviene
“I Paesi dove vige un regime di ius soli tendono a essere più sviluppati di quelli che hanno altre regole”.
“L’inclusione facilitata da opportune leggi di cittadinanza è un motore di crescita economica e un fattore per spiegare perché alcuni Paesi sono più ricchi di altri”.
Raramente il Fondo Monetario Nazionale ha preso una posizione così decisa.
Ma stavolta non ha dubbi: in un ponderoso documento fitto di tabelle e grafici intitolato “Does an inclusive citizenship law promote economic development?”, spiega e argomenta scientificamente perché sia molto meglio per un Paese, specialmente se è esposto a un largo flusso di immigrazione, avere un regime di ius soli. Che viene – è la novità – equiparato senza più nessun dubbio a un fattore di sviluppo e crescita.
Oltre che – anche questo è ben argomentato nello studio del Fmi – uno strumento di convivenza civile e di riconoscimento di diritti: “Distinguendo in modo netto i cittadini di un Paese da tutti gli altri, la legge crea degli ‘in’ e degli ‘out’ con forti tensioni sociali. Viceversa – continua il rapporto dell’Fmi – le norme dovrebbero facilitare l’integrazione predisponendo un semplice e trasparente percorso per la cittadinanza che crei un terreno di uguali opportunità per i nuovi arrivati”.
Il rapporto (reperibile sul sito www.imf.org) non fa sconti:
“Se la legge esclude certi cittadini può in casi estremi portare a seri conflitti e danneggiare lo sviluppo economico. Norme inclusive sono un prezioso strumento di crescita, con profonde conseguenze per il mercato del lavoro, i programmi di welfare e le istituzioni stesse”.
Lo ius sanguinis, all’opposto “è più etnocentrico e per definizione meno inclusivo”, laddove l’intera letteratura economica dimostra i problemi che derivano dalla marginalizzazione di interi gruppi di popolazione rispetto al ‘mainstream’ della società in cui vivono per la mancanza di nazionalità. A maggiore inclusione corrispondono “meno diseguaglianze di reddito, più parità di genere, miglior velocità di adattamento, in una parola più crescita”.
La differenza nella performance economica “trova una vivida illustrazione e una straordinaria illustrazione”, per usare le parole del report, nei grafici che lo illustrano. I dati non sono recentissimi, ma esemplificativi.
Fra il 1970 e il 2014 i redditi pro capite dei Paesi con lo ius soli sono stati dell’80% più alti che in tutti gli altri. Dove è riuscita un’opera meritoria: legare ogni singolo allo Stato attribuendogli un’identità precisa e legale, da affiancare naturalmente alla loro identità etnica basata sui legami con la terra d’origine.
Nulla ostacola, aggiunge il Fmi, che si possa ampliare la fattispecie della doppia nazionalità, creata dalla Gran Bretagna nel 1949 e oggi diffusa soprattutto negli Stati Uniti. Oppure creare regimi misti come ha fatto la Germania dopo l’arrivo di milioni di turchi.
Ma è materia da maneggiare con estrema cura: secondo il rapporto, ad esempio, è stato decisivo per il ritardo dello sviluppo dell’Africa subsahariana il fatto che usciti dal colonialismo i nuovi governi abbiano imposto una scelta di nazionalità. Il risultato è che gli antichi “coloni” bianchi, che magari individualmente avevano stabilito un ragionevole rapporto di collaborazione con la terra in cui vivevano, sono stati costretti ad andar via portando con sé competenze e capacità.
E’ incredibile, dal mio punto di vista, che non sia ancora stato stabilito in Italia lo” ius soli”, uno strumento di semplice civiltà e anche di sviluppo non solo civile.