REPUBBLICA.IT / CULTURA / 21 DICEMBRE 2014
FOTO DA MINIMA & MORALIA
Marina Jarre, nata Marina Gersoni (Riga, 21 agosto 1925 – Torino, 3 luglio 2016), è stata una scrittrice, drammaturga e insegnante italiana.
Marina nacque in Lettonia, da padre ebreo lettone, Samuel Gersoni, e madre valdese italiana, Clara Coïsson (traduttrice per Frassinelli ed Einaudi di molti classici tedeschi e soprattutto russi, da Cechov a Tolstoi, da Dostoevskij a Pasternak, da Turgenev a Bulgakov), trascorse l’infanzia nella capitale del Paese fino al 1935, quando, dopo la separazione dei genitori, si trasferì con la sorella Annalisa a Torre Pellice, paese piemontese dove viveva la nonna materna: essendo di lingua madre tedesca, da quel momento apprenderà la lingua italiana.
Nel 1941 il padre venne ucciso dai nazisti insieme agli altri ebrei che appartenevano al ghetto della città di Riga.
A diciotto anni approdò a Torino per frequentarne l’Università e, dopo la laurea in lettere con tesi in letteratura cristiana antica ottenuta nel 1948, per oltre venticinque anni si dedicò all’insegnamento del francese nelle scuole pubbliche del capoluogo. Nel 1949 sposò l’ingegnere Giovanni Jarre, dal quale ebbe quattro figli.
Nel 2004 vinse il Premio Grinzane Cavour con il romanzo Ritorno in Lettonia, edito da Einaudi.
Morì a Torino il 3 luglio 2016
OPERE NEL LINK
https://it.wikipedia.org/wiki/Marina_Jarre
DISEGNO DI RICCARDO MANNELLI
Marina Jarre: “I miei conti aperti con l’infanzia e con il fantasma di un padre ebreo”
Antonio Gnoli
La scrittrice si racconta: l’adolescenza a Torre Pellice nella comunità valdese, Torino e i suoi intellettuali, sullo sfondo la sua Lettonia e gli orrori del nazismo.
HO CONOSCIUTO Marina Jarre agli inizi degli anni Novanta. Fu durante una cena in un ristorante torinese. Al tavolo c’erano tra gli altri Giulio Bollati, il suo editore, Agnese Incisa, compagna di Giulio, e questa donna alta e magra con un volto che sapeva più di pietra che di nuvola. Ricordo le scarne parole e i suoi silenzi, per nulla imbarazzati. Aveva da poco pubblicato Ascanio e Margherita, un romanzo che rievocava una terribile storia di massacri della gente valdese. Mi colpì quella scrittura che assomigliava ai tatuaggi della pelle. Qualcosa di indelebile che aveva a che vedere con il corpo e la vita. Come mi confermarono le successive prove narrative. Non ho più rivisto fino ad oggi la Jarre. Vado a trovarla nella sua casa torinese, non lontana dal Po e a ridosso delle colline. È sempre lei, con lo stesso volto di pietra leggera. Mentre parla – con la voce che vibra di ricordi e lo sguardo perso in un punto indefinito della stanza – Marina sporge il busto oltre i braccioli della carrozzella. È lì seduta da quando è tornata dall’ospedale dove le hanno ricomposto la frattura di un femore. Sono le cadute della vecchiaia, dice. Camminavo spesso. Spero di tornare a farlo. Muove leggermente le mani che indossano due mezzi guantini di lana grigia da cui spuntano dita affusolate. Fa uno strano effetto questa donna di 89 anni. Ha la resistenza di un chiodo piantato nel muro.
Lì, c’è appesa la sua vita: lunga e a volte drammatica. Ha concluso da poco una storia dei valdesi. Una trilogia (il cui ultimo volume Cattolici sì, ma nuovi è pubblicato da Claudiana) nella quale affiorano le vicende di una comunità religiosa perseguitata. “Dopo la revoca dell’editto di Nantes i valdesi furono scacciati e dispersi. Dalla Val Pragelato si propagarono nei paesi protestanti. Per coloro che resistettero la vita fu durissima. Alla fine del diciottesimo secolo il Piemonte era governato da Vittorio Amedeo II di Savoia. Un sovrano senza cuore, ma abbastanza abile da comprendere che quella comunità, che ebbe come centro Torre Pellice, gli sarebbe stata utile per emanciparsi dalla Francia”.
Marina Jarre finì a Torre Pellice all’età di 11 anni. Cosa ricorda di allora?
“Andammo a vivere lì con la mamma e mia sorella, a casa della nonna. Venivamo dalla Lettonia. Mia madre era di educazione calvinista. Lei era lettrice di italiano all’università di Riga, dove sono nata”.
Perché lasciaste la Lettonia?
“Per ragioni familiari. Il clima, a causa dei ripetuti litigi tra i miei, si era fatto invivibile. Durante l’ultimo scontro, il più furioso, la mamma tirò in faccia a papà l’anello con il brillante. Fu un gesto di rabbia per delle accuse infondate. L’anello non lo rivide mai più”.
Cosa faceva suo padre?
“Viveva di espedienti. A volte era pieno di soldi e ci faceva regali pazzeschi. Più spesso era lui a chiederne. Il mio nome da ragazza è Gersoni. Si pronuncia con la g dura. È un antico nome ebraico. In origine indicava una tribù levitica. Gershom deriva da Gersoni e poi ci sono i Gersony. Cacciati dalla Spagna si stabilirono nel Nord Africa, in alcune zone dell’Europa, tra cui Riga”.
Che ricordo ha di quella città?
“Una città anseatica, tedesca, molto fiorente con un milione di abitanti. Un porto ricco che ghiacciava di inverno. Michail Ejzenstejn, il padre del regista, vi si stabilì. Fu un architetto famoso e rivaleggiò, nel più perfetto Jugendstil, con Vienna. Una nostra cugina sposò non so quale degli Ejzenstejn. La famiglia ne trasse qualche lustro. Lì, a Riga, tra le facciate ornamentali dei palazzi, si svolse la mia infanzia”.
Come fu?
“Oggi mi sembra sia appartenuta a qualcun’altra. Ricordo gli inverni lunghi e bui. Le luci di Natale che squarciavano la notte. L’odore della neve. E il fiume non lontano dallo sguardo che si lanciava dalla finestra di casa. Quando in primavera si rompeva il ghiaccio, il rumore del Daugava schioccava e rombava come il pugno di un gigante. Guardavo il mondo degli adulti senza comprenderlo. Chi erano? Cosa pensavano veramente? Quando scoppiarono i drammi familiari si insinuò il disagio. Improvvisamente mi preoccupai all’idea di dover diventare adulta”.
Rivide mai suo padre dopo che andaste via?
“Venne un paio di volte a Torre Pellice. Poi più nulla. Si era rifatto, come si dice, una vita con una donna tedesca da cui ebbe una bambina. Più nulla non è esatto. Ci furono le lettere. E quell’ultima: drammatica in cui implorava di essere aiutato. Diceva di star male. Diceva portatemi via da Riga. Diceva che i nazisti stavano dando la caccia, a lui, come ad altri trentamila come lui”.
Che anno era?
“Il 1941, Riga era diventata un inferno. Allora non potevo immaginare. Seppi tutto dopo. Quando il silenzio fu squarciato dai processi di Norimberga”.
Cosa accadde?
“Prima dei campi di sterminio, ci fu quella prova generale nei paesi baltici: la distruzione di massa degli ebrei. Solo a Riga morirono in più di 27 mila. Comprende la proporzione? La terrificante vastità dei numeri? Il bosco di Rumbula – la foresta della morte – fu l’epicentro dell’eccidio. Insieme alla foresta di Bikernieki. Si udivano gli spari, dalla città. Il 4 luglio era andata a fuoco la grande Sinagoga. L’ordinanza stilata dal comando della Wehrmacht obbligava a cucirsi una stella gialla. Gli informatori lettoni indicavano le case dei più ricchi. Cominciò il saccheggio sistematico e poi arrivò la morte. Altrettanto sistematica”.
E suo padre?
“Lo braccarono. L’amante tedesca se ne era andata. Restò solo con la piccola Irene, la figlia. Morirono nel dicembre del 1941. Non so in quale fossa finirono. Erano buche profonde e grandi. I cadaveri venivano posti a strati. Occorreva spazio. Efficienza. Rapidità. Si installarono anche della grandi cataste, alte più di tre metri, di legno di pino. Bruciavano ininterrottamente, prima di consumarsi, per tre giorni e tre notti con sopra i corpi. Di questo orrore possono raccontare solo i testimoni. I pochi che tornarono”.
Tutto questo lei lo seppe tardi?
“Sì, come le ho detto”.
Intanto come proseguiva la sua vita a Torre Pellice?
“Imparai l’italiano che non conoscevo. La mia lingua era il tedesco. Poi appresi il francese che ho insegnato per circa 30 anni, in una scuola media. Mi ero già laureata con una tesi di storia del cristianesimo. Potevo anche scegliere l’università. Ma adoravo i ragazzi, la loro torva innocenza”.
Fu qui che avvenne l’incontro con uno di loro: Massimo Salvadori, che sarebbe diventato un grande storico.
“Massimo era un bambino infelice. Bravissimo e ribelle. Aveva, tra le tante sofferenze, il talento per emergere”.
Ha frequentato il mondo culturale torinese?
“Pochissimo. Ho vissuto molto appartata. Quasi per una forma di autodifesa. Vedevo spesso Giulio Bollati che amava i miei libri. È stato un uomo meraviglioso. Tanto avvolgente lui, quanto respingente l’altro Giulio, cioè Einaudi. Era un freddo. Riusciva a mettermi in imbarazzo e credo che sotto sotto ne godesse”.
Ha conosciuto anche Primo Levi?
“Molto bene, non attraverso la casa editrice Einaudi, ma alla scuola ebraica. Lo ricordo cordiale, affettuoso, aristocratico. Prima del suicidio cadde in un’orribile depressione. Mi chiedo cosa accade nella mente di un uomo che ha sopportato l’insopportabile. Non c’è una risposta. Lui ai fantasmi del sopravvissuto dei campi aggiunse una vita familiare pesante”.
E Bobbio, simbolo dell’intellettualità torinese?
“L’ho conosciuto poco. Lo ricordo negli anni del dopoguerra. Inappuntabile nel vestire come nell’eloquio perfetto. Porgeva le sue parole con garbo e soddisfazione di se stesso. Soprattutto le signore adoravano questo giovane che parlava benissimo. Un po’ diverso dal vecchio Bobbio che con amarezza pontificava su tutto”
.È come se lei non abbia mai accettato lo spirito di Torino.
“Era un luogo che non mi piaceva per nulla. Poi è diventata la città dei miei figli e ho cominciato ad apprezzarla. Con mio marito, ingegnere al Politecnico, siamo vissuti modestamente. Lui lavorando io insegnando e scrivendo”.
Cosa ama dello scrivere?
“Lo preferisco al parlare. Scrivendo restituisco i miei vari strati. I dolori, come le gioie. Le frastornate vicende accadute. È l’accumulo delle cose che mi interessa. La polvere che si toglie dalla vita. Scrivere è una forma di chiarezza. Di onestà con se stessi”.
Come giudica la sua vita?
“Non la giudico. Non ho mai fatto bilanci. Penso raramente al passato, se non per quello che riguarda gli altri. Sono gli altri a farci sentire migliori o peggiori di quel che siamo”.
E questo paese le piace?
“Ci sono cose bellissime. Affogate dal fango della storia recente. Incorreggibili gli italiani. Provinciali e antisolidali. Nello stesso tempo stranamente resistenti “.
Resistenti a cosa?
“Alle loro sventure. Capaci di gioire anche nei momenti più difficili. Faziosi in modo spaventoso, smemorati e chiusi in se stessi. Eppure artisti nell’animo e nelle mani. Hanno le mani più abili del mondo. Ma ingovernabili. Materialisti in modo geniale e letale. Questo paese non sa invecchiare e per questo non trova le forze per ringiovanire”.
Cos’è per lei la vecchiaia?
“Non mi viene una definizione. Dipende molto da come si è fatti. C’è gente vecchia a quarant’anni. Ma non c’è gente giovane a novant’anni. Non mi illudo. So che dopo viene la morte. E lì non ci sono più punti di vista”.
Le fa paura?
“Non la morte, il morire sì”.
Si comincia a morire quando si nasce?
“Sono storie, modi di dire. Assista un malato terminale e capirà cosa vuol dire morire”.
È mai più tornata in Lettonia?
“Ci sono tornata quasi settant’anni dopo. Con mio figlio Pietro. Non è stato facile. Immagini cosa sia stata per me quella figura paterna. C’era qualcosa di impalpabile. Un ectoplasma che avevo estromesso dai miei pensieri. Un fantasma che avevo contribuito a creare, cancellando ogni traccia: buttando le lettere e le foto. Non ricordavo più nulla di lui. Mentre avevo perfettamente chiare e inconfondibili le voci dei cugini, degli zii, dei nonni. La sua no. Avevo dimenticato la sua voce. Poi improvvisamente è venuta quell’ansia dell’ultima lettera. Fui presa dallo sgomento. Dal bisogno di sapere”.
Cosa esattamente?
“Non solo come erano andate le cose. Ma come avrei dovuto viverle io. Mi tornava alla mente una frase nascosta in quella lunga lettera implorante. Affiorò come un lampo: “Ricordatevi che anche voi siete ebree”, si riferiva a me e a mia sorella. Cominciai a non
dormirci sopra e a pensare al senso che quell’uomo disperato aveva voluto imprimerle”.
Di quell’uomo dica qualcosa di più. Sembra solo avvolto nel suo dolore e nella sua dimenticanza.
“Si chiamava Samuel Gersoni. Diceva di aver combattuto nell’Armata rossa, nel 1918 e 19. Tornato in Lettonia divenne rappresentante della Michelin. Prendeva il lavoro come una vacanza. C’era, non c’era. Fu il suo stile. Amava correre dietro alle gonne femminili. Quando ricevette in eredità dai vecchi nonni una fabbrica di cuoio si sbrigò a liquidare il tutto a un cugino. Il ricavato servì per pagare i debiti e vivere qualche anno nella spensieratezza. Ecco chi era Samuel Gersoni, un ebreo terribile e affascinante, un uomo cui la storia voltò per sempre le spalle. Nondimeno era mio padre. Una presenza che per quanto allontanata e rimossa si abbatté come un macigno”.
Cosa ha provato nel suo ritorno in Lettonia?
“Ho scritto un libro su questo. Ritrovare se stessi nella propria infanzia non è facile. Ma erano dei conti aperti che andavano saldati. Cercare i luoghi della morte, ma anche quelli della vita. Come avrei reagito? Ciò che ti è stato raccontato non è lo stesso di ciò che hai vissuto. Era in questo scarto che mi dovevo infilare. L’ho fatto. Con tremore e apprensione. Con le lacrime e la speranza che tutto si ricomponesse. Tutto si pacificasse. Sulla soglia dei miei novant’anni penso fosse un gesto dovuto. Il resto spetterà a coloro che verranno dopo”.
Bellissima e profonda l’immagine di questa scrittrice, che non conoscevo. grazie.