IL MANIFESTO DEL 21 AGOSTO 2021
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Chi comanda tra i talebani
Le schede. I principali leader odierni degli studenti coranici afghani, destinati ad avere un ruolo cruciale nel governo che sta per nascere
Giuliano Battiston, giornalista e ricercatore freelance, direttore dell’associazione di giornalisti indipendenti Lettera22, collabora con quotidiani e riviste tra cui “l’Espresso”, “il manifesto”, “Gli asini”, “il Venerdì”, “The New Humanitarian”, Radio3. Docente alla Scuola di giornalismo della Fondazione Lelio Basso di Roma e alla SIOI, per nove anni ha curato il Salone dell’editoria sociale.
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EDIZIONE DEL 21.08.2021
PUBBLICATO20.8.2021, 23:59
HAIBATULLAH AKHUNDZADA
Originario della provincia meridionale di Kandahar, uomo della vecchia guarda talebana, molto vicino allo storico leader mullah Omar, mullah Haibatullah Akhundzada è l’Amir al-Mumineen, il comandante dei fedeli, la massima autorità dei Talebani.
È stato eletto nel maggio 2016 dalla Rabhari Shura, l’organo di indirizzo politico e strategico del movimento. Durante l’Emirato islamico, quando in Afghanistan governavano i “turbanti neri”, è stato a capo delle Corti di giustizia militari. In seguito ha redatto alcune fatwe del movimento, per poi operare soprattutto come propagandista, reclutando giovani e facendo da mediatore. Sheikh ul-hadith, specialista nell’interpretazione dei detti del profeta Maometto, vanta forti credenziali religiose ed è riuscito a mediare tra i pragmatisti e gli oltranzisti, conducendo i Talebani dal rischio di implosione alla presa del potere a Kabul.
I GUANTANAMO FIVE
Tra i negoziatori di Doha – i Talebani che hanno strappato agli americani l’accordo che ha condotto al ritiro delle truppe straniere – c’erano anche i cosiddetti «Guantanamo Five». Sono i nomi meno conosciuti, ma le loro storie rimangono emblematiche. Si tratta di Mullah Khairullah Khairkhwa, Abdul Haq Waseq, mullah Fazel Mazlum, mullah Norullah Nuri e Mohammad Nabi Omari.
Mullah Fazel, già a capo dell’esercito dei Talebani, e mullah Nuri, già responsabile della zona nord del Paese, nel 2001 si erano arresi e consegnati, confidando un passaggio sicuro per il Pakistan. Ma hanno incontrato Abdul Rashid Dostum, il maresciallo sbaragliato pochi giorni fa dai Talebani, e sono finiti in carcere, a Guantanamo.
Insieme agli altri 3, hanno fatto il carcere duro fino al giugno 2014. Ne sono usciti in cambio del rilascio da parte dei Talebani del sergente americano Bowe Bergdahl. Poi si sono abituati alle lobby dell’hotel Sheraton di Doha, dove hanno incastrato l’inviato statunitense, Zalmay Khalilzad. L’afghano-americano Khalilzad ora è dileggiato da tutti gli afghani, che gli attribuiscono le responsabilità della caduta di Kabul. I «Guantanamo five» ambiscono a un ministero.
MULLAH ABDUL GHANI BARADAR
Oggi il volto forse più conosciuto tra i Talebani, mullah Abdul Ghani Baradar è il ministro degli Esteri del movimento, come capo dell’Ufficio politico dei Talebani a Doha ed è l’artefice principale dell’accordo bilaterale siglato con gli Stati uniti nel febbraio 2020, nella capitale del Qatar. Tornato a Kandahar pochi giorni fa, la sua vita incarna contraddizioni e paradossi della war on terror. Uomo molto vicino a mullah Omar, a lui è stato assegnato il compito di rilanciare i Talebani dopo il rovesciamento dell’Emirato islamico. Dotato di buone capacità diplomatiche, ha pagato i tentativi “prematuri” di mediazione con gli Stati Uniti con diversi anni di carcere, tra il 2010 e il 2018. Rilasciato per favorire il negoziato, a Doha lo si è visto scherzare calorosamente con Zalmay Khalilzad, l’inviato di Trump e poi di Biden. Domani potrebbe governare l’Afghanistan.
SIRAJUDDIN HAQQANI
Insieme a mullah Abdul Ghani Baradar e a mullah Yacoob, è uno dei tre vice del leader supremo Haibatullah Akhundzada. Ed è figlio di Jalaluddin Haqqani, il fondatore dell’omonimo network del terrore, già sodale di Osama bin Laden e tra i protagonisti prima della resistenza all’occupazione sovietica, poi di una rete criminale che opera nelle aree di confine tra il Pakistan e l’Afghanistan, come hub di gruppi jihadisti.
La rete Haqqani è poi entrata ufficialmente nei Talebani, pur mantenendo margini di autonomia operativa e finanziaria, mentre Sirajuddin ha scalato le vette della Rabhari Shura. Rappresenta l’ala oltranzista del movimento, quella dei duri e puri, nemici di ogni mediazione e negoziato, e nelle scorse settimane ha insistito affinché i Talebani conducessero l’offensiva militare sulle città, anziché aspettare il ritiro degli americani.
MULLAH YACOOB
A lungo a capo della Commissione militare, per molti militanti è soltanto un “figlio di papà”.
Il padre era infatti l’uomo che nel 1996, indossando un mantello che si dice fosse appartenuto al profeta Maometto, a Kandahar si fece nominare Amir al-Mumineen: mullah Omar.
Tra i tre vice dell’attuale numero uno, mullah Yacoob ha scarse credenziali militari, nonostante il ruolo che ricopre. È riuscito a ottenere riconoscimento e posti di prestigio sfruttando le divisioni interne alla Rabhari Shura dopo la morte del padre, a lungo tenuta nascosta. La morte di mullah Omar è stata ufficialmente riconosciuta soltanto nell’estate del 2015, quando trapelò la voce che alcuni Talebani lo avevano «tenuto in vita» fittiziamente per due anni, per non rischiare l’implosione.
Tra loro mullah Mansur, eletto guida suprema nel luglio di quell’anno, per poi finire polverizzato da un drone americano mentre viaggiava nel Beluchistan pachistano, dopo essere stato in Iran.
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