LIMES ONLINE DEL 20 AGOSTO 2021
analisi di Daniele Santoro, Federico Petroni
L’evacuazione di Kabul, la legittimazione dei taliban, i giochi delle potenze, le conseguenze per l’America: riassunto e colonna sonora di una settimana convulsa
L’Esodo – Franco Battiato
EVACUAZIONE IN CAMBIO DI LEGITTIMAZIONE
di Daniele Santoro
In Afghanistan non c’è (mai stato) nulla di scontato. Sull’Hindu Kush il tempo perde la linearità, diviene grandezza qualitativa più che quantitativa, variabile decisiva della competizione geopolitica – “voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo”, avvertivano tempo fa gli insorti.
All’origine della crisi innescata dalla presa di Kabul da parte dei taliban non sta l’avvenimento in sé – prevedibile e previsto da tutti i diretti interessati – quanto la sua rapidità.
Il precipitare degli eventi che ha scombussolato i piani degli attori coinvolti nel teatro afghano. Costretti a una lotta contro il tempo per evacuare il paese e riportare a casa truppe, diplomatici, personale civile e autoctoni “collaborazionisti”.
Primi tra tutti gli Stati Uniti, che come ha confessato il presidente Joe Biden potrebbero essere obbligati a rimandare il ritiro del contingente (6 mila soldati) oltre il 31 agosto per riuscire a mettere in salvo i 10-15 mila cittadini americani e i 50-65 mila afghani a vario titolo coinvolti nella missione statunitense. Il mantenimento di un drappello in queste convulse ore potrebbe servire anche da leva negoziale.
Nel frattempo i russi si propongono di dimostrare di poter riuscire dove americani ed europei stanno fallendo, mettendo a disposizione i loro aerei civili per trasferire in Occidente gli afghani che hanno collaborato con gli invasori. Così da manifestare la propria capacità di gestire il caos afghano meglio di chi lo ha creato.
La necessità di completare il ritiro in condizioni ostili – simbolizzate dalle scene di panico all’aeroporto di Kabul – ha indotto i paesi occidentali a legittimare informalmente i taliban. I quali stanno impedendo al personale straniero di raggiungere l’aeroporto della capitale. Provano al massimo a umiliare gli invasori ostacolando l’accesso allo scalo ai “collaborazionisti” anche se in possesso di documenti di viaggio validi. Non tanto per giocare sull’emotività delle ipocrite opinioni pubbliche occidentali – gli olandesi se la sono squagliata senza neppure avvertire i loro camerieri afghani. Quanto per far passare un messaggio: chi collabora con l’invasore d’Oltreoceano e i suoi clienti prima o poi ne paga il prezzo (in teatri come Siria e Iraq in molti prendono nota).
È solo questione di tempo.
CONTROLLARE L’AFGHANISTAN
di Federico Petroni e Daniele Santoro
La velocità con cui i taliban hanno rilevato il potere in Afghanistan non è solo frutto del vuoto lasciato dall’America. Né della decisione da un anno e mezzo a questa parte delle principali potenze di lasciare il potere agli studenti, in parte o in toto. Né dell’inconsistenza delle forze armate “regolari”. Né del non marginale consenso di cui gode il movimento estremista. Né dell’abilità nel trovare accordi con gli attori dei distretti e delle province.
C’è un motivo ulteriore: l’ingovernabilità del paese.
Che in fondo paese non è: anzi l’Afghanistan è una collezione di territori periferici di grandi imperi, storicamente ingestiti.
Per quanto possano aver cooptato altre etnie e imparato a trattare con i capi tribali settentrionali e occidentali, gli studenti pashtun restano espressione delle genti sudorientali dell’Hindu Kush.
I taliban hanno bisogno di legittimazione internazionale per sopravvivere. È ancora presto per definirli i nuovi padroni dell’Afghanistan. Malgrado il trionfale ingresso a Kabul, tengono solo in parte il coltello dalla parte del manico.
Nel Nord, i tagiki del Panjshir riprendono le attività militari e sembrano organizzare una resistenza, rendendo una guerra civile ipotesi tutt’altro che di scuola.
L’economia locale dipende quasi totalmente dagli aiuti esterni – gli americani hanno già congelato parte delle riserve in dollari della Banca centrale afghana. Il traffico di stupefacenti può compensare solo in minima parte le eventuali sanzioni economiche di Washington.
Da qui il volto moderato esibito dai taliban in queste ore. In particolare le aperture sulle donne,
alle quali verrà permesso di non indossare il burqa, di uscire non accompagnate dagli uomini, di completare l’istruzione universitaria.
Mosse del tutto temporanee, mentre lontano dai riflettori si consumano le prime vendette. Ma che mirano a ridurre il costo politico interno per i governi occidentali della legittimazione informale della nuova amministrazione afghana.
La difficoltà di controllare l’Afghanistan ha sempre impedito l’emergere di comunità capaci di guardare oltre il proprio ombelico, determinate a espandersi oltreconfine. Questo fattore, abbinato all’intenzione di non provocare le potenze evidente in queste ore, indurrà i taliban a non allacciare rapporti con gruppi jihadisti internazionali. Questi ultimi approfitteranno semmai dei vuoti di potere negli angoli più remoti del paese, come i dintorni di Jalalabad.
La popolazione è talmente eterogenea e giovane, dunque portata all’inquietudine, ed è talmente slegato il territorio “nazionale” da rendere piuttosto agevole per una o più potenze straniere organizzare campagne di destabilizzazione. L’obiettivo non è togliere Kabul ai taliban, ma impedire a una potenza avversa di estendere la propria influenza sull’intero Afghanistan.
PICCOLI GRANDI GIOCHI ASIATICI
di Federico Petroni e Daniele Santoro
Rispetto allo scorso ventennio, gli avvenimenti afghani vedranno ora più protagoniste le potenze limitrofe: Cina, Pakistan, Iran, Russia, Turchia.
Il loro obiettivo primario è evitare che l’instabilità afghana dilaghi oltreconfine. Oggi lo si raggiunge accorrendo a legittimare i taliban. Qualora le cose peggiorassero, un domani potrebbe essere necessario coltivare i propri agenti di prossimità.
Il reale vincitore di questa mano del poker afghano è la coppia Cina-Pakistan. Con i taliban al potere che essa stessa ha creato, Islamabad ottiene quella profondità territoriale da sempre faro della sua strategia geopolitica. La userà per avvicinarsi a Pechino: un cliente relativamente fedele a Kabul consente a Islamabad di provare a rendere meno pericolose le regioni settentrionali che affacciano sulla Cina.
Quest’ultima sta impiegando quei territori per costruire una stampella delle nuove vie della seta. E sarà uno dei principali sponsor del regime dei taliban anche per evitare che l’instabilità afghana si propaghi nel suo Xinjiang dove sta assimilando con la violenza la minoranza uigura.
Benché timido, l’inserimento cinese fa parte della più ampia penetrazione da parte di Pechino dell’Asia centrale un tempo zarista e sovietica.
Siamo in un’epoca in cui alle frontiere della Russia succede di tutto: l’Ucraina scippata, la Bielorussia contesa, la guerra armeno-azera con l’ingresso dei turchi nel Caucaso, regimi centroasiatici traballanti.
Mosca non può dunque mollare gli occhi dall’Afghanistan. Per questo non intende evacuare l’ambasciata a Kabul, ha ricevuto ampie garanzie dai taliban, mettendo a frutto i contatti con essi intessuti nell’ultimo decennio. Li tiene però sulla corda, lasciandogli intendere di essere disposta a riconoscere formalmente il loro regime senza esporsi direttamente nell’immediato. Prende tempo, in attesa che le difficoltà interne che inevitabilmente incontrerà la nuova amministrazione consentano al Cremlino di dettare unilateralmente le condizioni dell’intesa. Intanto i russi hanno rafforzato la loro presenza nelle repubbliche ex sovietiche confinanti con l’Afghanistan. E hanno preso il controllo dei valichi di frontiera tagiki. Potrebbero appoggiare discretamente un’insurrezione settentrionale.
Propositi analoghi caratterizzano la Turchia, che manterrà inalterata la propria presenza militare a Kabul. Erdoğan ha confermato che Ankara intende continuare a prendersi cura dell’aeroporto, previo accordo con il nuovo regime. In tempi non sospetti, il presidente turco aveva annunciato che avrebbe ricevuto il “capo” dei taliban. Questi ultimi hanno immediatamente ricambiato, definendo il paese anatolico amico, fratello e addirittura alleato.
I turchi vedono schiudersi succose prospettive geopolitiche, tanto che gli ultranazionalisti atei e feticisti di Atatürk arrivano a paragonare gli studenti coranici ai kemalisti che liberarono la patria dall’invasore.
La Turchia può diventare la finestra della Nato sull’Afghanistan e dell’Afghanistan sul mondo. Dispone delle risorse culturali – e tramite il Qatar economiche – per influenzare e moderare il regime. L’iniziativa non è estemporanea, anzi è la conseguenza naturale di un approccio propriamente strategico alla missione a guida americana. I turchi hanno sempre saputo perché stavano in Afghanistan. A differenza degli europei, che non hanno mai capito che farsene.
Drammaticamente in disparte per ora è l’Iran. I suoi scià consideravano Herat organicamente persiana, solo vent’anni fa Teheran fu decisiva nell’agevolare l’invasione americana, oggi la sua influenza è ridotta quasi a zero. È un segnale della profonda e complessiva debolezza della Repubblica Islamica. Invertire la rotta è necessario, ma richiederà tempo e risorse, distraendola da altri teatri.
LE CONSEGUENZE PER L’AMERICA
di Federico Petroni
L’umiliante fuoriuscita americana ha profondamente impressionato le opinioni pubbliche occidentali. Gli Stati Uniti hanno abbandonato perché l’Afghanistan non è una guerra strategica. La posta in gioco non è esistenziale. Anzi ha contribuito a mandare in esaurimento la popolazione, crisi di nervi visibile nell’assalto al Congresso. Esausta di un contesto inutile e sanguinoso, Washington ha staccato la spina in modo sciatto e imbarazzante. Con l’aggiunta del retropensiero di scaricare l’instabilità sulle potenze limitrofe.
Il conflitto non era strategico, strategiche non saranno le sue conseguenze. La priorità dell’America è impedire che in Eurasia emergano minacce per il Nordamerica. L’Inghilterra nell’Ottocento rappresentava quella minaccia. Lo era la Germania nella prima metà del Novecento e nella seconda lo è stata l’Urss. Oggi l’unica che può diventarlo è la Cina ma non si vede come Pechino possa rompere l’assedio nei mari dell’est col ritiro degli americani da un teatro senza sbocchi sul mare a ovest.
Il collasso dell’Afghanistan sta però inducendo alcune complicazioni tattiche. Tutte relative ai satelliti dell’America. Per contenere Pechino, Washington ha bisogno di alleati. Questa è una necessità strategica: la mancanza di amici è per i cinesi un ostacolo dirimente e la possibilità di occupare territori altrui in Eurasia è per gli americani un vantaggio formidabile.
Ma la necessità strategica non è assoluta. Gli Stati Uniti pensano di gestire l’arginamento navale del rivale con il solo apporto di giapponesi, taiwanesi e australiani, più l’ostilità di vietnamiti, filippini e indonesiani e il supporto logistico di Singapore. Nessuno di questi combatteva in Afghanistan. A parte gli aussies, i quali tuttavia hanno stabilito che la Cina è minaccia esiziale, come dimostrato resistendo alla guerra commerciale lanciata contro di loro da Pechino. L’idea che Tokyo o Taipei sviluppino relazioni amichevoli con Pechino a causa del modo in cui Washington ha mollato Kabul è ridicola. Non è il rapporto tra i satelliti e il rivale che si agevola, è quello tra i primi e l’egemone che diventa più farraginoso.
L’umiliazione afghana è più cocente per gli europei, che sono andati nell’Hindu Kush unicamente per esibirsi rilevanti presso al padrone. Per questo Biden ha risposto con arroganza ai loro piagnistei, spiegando a Londra e alle cancellerie continentali che sarebbero potute restare in Afghanistan se proprio lo ritenevano fondamentale. La fuga dall’Afghanistan conferma gli europei nella convinzione di un’America più imprevedibile, più stanca di tutti i doveri imperiali svolti sinora, meno affidabile. Li lascia inoltre a gestire un’ondata di profughi di prevedibili proporzioni colossali, riaprendo faglie interne (fra Est e Ovest dell’Ue) ed esterne (con la Turchia abituata a usare i migranti come armi).
Tuttavia, non per questo si stringeranno a Mosca o dismetteranno la Nato, perché ancora una metà del continente è ferocemente antirussa ed è fisicamente presidiata dagli americani. Il massimo che possono fare, ed è comunque un fastidio per gli Stati Uniti, è essere ancor più riluttanti ad accogliere la richiesta di Washington di recidere alcuni legami commerciali e tecnologici con la Cina. A essi l’America pensa di affidare solamente un parziale contenimento economico. Ritiene il loro apporto militare nell’Indo-Pacifico praticamente irrilevante. A luglio addirittura ha detto ai britannici che sarebbe meglio se concentrassero le loro scarse risorse navali altrove. Evidentemente, non ritiene così urgente una chiamata collettiva alle armi contro Pechino, né imminente un suo assalto a Taiwan. Pensiamoci due volte prima di organizzare missioni navali puramente dimostrative nell’Indo-Pacifico.
L’intoppo meno trascurabile è con l’India, la vera sconfitta in Afghanistan. Ritirandosi, gli Stati Uniti hanno dischiuso Kabul ai due rivali di Delhi, Islamabad e Pechino. L’India era già restia a farsi coinvolgere in strutture formali da Washington, ma stava dismettendo la tradizionale inerzia sulla spinta della minaccia cinese sull’Himalaya. Ora constata che partecipare alle iniziative anticinesi americane non la mette al riparo da un netto indebolimento tattico. Raddoppierà gli sforzi contro la coppia nemica. Ma sarà meno propensa ad aprire le porte agli statunitensi.