Daniele Santoro, Federico Petroni, Giorgio Cuscito:: Riassunto geopolitico ::: 2. . Che farà l’America, 1. l’Isis-K in Afghanistan, 3. cosa vuole la Cina dai taliban, 4. il ritiro della Turchia. — LIMES ONLINE DEL 27  AGOSTO 2021

 

LIMES ONLINE DEL 27  AGOSTO 2021

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Che farà l’America, l’Isis-K in Afghanistan, cosa vuole la Cina dai taliban, il ritiro della Turchia: riassunto geopolitico 

analisi di Daniele Santoro, Federico Petroni, Giorgio Cuscito

 

1. CHE COS’È ISIS-K

 

di Daniele Santoro

 

Lo Stato Islamico nella provincia del Khorasan (Isis-K) è l’affiliato afghano dello Stato Islamico. In seguito alle perdite territoriali subite dall’organizzazione salafita in Siria e in Iraq, dal 2018 è divenuto il ramo principale del “califfato”, che ha progressivamente trasferito in Afghanistan la sua base operativa.

 

Nato formalmente il 26 gennaio 2015, l’Isis-K è guidato dal maggio-giugno 2020 da Shahab al-Muhajir e sul suolo afghano può contare oggi su circa 1.500-2.200 militanti.

I membri dell’organizzazione sono perlopiù di etnia pashtun (afghani o pakistani) e sono concentrati nelle province di Konar e Nangarhar.

Si contano anche piccoli gruppi di tagiki e uzbeki stanziati tra Badakhshan, Konduz and Sar-e-Pol, mentre alcuni mesi fa le forze di sicurezza afghane hanno parzialmente annientato una cellula che operava a Mazar-i Sharif (nella provincia di Balkh).

L’identità del leader dell’Isis-K è invece avvolta nel mistero: potrebbe essere un afghano che cela le sue origini, pakistano o provenire da un’altra area geografica.

 

Come il gruppo capeggiato fino all’ottobre 2019 da Abu Bakr al-Baghdadi disconosceva il confine tra Siria e Iraq (abbattuto simbolicamente all’apice della sua parabola), anche l’Isis-K rinnega le divisioni territoriali che fratturano il Dar al-Islam. Pur operando prevalentemente in Afghanistan (e in Pakistan), il suo nome fa riferimento al Khorasan. Regione storica di cui lo spazio afghano è solo una parte – in termini geografici comprende anche l’Iran orientale e il Turkmenistan meridionale.

 

È questa la prima differenza rispetto al suo nemico strategico, i taliban, la cui narrazione ha viceversa natura prevalentemente afghana, nazionale, quasi patriottica. Approccio che induce inevitabilmente gli studenti a scendere a patti con chiunque possa favorire l’affermazione del loro potere sull’Afghanistan. Dunque a sacrificare, sia pure solo in termini tattici, le convinzioni ideologiche pur di instaurare un regime “nazionale”. Come rivelano plasticamente le concessioni dopo la conquista di Kabul del 15 agosto scorso, in particolare sulla condizione delle donne.

 

Alla radice del conflitto tra Isis-K e taliban sta il controllo del territorio, ma il pretesto dello scontro è ideologico. La guerra lanciata dai terroristi salafiti contro gli studenti pashtun il 18 aprile 2015 – data del primo attentato, compiuto a Jalalabad – mira a svelare l’apostasia di questi ultimi, a esporne la disponibilità ad abbandonare le convinzioni religiose da essi stessi propagandate pur di raggiungere propositi politici, dunque mondani.

La propaganda dell’Isis-K non riguarda solo la cooperazione dei taliban con gli Stati Uniti e i paesi occidentali. C’è anche una fondamentale dimensione cinese. Soprattutto negli ultimi mesi, l’organizzazione salafita ha dipinto i taliban come un agente di prossimità della Cina, accusandoli di prevenire attacchi terroristici contro la Repubblica Popolare e soprattutto di reprimere le attività dei propri membri in Afghanistan su richiesta di Pechino.

 

Con l’obiettivo tattico di erodere il consenso dei nuovi padroni di Kabul. E con l’obiettivo strategico di dimostrare l’incapacità dei guerriglieri pashtun di controllare il territorio, dunque di impedire che riescano ad affermare e radicare la propria sovranità sull’intero Afghanistan. Attentati come quelli andati in scena il 26 agosto all’aeroporto di Kabul servono principalmente a questo.

 

 

 

2. CHE FARÀ L’AMERICA

 di Federico Petroni

 

Tredici soldati uccisi in un colpo sono molti, per una potenza emotiva e vendicativa come l’America. Dopo l’attentato di Kabul ordito dall’Isis-K, la grande domanda è se gli Stati Uniti riusciranno a trattenersi dall’ingaggiare una nuova sfida ai “terroristi”. E se lo faranno, con quali argomenti.

Per ora, Biden ha preso tempo, confermando il ritiro ma promettendo vendetta. Logica strategica vorrebbe di non cedere alla provocazione. La filiale dello Stato Islamico ha colpito per farsi colpire, guadagnare visibilità e delegittimare i taliban.

In Afghanistan non c’è nessuna minaccia esistenziale per l’America, ormai ridotta a bersaglio immobile a Kabul. Ogni giorno in più in quell’inutile teatro la distrae dalla sfida cinese. La allontana dall’unico obiettivo tattico rimasto: sbolognare il caos del pantano afghano alle potenze limitrofe. Per dare la caccia ai responsabili delle bombe all’aeroporto, bastano l’intelligence, le forze speciali, una moderata collaborazione con i taliban, le basi nel Golfo, un eventuale distaccamento di una squadra navale nell’Oceano Indiano. Ma quando si prende uno schiaffo in faccia, la lucidità vacilla.

 

In ballo non c’è un nuovo, ampio contingente statunitense in Afghanistan. La popolazione non lo tollererebbe. Il ricordo e la legittimazione della risposta all’11 settembre sono ormai sbiaditi. I ventenni di oggi neppure se lo ricordano. L’Afghanistan è divenuto simbolo di guerre inutili dove gli americani muoiono senza un motivo valido. Gli ultimi (?) morti lasciati a Kabul confermano a livello popolare la necessità di andarsene per mai più tornare.

Forse Washington non lancerà un’altra guerricciola al terrorismo, ma non è questo il punto.

La vera lezione di questa vicenda è quanto poco gli Stati Uniti imparino dai loro errori. Una parte delle burocrazie federali è costruita per combattere il “terrorismo”, a esso deve la sua carriera, si è formata nell’era delle guerre alle metastasi jihadiste. È convinta che sia una minaccia esistenziale, quando è un problema marginale. Un’altra parte è determinata a correggere la figuraccia afghana, certa che se solo avesse avuto più tempo e obiettivi meglio definiti avrebbe potuto trasformare una sconfitta inevitabile in una guerra inutile in un esempio della taumaturgia dell’America. Sono entrambe follie astrategiche, ma influenti negli apparati americani.

 

3. LA CINA E I TALIBAN

 di Giorgio Cuscito

 

La priorità della Cina è assicurarsi la stabilità del confine tra Afghanistan e Xinjiang.

Nella regione è in corso l’assimilazione violenta degli uiguri (musulmani e turcofoni) all’etnia han, su cui si impernia il percorso di formazione dell’identità nazionale della Repubblica Popolare.

 

Lo scorso luglio a Tianjin, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha chiesto ai taliban di recidere i contatti con il Movimento Islamico del Turkestan Orientale.

Si tratta del gruppo terroristico formatosi nel Xinjiang, addestrato in passato da al-Qāʿida e dagli studenti e considerato responsabile degli attentati avvenuti nella Repubblica Popolare tra il 2013 e il 2014.

Attentati che hanno spinto il governo del presidente cinese Xi Jinping a lanciare una dura campagna antiterrorismo e di repressione nei confronti della minoranza uigura.

 

A ciò si aggiunga che in Afghanistan permane il sopramenzionato gruppo jihadista Isis-K. Durante la guerra in Siria, lo Stato Islamico considerava la Repubblica Popolare un potenziale bersaglio e ha accolto tra le sue fila estremisti uiguri.

Pechino continuerà a pattugliare attentamente il confine con l’Afghanistan per impedire infiltrazioni jihadiste tramite il sottile corridoio di Wakhan.

Contestualmente, Pechino vorrebbe espandere i suoi investimenti infrastrutturali in Afghanistan.

Nel 2020 il valore dei progetti cinesi sul posto è stato 110 milioni di dollari, il 159% in più rispetto al 2019. 

 

Continua a leggere:: https://www.limesonline.com/rubrica/che-cosa-vuole-la-cina-dai-taliban-afghanistan

 

 

4. IL RITIRO DEI TURCHI

 di Daniele Santoro

 

 

Il ritiro dei soldati turchi dall’aeroporto di Kabul – annunciato nella serata del 25 agosto dal ministero della Difesa – evidenzia una fondamentale debolezza strategica di Ankara. Emersa in Afghanistan ma che esula dalle specifiche dinamiche afghane.

La Turchia non riesce ancora a muoversi in autonomia al di fuori dell’ombra americana, senza la copertura dell’ombrello a stelle e strisce, in mancanza del sistema di regole e limiti imposto dalla superpotenza.

I turchi non possono permettersi di finire da soli nel pantano afghano. Di qui la decisione di riportare le truppe a casa, sulla quale ha certamente pesato anche l’elevato rischio di attentati all’aeroporto di Kabul – rilanciato da Stati Uniti, Regno Unito e Australia. Ma la questione fondamentale è che in Afghanistan è venuta meno la garanzia americana, fattore che orienta ancora in modo decisivo l’approccio geopolitico turco.

Il ritiro dall’Hindu Kush è per Ankara una sconfitta d’immagine cocente.

 

 

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  1. ueue scrive:

    Un bell’impiccio, soprattutto per il popolo afgano, che è diventato la vittima sacrificale di interessi altrui.

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