REPUBBLICA.IT / VENERDI’ / 18 GIUGNO 2021
Giorgetti chi?
di Nicola Mirenzi
Giancarlo Giorgetti, ministro dello Sviluppo economico (Augusto Casasoli/ A3/ Contrasto)
Dal fronte della Gioventù al Carroccio. Da perfetto sconosciuto ad architrave di destra del governo. Ritratto del talebano moderato che “ha bisogno di un capo”. Ora ne ha due
QUANDO gli chiesero di candidarsi in Parlamento, Giancarlo Giorgetti tentennava. Diceva di non essere l’uomo giusto, di non essere pronto.Era sindaco di Cazzago Brabbia, un borghicino sul lago di Varese, eletto in una lista civica di area leghista.
Umberto Bossi aveva deciso di dare una sveglia al partito. Voleva gente nuova, fresca. E Giancarlo Leoni, che aveva fondato la Lega insieme a lui, gli fece il nome di Giorgetti. Bossi diede una boccata di sigaro e rispose: “Chi?”. Leoni lo aveva conosciuto al termine di un comizio. Gli finì seduto accanto in una tavolata e, nel corso della serata, apprese che veniva da una famiglia di pescatori da “cinque o sei secoli”, che era laureato alla Bocconi, che faceva il commercialista. “Mi sembrò in gamba, un bravo fiö“. Bossi si fidò e lo mise in lista. “Ma” mi racconta Leoni “Giorgetti continuava a far storie. Non si lasciava convincere. Allora tagliai corto: ‘Senti’ gli dissi ‘questa non è una proposta: è un ordine del Capo. Non si discute, si obbedisce’. E misi giù”. Oggi, Giancarlo Giorgetti è l’architrave di destra del governo. L’uomo che ha convertito (per ora) la Lega all’Europa. Il motore del discorso sulla ricollocazione al centro di Salvini, di cui è figlia l’idea della Federazione con Forza Italia. Da vice segretario del partito, ha parlato di governo Draghi più di un anno prima che si facesse, quando la parola d’ordine della Lega era: “Elezioni subito”. Ha convinto Salvini che nessuno “governa sulle macerie”. Ha evocato – lui, cattolico praticante e conservatore – “la provvidenza”. E la fede è stata ripagata.
Giorgettix, il villaggio del ministro pescatore
https://www.repubblica.it/venerdi/2021/02/26/news/giorgetti_e_il_suo_paese_in_provincia_di_varese-289337002/
dalla nostra inviata Brunella Giovara
Andare in giro a testa alta
Mai aveva accettato di fare il ministro. Nel governo Lega-5 Stelle, che contribuì a far nascere, lo davano all’economia. Acconsentì solo al sottosegretariato alla presidenza del Consiglio. Fosse stato ministro, disse quando cadde il Conte 1, “avrei avuto vergogna ad andare in giro a testa alta”. Ora, con Draghi a capo, ha detto sì al ministero dello Sviluppo economico. In virtù di un rapporto nato quando Giorgetti era presidente della commissione bilancio della Camera e Draghi agli ultimi giorni da direttore generale del Tesoro. Un rapporto duraturo, vero. Al punto che, quando Bossi voleva conoscere che si diceva in Banca d’Italia (nel frattempo passata in mano a Draghi), chiedeva a chiunque gli fosse intorno in quell’istante: “Chiamami Giorgetti, che è l’unico che gli dà del tu, a quello lì”.
Come Draghi, Giorgetti non ha Facebook, non ha Twitter, non è su Instagram.
Comunica in modo tradizionale, cioè parlando ai giornali, oppure in maniera più inequivocabile: stando zitto. Quando parla, solitamente, è per dire qualcosa di diverso da Salvini (o da come lo dice Salvini). L’unico a cui è concesso questo statuto speciale. Quando tiene la bocca chiusa a lungo, invece, significa che nemmeno lui può contraddire la linea del segretario. Non bisogna dimenticare che, ancora oggi, la Lega è un partito imperniato intorno a un ferreo leaderismo democratico. Si sta dentro seguendo chi la guida. Anche ciecamente, se necessario. Un senso di disciplina che Giorgetti, una volta, testimoniò proclamandosi “moderato”, ma invitando a non fraintenderlo. “Nella Lega sono un talebano”.
Giorgetti con Mario Draghi in Senato nel 2021 (Yara Nardi/ Pool/ Afp via Getty Images)
Tra Latouche e Tarchi
Giorgetti ama il calcio. Tifa Southampton e, più blandamente, Juve. Ci giocava anche, a calcio. All’età di trentacinque anni – era estate – , andò in ritiro con il Varese Calcio, squadra al tempo in serie C. “Il presidente della società” raccontò alla Padania “mi disse che avevano bisogno di un portiere”. Ha continuato a giocare in porta finché non si è fratturato l’acetabolo, un delicato osso del bacino, durante una partita alla Cecchignola, a Roma, con la nazionale dei parlamentari.
“Appartato, impassibile: il portiere è l’aquila solitaria, l’uomo del mistero, il difensore estremo” scrisse Vladimir Nabokov, affascinato dalla figura esistenziale di chi gioca a calcio tra i pali, immediatamente distinto dagli altri calciatori della squadra già dal fatto che la sua uniforme è diversa da quella dei compagni. E, infatti, Giorgetti è uno che gioca nella formazione della Lega salviniana senza mettersi felpe, né sventolare rosari, né andare d’estate a ballare al Papeete. Ha un altro modo d’essere. Un’altra storia.
Giancarlo Giorgetti, nel 2002 durante una manifestazione della Lega Nord a Venezia (Armando Dadi/ Agf)
Le notti nei boschi
Alla fine degli anni Ottanta, Giorgetti fondò insieme a Giovanni Blini e Massimo Crespi la Comunità giovanile di Busto Arsizio. Riuniva ragazzi di destra, di sinistra, cattolici, impolitici, inclassificabili. Gente non travolta dallo spumeggiare edonistico dell’epoca, disgustata dal ripiegare delle utopie nell’eroina. Leggevano Augusto del Noce e Serge Latouche.
I libri dei pensatori della nuova destra – Alain de Benoist e Marco Tarchi – e i saggi anti individualisti di Pietro Barcellona, intellettuale del giro di Pietro Ingrao. Ambivano alla vita comunitaria. Passavano la notte nei boschi. Organizzavano viaggi alla scoperta dell’Irlanda e spedizioni di volontariato a Timisoara. Tutto pur di non mettere piede in discoteca, il luogo che più odiavano. Crearono un grande raduno “anticonformista” in cui si confrontavano Aldo Brandirali, ex leader di Servire il popolo, e Gianni Alemanno, della destra giovanile missina. Accostarono, già prima della Lega, persone che le categorie della destra e della sinistra avevano tenuto separate. Poi, di ritorno da una iniziativa in Sicilia, all’altezza di Lauria, Giovanni Blini morì in un incidente stradale. Aveva 24 anni. Era amico intimo di Giorgetti.
Da allora, la direzione della sua vita andò più decisamente incontro alla politica: dalle iniziative del Fronte della Gioventù, al comune di Cazzago, al parlamento. Però è quando diventa presidente della Commissione bilancio, nel 2001, il momento chiave della sua carriera. Lì stabilisce le relazioni con il potere politico, economico, corporativo e sindacale italiano, che ancora oggi fanno di Giorgetti, Giorgetti.
Quel romano di Malagò
Ha, col potere, un rapporto ambiguo. Più che il fascino, ne avverte l’ombra, l’oscurità. Difficile trovare gente che abbia una cattiva opinione di lui. Bisogna spingersi dalle parti del Coni, dove approvò una riforma (quando ebbe la delega allo sport nel governo gialloverde) non accolta dagli applausi. Ingaggiò una battaglia con Giovanni Malagò, forse motivata anche da ragioni antropologiche (così lombardo uno, così romano l’altro), ma sicuramente ancora non sopita, se Malagò è stato rieletto alla presidenza del Coni con una maggioranza di quasi l’ottanta per cento e, quel giorno, dall’urna uscì una scheda di rivincita e di sfottò con su scritto: “Giorgetti”. Una croce sopra l’ha messa, a certe idee di un tempo.
Dalla secessione della Padania è arrivato, dopo un accreditamento presso l’istituto Aspen, allora diretto da Giulio Tremonti, a essere nominato dal capo dello Stato, Giorgio Napolitano, nel comitato dei dieci saggi per le riforme istituzionali.
Più di vent’anni fa diceva che l’Italia ha “scelto l’euro per evitare la secessione”. Oggi è l’uomo che – dopo aver spinto Salvini nel governo che più Europa non si può – sta tentando di rendere la Lega compatibile con le istituzioni comunitarie, rompendo con la storia più recente del partito, ma riprendendo lo spirito di un vecchio slogan delle origini, di quella Lega che si sentiva più Europa che Italia, lo slogan che diceva: “Lontano da Roma. Vicino a Bruxelles”.
Meno Le Pen, più Berlusca
Molto è tradizione in Giorgetti: anche l’attualità. Con la forza del passato, si è gettato in questa battaglia di conversione europeista, la più aperta di una carriera finora così devota al servizio più che all’intraprendenza, in cui c’è dentro anche una questione privata.
Giorgetti è cresciuto in una provincia, quella di Varese, in cui l’indebolimento dell’industria ha scalfito un benessere sicuro durato decenni. È uno che sa che, senza gli scambi con gli altri Paesi europei, in particolare la Germania, andrebbe tutto a rotoli.
E ogni volta che l’ala più radicale dei leghisti (Borghi e compagni) alza il tiro contro “la gabbia europea” che ci strangolerebbe lui imbraccia contro di loro il principio di realtà: “Non te lo faranno mai fare”. Gli rimproverano di avere la mente minoritaria, di quella Lega che stava sotto il dieci per cento, incapace di pensare come pensa un grande partito, che può fare la rivoluzione. Velleità, per Giorgetti.
Giorgetti con Umberto Bossi nell’aula del Senato nel 2018 (Silvia Lore/ Nurphoto via Getty Images)
Ha iniziato la battaglia polemizzando con l'”eurolirismo” degli acritici sostenitori dell’Ue, per poi approdare alla conclusione che la pandemia ha cambiato l’Unione Europea e che Lega dovrebbe smetterla di sognare la spallata insieme a Marine Le Pen e mettersi, piuttosto, a dialogare con il Partito popolare, il vero architrave del potere europeo, l’unico modo, secondo Giorgetti, per contare qualcosa. Salvini l’ha ascoltato. Poi ha fatto di testa sua. Se n’è andato a Budapest a incontrare Orbán e ha lanciato l’idea di unire in un solo gruppo europeo gli ultradestri del Front National, i conservatori della Meloni, gli orbaniani espulsi dal gruppo dei popolari e i popolari che lo hanno espulso. Salvo poi proporre in Italia la Federazione del centrodestra con Berlusconi. Cioè il disegno di Giorgetti, ma ridotto al cortile di casa. Sono due linee diverse, due Leghe diverse, ma non sono due capi diversi, perché uno è leader, l’altro no. Un dirigente della vecchia Lega, che preferisce restare anonimo, mi ha detto che Giorgetti ha un limite: “Non ha le palle per prendersi il partito”. La seconda volta che Bossi si ammalò, era l’unico dei dirigenti ammesso nel cerchio della famiglia. Per circa otto anni, dal 2004 al 2012, è stato il reggente della Lega. Chiunque volesse sapere il da farsi doveva cercarlo. Dettava la linea. Era considerato il successore naturale. Il delfino del senatùr. Quando arrivò il momento, però, si sfilò. A Bossi lasciò succedere Maroni, il segretario con cui ha avuto i peggiori rapporti di sempre. Salvini lo riportò al suo fianco, dandogli il ruolo di testimoniare la continuità tra la sua Lega e quella di prima. Pian piano, però, dei vecchi leghisti non è rimasto più nessuno. Giorgetti è l’unico dei dirigenti attuali che, una volta al mese, va ancora a trovare Bossi. Formalmente ancora il presidente a vita della Lega. Di fatto, un estraneo.
Il Foglio ha scritto che Salvini vorrebbe addirittura costringerlo a uscire dal partito, Giorgetti. Mentre nella dirigenza del Pd sono convinti che il loro sia solo un gioco delle parti: duro uno, conciliante l’altro. Indimenticabile il consiglio dei ministri di fine aprile, quando il governo decise di prorogare il coprifuoco alle 22. I ministri leghisti erano pronti a votare sì al decreto. Poi, Giorgetti ricevette una telefonata di Salvini. Che, nel frattempo, ne aveva dette di tutti i colori. Uscì fuori e parlò a lungo. Quando rientrò in consiglio, alzò la mano e disse: “Ci asteniamo. Non sto qui a spiegare le ragioni che voi tutti conoscete”. C’è chi parlò di spirito di disciplina. Chi di umiliazione. “Giancarlo” mi ha detto sempre quel leghista anonimo “è uno che ha bisogno di un capo: senza non ci sa stare”. Oggi ne ha addirittura due: Salvini al partito, Draghi al governo. Il problema è capire se, un giorno, sarà costretto a sceglierne uno.
Sul Venerdì del 18 giugno 2021
Timeo Danaos…