CORRIERE.IT –VIDEO, 6 GIUGNO 2021 / LA 7 TG 20.00– 7 GIUGNO
Materie prime, salgono i prezzi: frena la transizione ecologica e digitale. Il ruolo della Cina
di Milena Gabanelli e Rita Querzè
Fabbriche di elettrodomestici, mobili, alimentari, automobili, a singhiozzo si stanno fermando tutte. Proprio ora che riparte la domanda. La questione è che pressoché tutte le materie prime sono diventate introvabili e costosissime. Gli inglesi la chiamano «everything bubble»: la bolla sui prezzi di qualunque cosa. Per un Paese trasformatore come l’Italia, che deve importare quasi tutto, sta diventando un problema serio. Quanto sta accadendo è il risultato di tre fattori che si sommano: reali, finanziari e logistici.
Le cause
Partiamo da quelli «reali». Nei primi mesi della pandemia i valori dei prezzi delle materie prime sono crollati del 20-30%. La Cina, che ha un’economia pianificata, ne ha subito approfittato per fare scorte, avvantaggiata anche dal fatto di essere ripartita con quattro mesi di anticipo. Ma subito dopo i prezzi hanno ricominciato a salire, e ora sono alle stelle, perché tutti i Paesi sono ripartiti di scatto, con i magazzini di ogni continente vuoti per colpa dell’organizzazione «just in time» (le imprese si sono abituate, per essere più efficienti, a non accumulare scorte) e, quindi, adesso vanno riempiti da zero. Poi ci sono cause che hanno a che fare con i mercati finanziari. Le materie prime sono diventate un investimento interessante perché sono prezzate in dollari, moneta debole in questo momento, quindi sono convenienti per chi le acquista in euro o altre valute. Inoltre: investire in titoli di Stato dà rendimenti bassissimi, quindi tanto vale mettere soldi in materie prime e sui titoli derivati a esse legati. A tutto questo bisogna aggiungere l’aumento a dismisura dei costi di trasporto. Il Dry Baltic Index, indice che sintetizza gli oneri di nolo marittimo per prodotti secchi e sfusi (minerali, cereali, eccetera), ha registrato nell’ultimo anno un +605%. Tra le cause anche l’introduzione del nuovo regolamento approvato dall’Organizzazione marittima internazionale che impone a tutte le navi di abbassare la quota di zolfo nell’olio combustibile: dal 3,5% (massa per massa) dal gennaio 2020 si passati allo 0,5%. Questo cambiamento ha comportato la «rottamazione» di parte delle navi e «revamping» di altre, anche per le navi portacontainer e portarinfuse che trasportano merci dalle Americhe, dall’Africa, dall’Asia e dall’Australia, e il costo si è scaricato sui prezzi.
(…) aumento a dismisura dei costi di trasporto. Il Dry Baltic Index (…) ha registrato nell’ultimo anno un +605%.
Terre rare, litio, cobalto
Secondo il professor Achille Fornasini, docente di tecnica dei mercati finanziari a Brescia, «questa situazione si sgonfierà, perché i livelli produttivi sono ancora più bassi di quelli del 2019, quindi nel giro di alcuni mesi i prezzi scenderanno a livelli che rispecchiano la domanda reale». Ma questo ragionamento non si applica a tutte le «commodities». Ci sono infatti alcune materie prime necessarie in quantità mai utilizzate finora, perché sono indispensabili alle due rivoluzioni in corso nel sistema produttivo: la transizione green e quella digitale.
Parliamo di rame, litio, silicio, cobalto, terre rare, nickel, stagno, zinco. In appena un anno lo stagno, usato per le microsaldature nel settore elettronico, ha registrato un incremento del 133%, e la domanda continuerà a crescere a fronte di un’offerta contratta. Il prezzo del rame è aumentato del 115%. Il rodio è una «terra rara» utilizzata per collegamenti elettrici e per la realizzazione di marmitte catalitiche: più 447%. Il neodimio serve soprattutto nella produzione di super-magneti per i sistemi di illuminazione e l’industria plastica. Richiestissimo: più 74%.
La Cina pigliatutto
Oggi i ricavi dalla produzione di carbone sono dieci volte superiori a quelli realizzati con la produzione dei minerali utilizzati nel processo di transizione. Ma, secondo l’Agenzia internazionale dell’energia, la situazione si capovolgerà entro il 2040.
I più lungimiranti sono stati i cinesi. A casa loro sono grandi estrattori di rame, litio, terre rare. E quello che gli manca se lo vanno prendere nei Paesi produttori: il nichel nelle Filippine e in Indonesia, in Congo possiedono le principali miniere di cobalto. Minerali che poi trasformano direttamente nella madre patria. Secondo Benchmark Mineral Intelligence, società di analisi britannica, l’80% dei materiali grezzi necessari per la costruzione delle batterie agli ioni di litio proviene da aziende cinesi.
L’Europa sempre più in difficoltà
La Commissione europea fa presente che le materie prime critiche sono trenta, tra le quali proprio il litio. Per l’approvvigionamento di terre rare dipendiamo dalla Cina per il 98%, idem per il borato dalla Turchia, dal Sud Africa per il 71% del fabbisogno di platino. Secondo le stime della Commissione, per le batterie dei veicoli elettrici e lo stoccaggio dell’energia nel 2030 l’Ue avrà bisogno di un approvvigionamento di litio fino a 18 volte superiore a quello attuale, e 5 volte di cobalto. Quantità che triplicheranno nel 2050, mentre decuplicherà la domanda di terre rare utilizzate nei magneti permanenti (veicoli elettrici, tecnologie digitali, generatori eolici).
Per l’approvvigionamento di terre rare dipendiamo dalla Cina per il 98%, idem per il borato dalla Turchia, dal Sud Africa per il 71% del fabbisogno di platino.
Come se ne esce
Con vent’anni di ritardo rispetto alla Cina, lo scorso ottobre l’Unione Europea ha costituito l’Alleanza per le materie prime. La strategia è quella di diventare più autonomi puntando su tre obiettivi. Il primo: favorire l’attività estrattiva dei metalli presenti sul territorio europeo utilizzando tecnologie avanzate. La domanda di litio, per esempio, può essere soddisfatta internamente per l’80% entro il 2025. Oggi i metalli strategici estratti in Europa, come il litio, vengono poi trasformati principalmente in Cina. Il processo di lavorazione andrà invece sviluppato rapidamente a casa nostra. Sono stati creati sei centri d’innovazione, di cui uno a Roma, con lo scopo di implementare il settore creando partnership tra imprese e tra imprese e università. In Italia abbiamo un po’ di cobalto in Sardegna e a Punta Corna, in Piemonte, dove si trova anche il nichel; mentre a Gorco, in provincia di Bergamo, c’è lo zinco. Certo, si tratta di attività invasive. Ma andrà deciso una volta per tutte se lasciarle nelle mani di Paesi che, oltre a renderci dipendenti economicamente ed esposti ai ricatti dei prezzi, hanno regole meno rigorose delle nostre e utilizzano tecnologie più inquinanti.
I danni del mancato riciclo
Secondo punto: potenziare l’attività di riciclo dei metalli pregiati. Abbiamo dimostrato di saperlo fare con carta e alluminio, ma non con i rifiuti elettronici, a partire dalle batterie dei cellulari. Per quel che riguarda il riciclo delle batterie, mandiamo il grosso in Cina, che ormai domina il mercato mondiale, e la paghiamo svolgere questo tipo di attività. Poi dalla Cina compriamo le batterie nuove e buonanotte. Un minerale strategico è il cobalto. Dai dati dello European Institute of Innovation Tecnology Rowmaterials: l’Ue paga per importarne 40.000 tonnellate ogni anno, la metà finiscono in prodotti che restano all’interno della Ue, dove il riciclo a fine vita però è minimo, quando invece una percentuale che può sfiorare il 50% è recuperabile. Inoltre andiamo a buttare migliaia di tonnellate di computer e telefonini usati nelle discariche di casa nostra e in Africa. Un comportamento irresponsabile che, da un lato, provoca un inquinamento gigantesco e, dall’altro, deturpa l’ambiente perché rende necessario estrarre nuovo cobalto. Per questo si dovrà puntare su filiere di raccolta, stoccaggio e riciclo, che oggi mancano completamente. Terzo punto: costruire una politica estera e industriale comune per ottenere le concessioni dei minerali che non abbiamo.
La Cina è vicina. Brrr….