LIMES ONLINE 26 AGOSTO 2021 — EDIZIONE STRAORDINARIA
L’attentato a Kabul e perché il principale indiziato è l’Isis-K
L’aeroporto internazionale di Kabul, foto di Wajahat Kazmi via Twitter.
IL GRANDE KHORASAN
L’antica regione persiana del Khorasan (nota tra gli studiosi come “Grande Khorasan”) includeva aree che oggi fanno parte non solo dell’Iran ma dell’Afghanistan, del Tagikistan, del Turkmenistan e dell’Uzbekistan. Nel territorio dell’antica regione si trovano alcune città storiche dell’impero persiano: Nīshāpūr (in Iran), Merv e Sanjan (in Turkmenistan), Samarcanda e Bukhara (in Uzbekistan), Herat, Kabul, Ghazni e Balkh (in Afghanistan). Nella storia la regione del Khorasan fu conquistata da diversi popoli e appartenne a diversi imperi, Greci, Arabi, Selgiuchidi, Safavidi e altri ancora.
Il Khorasan è noto a livello storico oltre che turistico per il fatto di ospitare le tombe del grande poeta epico Firdusi; del discendente del profeta Maometto e Imam sciita duodecimano, ʿAlī al-Riḍā; del grande teologo e filosofo al-Ghazali.
https://it.wikipedia.org/wiki/Khorasa
26/08/2021
Edizione straordinaria de Il mondo oggi.
a cura di Federico Petroni
Si sono verificate due esplosioni presso l’aeroporto di Kabul, una all’ingresso orientale (Abbey Gate) e un’altra nelle vicinanze dell’Hotel Baron.
Si tratta di attentati suicidi, secondo fonti statunitensi e talibane. È rimasto ucciso un numero imprecisato di afghani (almeno 60) e di stranieri. Morti almeno quattro marines statunitensi, altri militari americani sono rimasti feriti così come alcuni soldati britannici.
Gli attentati hanno colpito la calca di cittadini afghani che cercavano di lasciare il paese. Le agenzie d’intelligence occidentali, a partire da quella statunitense, e il governo dei taliban avevano avvertito dell’altissima probabilità che la folla diventasse un bersaglio di un gesto terrorista.
La principale indiziata è la branca locale dello Stato Islamico, nota come Stato Islamico nella Provincia del Khorasan, in sigla Isis-K. Non c’è ancora una rivendicazione ufficiale, ma Isis o non Isis si tratta di un attentato jihadista e la logica che segue resta inalterata.
Isis-K aveva tutte le ragioni per desiderare un gesto così clamoroso. I jihadisti vogliono umiliare gli Stati Uniti per acquisire notorietà e rilanciare il marchio dello Stato Islamico, gravemente compromesso dopo i fasti del 2014-19 (attentati in Europa, parastato fra Siria e Iraq) e dopo essere stato costretto alla macchia in Mesopotamia. Intendono inoltre delegittimare il regime dei taliban, che ne esce come incapace di controllare la situazione.
I jihadisti considerano come nemici non solo gli occidentali ma pure i regimi che governano i paesi musulmani. Non per ragioni ideologiche o confessionali, almeno non solo. Ma perché il potere lo vogliono loro, perché approfittano del caos per crescere e perché colpendo i governi più o meno apostati guadagnano fama e finanziamenti.
Da decenni a questa parte, la strategia dei jihadisti è sempre stata colpire gli occidentali e in particolare gli Stati Uniti per indurli a sovrareagire.
Così fu per l’11 settembre: Osama bin Laden calcolò che gli americani avrebbero risposto invadendo i paesi da cui emanava la minaccia terrorista. Scommessa riuscita: Bush junior dichiarò guerra globale al terrorismo, suicidio che dissanguava la potenza statunitense disperdendola ovunque in conflitti infinibili e astrategici. Ma riuscita solo in parte: gli Usa invasero Afghanistan e Iraq, non esattamente i paesi riconducibili all’11 settembre, come invece erano molto più il Pakistan e l’Arabia Saudita. Quest’ultima vero obiettivo di bin Laden, saudita di nascita e determinato a togliere i Luoghi Santi di Mecca e Medina a casa Sa’ud, che detestava anche perché lo aveva allontanato a inizio anni Novanta.
Questo salto indietro per spiegare il presente. Isis-K sogna che gli americani restino in Afghanistan per vendicare l’attentato subito. O quantomeno rallentare il ritiro loro e degli altri paesi occidentali per infrangere la scadenza del 31 agosto, così creando una crisi fra stranieri e taliban. In questo modo avrebbe più bersagli per irrobustire il suo marchio, far affluire denaro e rifornimenti dai paesi arabi del Golfo, reclutare fra gli emarginati non solo musulmani in Medio Oriente, Nordafrica ed Europa (dei combattenti stranieri noti come foreign fighters pure l’Italia sa più di qualcosa). Così facendo, aumenterebbe le sue quotazioni presso i servizi segreti del Pakistan, che da sempre coltivano rapporti con le milizie in Afghanistan (pure i taliban, di cui sono inventori) per guadagnare influenza oltre confine.
Inoltre, interrompendo il ritiro degli Stati Uniti, strangolerebbe sul nascere il governo talibano. Del quale sicuramente disprezza la propaganda di queste ore. Poco prima dell’attentato, i portavoce degli studenti pashtun parlavano di regole più permissive per le donne (meno restrizioni sul vestiario, permesso di uscire non accompagnate da uomini, permesso di frequentare l’università) e trattavano con figure non estremiste come l’ex presidente Hamid Karzai e l’ex vicepresidente Abdullah Abdullah per includere altri elementi al potere.
Soprattutto, disprezza le promesse dei taliban di non allacciare rapporti con gruppi jihadisti. Gli studenti pashtun si sono impegnati in tal senso con tutte le potenze che contano, di sicuro con Stati Uniti, Cina e Russia. È la chiave della loro legittimazione, perché l’ultima volta che furono al potere vennero spazzati via dagli americani per aver concesso ad al-Qa’ida di preparare l’11 settembre fra le gole dell’Hindu Kush. È così che hanno convinto gli esausti statunitensi a staccare la spina. È così che corteggiano i cinesi, promettendo che l’instabilità non tracimerà nel Xinjiang. È così che provano a tranquillizzare i russi, spiegando di non aver intenzione di contagiare l’Asia Centrale.
Difficilmente gli Stati Uniti cadranno nella trappola. Possono vendicare i loro morti da remoto. La popolazione americana si è da tempo risolta sull’irrilevanza del teatro afghano. La memoria dell’11 settembre è sbiadita. I ventenni di oggi semplicemente non se lo ricordano. Solo un altro colpo al cuore dell’America potrebbe indurla a nuove avventure. E probabilmente nemmeno quello.
L’attentato al massimo ricorda quanto sia incontrollabile l’Afghanistan. A maggior ragione oggi che la popolazione è raddoppiata in soli vent’anni. È anche una finestra sul possibile futuro (in realtà un eterno ritorno) di questo territorio in cui il caos prima o poi presenta il conto. A chi s’illude di avere il potere. E alle potenze limitrofe. Mentre scrutano dai finestrini degli aerei che li conducono lontani (per sempre?) dall’Afghanistan, gli americani si consolano così dell’umiliazione subita.
Hanno collaborato Lorenzo Noto e Daniele Santoro.
Sembra un Paese segnato da una maledizione divina.