LIMESONLINE
28/09/2007
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L’editoriale del volume 5/2007 di Limes, La Palestina impossibile.
1. Per fare uno Stato ci vogliono una terra e un popolo sovrano.
La Palestina non esiste perché non ha né l’una né l’altro. La terra che per quasi universale convenzione potrebbe spettarle, è controllata da Israele (Cisgiordania) o in mano a Ḥamās (Gaza), vincitore delle ultime elezioni palestinesi ma battezzato terrorista dalle potenze che contano. Il popolo è perlopiù in diaspora. Oppure sotto occupazione, umiliato dagli israeliani, ostaggio delle fazioni armate e dei feudatari che si contendono rabbiosamente quanto resta di una terra che sentono propria. E che Israele ha subappaltato a un’amministrazione fantasma – l’assai poco autorevole Autorità nazionale palestinese, in Cisgiordania – o lasciato predare da Ḥamās, nella gabbia sigillata di Gaza, di cui conserva le chiavi. I più fortunati sono i palestinesi israeliani, pur sempre sorvegliati speciali in uno Stato che non sentono loro ma si tengono strettissimo, perché ci vivono piuttosto bene.
Le cifre della dispersione parlano da sole. Su circa 12 milioni di palestinesi, solo un terzo vive nei Territori occupati.
Nella Striscia di Gaza – il territorio più sovraffollato al mondo, vasto quanto la provincia di Prato – si accalca 1 milione e mezzo di disperati. In Cisgiordania, meno estesa della provincia di Perugia, se ne contano quasi due e mezzo. Il resto è cittadino sui generis di Israele (1,3 milioni) o della Giordania (1,1 milioni, rifugiati esclusi), profugo nei paesi arabi vicini (4,5 milioni) o sparso nel mondo (1,2 milioni). Da geopolitica, la questione palestinese rischia di ridursi ad umanitaria (carta 1 e tabella).
La terra e il popolo che secondo le ormai antiche risoluzioni Onu 242 e 338 potrebbero diventare Palestina sono nel caos.
La Cisgiordania non comunica con Gaza ed è frammentata in celle territoriali separate, vegliate da 550 posti di blocco israeliani, amputata dal Muro, penetrata dalle colonie ebraiche (carte a colori 1 e 2).
Il presidente dell’Anp e leader di Fatḥ, Abu Mazen, è più noto come «sindaco di Rāmallāh». Può spostarsi nel «suo» territorio solo col permesso di Israele, sempre che le milizie locali non glielo impediscano.
Quanto a Gaza, conquistata da Ḥamās nel giugno scorso a spese di Fatḥ, è teatro di guerra (carta a colori 3). Risolta a favore degli islamisti quella fra bande palestinesi, resta lo scontro ad alta tensione con gli israeliani. Ai razzi di latta sparacchiati dalle milizie palestinesi che piovono sulle case e sulle caserme israeliane limitrofe, le truppe di Gerusalemme replicano con infiltrazioni mirate e bombardamenti dall’aria. E si riservano il diritto di entrare e uscire dalla Striscia, in quanto piattaforma terroristica. Anzi, «entità nemica», cui si possono tagliare elettricità e carburante. Israele ha così messo l’Hamastan ( neologismo peggiorativo, fusione “Hamas’, a Militante palestines sotto assedio. Sta per ” Amministrazione di Hamas nella Striscia di Gaza”. ) sotto assedio.
Senza troppo distinguere fra leader islamisti e popolazione civile, colpevole di aver votato la fazione sbagliata nelle elezioni del gennaio 2006.
A Gaza, Olmert ( primo ministro israeliano dal 2006 al 2009 ) porta alle estreme conseguenze il principio per cui i palestinesi sono responsabili della sicurezza di Israele.
Osserva Muṣțafà Barġūṯī, leader laico palestinese che aspira a costruire una «terza forza» fra Ḥamās e Fatḥ: «Nei Territori, caso unico al mondo, gli occupati devono provvedere alla sicurezza degli occupanti» 1.
2. Prima di immaginare qualsiasi Palestina, i suoi aspiranti cittadini dovranno radunarsi sotto una sola bandiera.
Ad oggi, fazioni e milizie che pretendono di agire in suo nome sono impegnate in uno scontro politico-militare tra nemici apparentemente irriducibili. È questo il fallimento dei palestinesi. Ed è questa la vittoria di Israele – se tattica o strategica deciderà la storia.
Da sempre lo Stato ebraico applica il romano divide et impera. Con gli arabi in genere e specialmente con quelli di casa, i palestinesi. Dividere gli arabi per usarli non è arduo. Gran Bretagna e Francia hanno praticato con successo questo sport nell’Otto-Novecento, malamente emulati oggi dalle loro ex colonie nordamericane, non troppo sofisticate quanto a skills imperiali.
Oscillando fra qabīla e umma – tribù e «matria» etnico/religiosa – gli arabi sono refrattari alla nazione. Non hanno mai formato Stati nazionali all’europea. Sono stati di norma inquadrati in ciò che residuava delle frontiere coloniali. Le loro istituzioni soffrono di un deficit strutturale d’identità e di legittimazione. Il contrario di Israele, almeno nella sua versione originaria.
L’impatto di un progetto ipernazionale come quello sionista sul sostrato tribal-beduino nel Mandato britannico – ricavato dopo la prima guerra mondiale dagli ex sottodistretti ottomani di Acri, Nāblus e Gerusalemme – ha prodotto l’effetto di un meteorite.
Un gruppo nazionale e religioso alla ricerca della sua terra, reso ancora più consapevole dal trauma dell’Olocausto, penetrava in un territorio i cui abitanti arabi stentavano ad autodefinirsi – siriani del Sud, palestinesi, appartenenti a questa o quella tribù – e che solo negli anni Venti cominceranno a produrre un proprio mito nazionale.
Il nazionalismo palestinese è dunque un prodotto del colonialismo britannico. La «Palestina storica» dal Mediterraneo al Giordano non ha nemmeno un secolo di vita. Ed è paradossale che gli islamisti, per i quali quella Palestina è inalienabile patrimonio musulmano (waqf), sorvolino sul fatto che a tracciarne il limes sia stata la mano (armata) dei britannici infedeli.
Tale fragilità identitaria alimenta da sempre i conflitti intrapalestinesi. Favorendo l’autolegittimazione dei pionieri sionisti e poi degli israeliani in quanto «popolo senza terra per una terra senza popolo».
A chi ne ripercorra la parabola storica, i palestinesi sembrano condannati all’eterodirezione: alternativamente arabo-islamica, ebraica, occidentale – o le tre insieme.
Così, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina nasce nel 1964 per iniziativa egiziana (Nasser), in salsa panarabista e con a capo un ex diplomatico prima siriano poi saudita, Aḥmad Šuqayrī.
È solo con la gestione Arafat (1969-2004) che si consolida nella percezione del mondo, Israele compreso, l’idea della nazione palestinese. Ma dopo Arafat? Chi ha il carisma e l’autorità per parlare a nome di tutti i palestinesi? Forse una Palestina senza Arafat è altrettanto utopica di un Iraq senza Saddam?
3. Il disastro palestinese ha dunque una radice endogena, espressa dalle rivalità clanico-mafiose culminate nella guerra per bande a Gaza. E dall’illusione di poter sconfiggere con le armi, terrorismo incluso, un nemico mille volte più potente. Ma quello palestinese è stato e resta un suicidio assistito. Dagli israeliani, protetti dagli americani.
La vittoria di Israele, dai fondatori a Sharon e ai suoi epigoni, ha finora seguito una logica molto coerente. Essa si regge su un postulato, da cui discendono l’obiettivo e il mezzo strategico per conseguirlo.
Il postulato è che la partita con i palestinesi sia a somma zero. Non è questione di leader più o meno inaffidabili, ma di un popolo per il quale danneggiare Israele è più importante che aiutare se stesso. L’idea fissa non è tanto fare la Palestina quanto disfare Israele. Tanto più che negli ultimi anni la causa palestinese è stata sequestrata dall’islamismo radicale. Lo scontro non è nazionale, ma religioso. Nel primo caso ogni compromesso è possibile, nel secondo è impossibile per definizione: la Verità non è emendabile. C’è dunque un’incompatibilità essenziale fra israeliani e palestinesi, anzi fra ebrei e musulmani, arabi o meno. Contano solo i rapporti di forza. I quali sono estremamente favorevoli a Israele: un paese del Primo Mondo quanto a potenza militare, economica, tecnologica e culturale, contiguo a territori del Terzo Mondo, dilaniati dalle convulsioni interne.
L’obiettivo è consolidare Israele in quanto Stato ebraico e democratico. Ossia con un demos e un ethos ebraici. I palestinesi potranno convivervi come minoranza (meglio se meno dell’attuale 20%), restare in diaspora oppure insediarsi in parte dei Territori contesi, formandovi un’entità smilitarizzata sotto controllo israeliano. Le strade strategiche riservate agli israeliani e le colonie ebraiche già disegnano un sistema di bantustan pressoché irreversibile. Tante mini-palestine d’Israele. Se poi dovremo chiamarle Palestina, sia. Ma uno Stato autonomo e sovrano, mai.
nota : ” bantustan ” = territori del Sudafrica e della Namibia assegnati alle etnie nere dal governo sudafricano nell’epoca dell’apartheid.
Il mezzo è la potenza. In senso classico, hobbesiano. Israele non teme di usare la violenza. Lo fa senza complessi fin dalla nascita, quando un’eteroclita «coalizione» araba tentò di strangolarlo nella culla. Ma il valore, peraltro declinante, delle sue Forze armate non conterebbe molto senza il patto esistenziale che lega Gerusalemme a Washington. Assai più di un’alleanza. Solo grazie alla protezione americana Israele può concedersi l’approccio di «fondamentale rifiuto» delle istanze palestinesi, mentre sullo sfondo lo sgangherato Quartetto Usa-Russia-Unione Europea-Nazioni Unite si esibisce in un «side-show» ( spettacolo laterale) di copertura (così l’ex inviato Onu Álvaro de Soto) 2.
Per Israele la diplomazia serve a gestire la crisi, non a risolverla. Semplicemente perché è irresolubile, giusto il postulato iniziale. E perché il provvisorio vincitore non intende tendere la mano a un perdente di cui pensa che il vero impulso sia la rivincita. Dunque lo Stato ebraico gioca in solitario. Negozia con se stesso, anche quando dialoga con gli altri.
Carta di Laura Canali – 2007
Questa strategia è stata pubblicamente teorizzata tre anni fa dal braccio destro di Sharon, Dov Weisglass, per spiegare lo sgombero di Gaza. È il «progetto formaldeide».
Il distacco dalla Striscia – un inferno in cui lasciar cuocere i terroristi – serve a congelare lo status quo e «a fornire la giusta quantità di formaldeide necessaria a impedire un negoziato politico con i palestinesi». Infatti, «abbiamo concordato con gli americani che una parte degli insediamenti (in Cisgiordania, n.d.r.) non sarà toccata affatto, e del resto non si tratterà finché i palestinesi non diventeranno finlandesi». Risultato: «Congelando il processo politico, preveniamo la formazione di uno Stato palestinese e quindi la discussione su profughi, confini e Gerusalemme. Di fatto, tutto questo pacchetto chiamato Stato palestinese, con tutte le sue connessioni, è stato cancellato dalla nostra agenda a tempo indeterminato» 3.
Vedremo se la formaldeide resisterà all’annunciato test di novembre, quando Bush intende riunire a Washington un incontro internazionale sul Medio Oriente dai contorni tuttora incerti. Se non paradossali, sullo sfondo dell’assedio di Gaza. Ammesso che non abortisca o si risolva in fiasco assoluto, che cosa ci si può attendere in questo clima dall’esercizio proposto dalla Casa Bianca? Ne scaturirà l’ennesimo capolavoro di ambiguità, destinato a salvare la sostanza della strategia israeliana con qualche concessione di facciata ai palestinesi, che ciascuno sarà libero di interpretare a modo suo, come nel caso della road map? O invece, per miracolo, produrrà la definizione della data di nascita dello Stato palestinese, il via libera al negoziato sullo status finale, dunque sui tabù di Gerusalemme, dei confini e soprattutto dei profughi palestinesi? E anche se valesse la seconda ipotesi, quale autorità avrebbero Bush, Olmert e Abu Mazen – bel trio di «anatre zoppe» – per concretizzarla?
4. Per capire la mossa di Bush conviene leggerla sullo sfondo della partita strategica regionale, quella contro l’Iran.
Americani e israeliani concordano: il nemico numero uno è il regime di Teheran. A Washington e a Gerusalemme, molti sono convinti che sia cominciato il conto alla rovescia in vista dell’attacco che dovrebbe annichilire la potenza iraniana, quanto meno frustrarne per diversi anni le ambizioni nucleari. La Palestina viene molto dopo. Interessa per due sole ragioni: come carta diplomatica nei confronti dei regimi arabi e sunniti e come minaccia tattica in caso di guerra all’Iran. Nel primo caso gli interessi di Bush e Olmert non coincidono totalmente, nel secondo sono identici.
Sul fronte diplomatico mediorientale, la Casa Bianca è disposta a concedere qualcosa ai dittatori amici, sulla scia del fumoso piano di pace saudita (riconoscimento arabo di Israele in cambio dello Stato palestinese nei Territori), per sigillare il cordone sanitario antipersiano e antisciita destinato a strangolare l’Iran. L’establishment israeliano teme che sauditi ed egiziani possano strappare agli americani un prezzo eccessivo a favore dei palestinesi. Non perché nei palazzi del Cairo o di Riyad si soffra per i cugini palestinesi, ma per poter esibire alla piazza araba, aizzata dalla propaganda islamista, qualche successo nella santa causa di Gerusalemme.
Sul terreno militare, i Territori interessano in quanto teatro laterale dell’eventuale campagna contro l’Iran. Si tratta di impedire che dopo Gaza anche la Cisgiordania cada nelle mani di Ḥamās, considerato al pari di Ḥizbullāh in Libano un vettore d’influenza iraniana, una spina nel fianco dell’asse Usa-Israele.
In caso di guerra con Teheran, da Gaza e dal Libano meridionale – forse anche dalla Siria, tiepido alleato dei persiani – partirebbero rappresaglie terroristiche contro Israele, con lanci di missili e profusione di attentati suicidi.
Bollando Ḥamās come braccio armato dei pasdaran, Bush e Olmert liquidano di fatto la questione palestinese. Se infatti il vincitore delle elezioni nei Territori è un agente di Teheran, chi può rappresentare la causa palestinese? La fazione più debole, corrotta e ricattabile, il Fatḥ del vecchio Abu Mazen, suggeriscono a Washington e a Gerusalemme. Ma può il «sindaco di Rāmallāh» stipulare un qualsiasi accordo di pace in nome dei palestinesi? Evidentemente no. Può forse accettare uno staterello cisgiordano, rinunciando a Gaza? Nemmeno. Il cerchio è chiuso. Exit Palestina.
5. Per ritrovare un posto nell’agenda internazionale e sottrarsi al destino di eterni strumenti altrui, ai palestinesi occorre anzitutto ricostruire un fronte unitario. E darsi un leader. Uno solo. Perché se anche Israele intendesse concedere loro tutto quello che vogliono, con chi potrebbe oggi firmare la pace?
Questo implica il rinnovamento di Fatḥ, come suggerito dal più autorevole fra i prigionieri di Israele, Marwān Barġūṯī, capo della milizia Tanfiīm e sponsor delle Brigate dei martiri di al-Aqṣà e dei Comitati di resistenza popolare. Ma ammesso che i giovani militanti della seconda Intifada riescano a pensionare la vecchia cleptocrazia arafattiana, resta lo scoglio Ḥamās. Secondo un sondaggio condotto dallo stesso Fatḥ, a stravincere oggi le elezioni presidenziali nei Territori sarebbe l’ex primo ministro del governo di unità nazionale e capo di Gaza, Ismā‘īl Haniyya, con il 51,38% dei voti.
Dopo di lui, il vuoto: Abu Mazen è al 13,37%, Marwān Barġūṯī al 12,62%, il capo del «governo» cisgiordano di emergenza, Salām Fayyāî, al 4,99% 4. L’idea di una nuova legge elettorale che metta fuori gioco Ḥamās, coltivata da Abu Mazen, appare in questo contesto velleitaria o puramente golpista.
In un modo o nell’altro, per unire i palestinesi servirà reincludere Ḥamās nell’equazione politica. A dispetto degli insulti e delle scomuniche pubbliche, contatti discreti, sponsorizzati anche da egiziani e sauditi, sono in corso fra messaggeri di Haniyya, Mišal (leader dell’ala esterna di Ḥamās), Fayyāḍ e Abu Mazen, con la supervisione di Marwān Barġūṯī (e naturalmente sotto gli occhi del Mossad).
I capi di Fatḥ, pressati da israeliani e americani, restano in maggioranza ostili al negoziato con Ḥamās. Ma per non squalificarsi del tutto agli occhi del suo popolo, Abu Mazen non può disinteressarsi dei gaziani sotto assedio. Sicché il blocco israeliano della Striscia potrebbe produrre un effetto opposto alle intenzioni dei suoi ideatori, costringendo il «sindaco di Rāmallāh» e i capi dell’Hamastan in guerra a un riavvicinamento tattico, in nome dell’emergenza nazionale.
Comunque, Ḥamās dovrà convincere israeliani, americani ed europei di non meritare la qualifica di movimento terroristico. Condizione indispensabile per essere accettato un giorno nella delegazione palestinese al tavolo delle trattative sullo status finale dei Territori, se mai si aprirà. Ripercorrendo a suo modo il cammino di Arafat, da capo di una banda di tagliagole a premio Nobel per la pace (e ritorno, visto che è morto da intoccabile, almeno per Bush e Sharon).
Carta di Laura Canali – 2007
Ma che cos’è davvero Ḥamās? E soprattutto, che cosa fa?
Le ricostruzioni non strumentali di quanto accaduto in giugno a Gaza da parte di diversi analisti indipendenti occidentali e israeliani – sostanziate da testimonianze che Limes ha raccolto sul terreno – relativizzano, quando non rovesciano, la versione corrente per cui si sarebbe trattato di un golpe premeditato di Ḥamās. Lo conferma, protetto dall’anonimato, un collaboratore dell’ufficio di Abu Mazen: «Da tempo Fatḥ aveva pianificato la distruzione di Ḥamās nella Striscia di Gaza. Ḥamās ci ha molto semplicemente anticipato e ha vinto grazie alla sua migliore organizzazione» 5.
Gli islamisti radicali non avevano certo interesse a sabotare un governo di unità nazionale da loro capeggiato per autorecludersi a Gaza. Questo era invece l’obiettivo di americani e israeliani, i quali facevano leva sul rifiuto di Abu Mazen di accettare la sconfitta elettorale. Sicché a Gaza l’antica rivalità fra Ḥamās e Fatḥ era trascesa in guerra per bande. Ciò non dispiaceva né agli israeliani né agli americani, tanto che l’inviato Usa nel Quartetto aveva ripetutamente spiegato ai colleghi, poco prima dell’intesa della Mecca: «Mi piace questa violenza. Significa che altri palestinesi stanno resistendo a Ḥamās» 6.
Ancora una volta, le fazioni palestinesi scadevano a strumento di interessi esterni. Giacché il loro primario interesse non è la lotta contro l’occupazione, ma la competizione per il «potere» domestico, o meglio per il controllo dei servizi di sicurezza – di fatto milizie private o pure mafie – e dei pochi soldi che ancora filtrano dall’estero. Mentre diversi miliziani di Ḥamās e di altre fazioni radicali erano (sono) addestrati e armati in Iran e in Siria, Cia e Mossad finanziavano il piccolo esercito di Maḥmūd Daḥlān, capobastone di Fatḥ e signore del feudo gaziano di H̱ān Yūnis, con gli americani pronti a provvedere via Egitto i necessari equipaggiamenti (Israele è refrattario ad armare direttamente qualsiasi gruppo palestinese, anche – o tanto più – se collaborazionista).
Carta di Laura Canali – 2018
In maggio un battaglione di Daḥlān entra a Gaza via Egitto. Da quel momento sia Fatḥ che Ḥamās perdono il controllo di buona parte dei loro combattenti. Le opposte milizie scatenano scontri di incredibile ferocia, che si concludono con la fuga di Daḥlān e la rotta delle sue truppe. Ḥamās vince sul campo, ma offre ad Abu Mazen l’occasione di affossare il governo di unità nazionale e formarne d’intesa con Barġūṯī uno d’emergenza, il cui primo obiettivo – condiviso dai suoi sponsor esterni – è d’impedire che la stessa scena si ripeta in Cisgiordania. Dove peraltro può godere della diretta protezione israeliana.
E adesso che la Striscia è sotto assedio? Per Ḥamās il marchio di «entità nemica» imposto da Olmert a Gaza è una dichiarazione di guerra. Quando la scelta è tra la vita e la morte, non c’è molto spazio per ragionare. È la grande ora degli estremisti, anche se il «premier» Haniyya cerca di tenerli a bada. Consapevole che dall’Hamastan in guerra potrebbero scaturire schegge ben più radicali, «qaidiste».
Eppure, la ventennale storia del Movimento di resistenza islamica (in sigla: Ḥamās) ne rivela la struttura tutt’altro che monolitica. Le contraddizioni fra retorica e azioni, fra ideologia fondamentalista e flessibilità politica sono ormai croniche. In un documentato studio, gli analisti israeliani Shaul Mishal e Avraham Sela giungono a definirlo «più pragmatico che dogmatico, più riformista che rivoluzionario» 7.
Il suo radicamento nel territorio, grazie all’efficiente sistema di welfare, lo spinge ad adattarsi alle circostanze più che a servire gli ideali originari. È soprattutto per questo che ha vinto le elezioni, non solo per il richiamo del verbo estremista.
Se la Carta fondativa del 1988 è ispirata al radicalismo dei Fratelli musulmani egiziani, farcita di antisemitismo e di dozzinali teorie del complotto, quel poco che filtra del dibattito interno e soprattutto la sua prassi rivelano una certa flessibilità. Così, almeno fino a quando Israele ha bollato Gaza come «entità nemica», Ḥamās ha rispettato grosso modo la tregua con il nemico sionista. A lanciare razzi dalla Striscia contro gli israeliani sono state soprattutto bande collegate a Fatḥ (Brigate al-Aqṣà e affini), oltre alla Jihad islamica, dipendente da Teheran.
Nel caos, stanno fiorendo persino agenzie terroristiche «private», connesse a clan locali, che si offrono a un tanto al missile.
Carta di Laura Canali – 2018
Certo, la Carta di Ḥamās rivendica una Palestina dal Mediterraneo al Giordano in quanto «patrimonio [waqf] islamico per tutte le generazioni musulmane fino al giorno della resurrezione» 8.
Ma già lo sceicco Aḥmād Yāsīn, capo storico di Ḥamās ucciso dagli israeliani, aveva mappato diverse ipotesi di coesistenza col nemico e proposto allo Stato ebraico una tregua di 10-15 anni, da rinnovare automaticamente a tempo indefinito, ove si fosse ritirato dalle terre occupate nel 1967 9. E la secolarizzazione avanza, fino a spingere un altro leader di Ḥamās a specificare: «Il fatto di essere ebreo, sionista o israeliano per me è irrilevante: ciò che per me è importante è il concetto di occupazione e aggressione. Anche se questa occupazione fosse stata condotta da uno Stato arabo o islamico e i soldati fossero arabi o musulmani, io resisterei e risponderei all’attacco con le armi» 10. Recentemente, in diversi documenti e dichiarazioni alti dirigenti del movimento hanno di fatto accettato la soluzione dei due Stati 11. Un riconoscimento implicito di Israele che smentisce la Carta del 1988. Ma allora perché non ripudiarla?
Molti sospettano un doppio gioco. Ḥamās ci offre la faccia presentabile per confondere e dividere l’Occidente, ma non ha rinunciato a gettare a mare tutti gli ebrei. In attesa di disporre della forza per farlo. Possibile, ma non imminente. Probabile invece che i dirigenti di Ḥamās, usi a ragionare in termini di costi/benefici, calcolino che la pubblica abiura del fondamentalismo ne ridurrebbe il radicamento nei Territori e dunque il consenso. Secondo un sondaggio del palestinese Jerusalem Media and Communications Center, la piazza locale è assai più estremista dei suoi leader politici: il 94% rifiuta qualsiasi controllo israeliano, anche sotterraneo, dei luoghi di culto islamico nella città santa di Gerusalemme e il 70% vuole che tutti i profughi tornino nelle loro case, cioè in Israele 12. Il potenziale per un «partito del rifiuto» ben più estremo di Ḥamās c’è, eccome.
Gli apprendisti stregoni israeliani, che lasciarono fare o addirittura sostennero i primi passi del Movimento islamico di resistenza per dividere il campo palestinese – un errore che Rabin ebbe l’onestà di riconoscere 13 – vorranno ignorare questo rischio? Probabilmente sì. Un autorevole esponente del governo Olmert ha spiegato nel luglio scorso al Washington Post come strangolare il nemico islamista. Sigillando la Striscia, «le condizioni di vita peggioreranno e i palestinesi di Gaza diventeranno sempre più scontenti di Ḥamās. Poi si rivolteranno contro i loro padroni, e lo staterello islamico che minaccia di impiantarsi fra Egitto e Israele collasserà. E Fatḥ riprenderà il controllo della situazione» 14.
6. Che una Palestina davvero indipendente e autosufficiente (viable, in gergo diplomatico) sia ormai impossibile lo temono molti palestinesi. I fatti compiuti sul terreno sono troppo profondi.
Il sospetto reciproco fra nemici di lunghissima data sembra trasmettersi per via genetica. Circolano amare battute sul trionfo della soluzione dei due Stati – sì, ma entrambi palestinesi, a Gaza e in Cisgiordania. Il condirettore del Journal of Palestine Studies, Ğamīl Hilāl, ha pubblicato un volume collettaneo in cui studiosi palestinesi (insieme a colleghi israeliani e di altri paesi) ragionano sulla fine del sogno di un proprio Stato nazionale. Dalle ceneri della Palestina alcuni immaginano possa rinascere l’araba fenice dell’Israstina, come Gheddafi battezzò l’ipotesi di uno Stato binazionale sull’intero ex Mandato britannico.
Carta di Laura Canali – 2019
Ma per la grande maggioranza degli israeliani l’Israstina è un incubo (carta a colori 4 e schema in questa pagina). Entro questo decennio fra mare e fiume – Mediterraneo e Giordano – vi saranno più arabi che ebrei. Mentre la diaspora ebraica sembra aver esaurito i flussi verso Israele (carta 2). Già nel 2003 Olmert fu molto chiaro sulla minaccia demografica: «I palestinesi vogliono cambiare l’essenza del conflitto dal paradigma algerino a quello sudafricano: da una lotta contro quella che chiamano “occupazione” alla lotta per “una testa un voto”. Questa è naturalmente una lotta molto più pulita, molto più popolare e alla fine molto più potente. Per noi significherebbe la fine dello Stato ebraico» 15.
Il primo ministro di Gerusalemme coglie un paradosso. I palestinesi non minacciano l’esistenza di Israele con il terrorismo o con qualsiasi forma di lotta armata. La loro bomba atomica sarebbe la resa: sciogliere il fantasma dell’Anp (e dell’Olp), consegnarsi agli occupanti – magari con un festoso referendum nei Territori – e chiedere di diventare cittadini a pieno titolo della democrazia israeliana. Di cui sarebbero ipso facto maggioranza. Annullando d’un colpo la fatica e il sangue di generazioni di sionisti. Oppure gli ebrei d’Israele sarebbero costretti a respingere gli aspiranti israeliani – replicando il piano Dalet adottato nel marzo 1948 per sgomberare dagli arabi il territorio del loro Stato – se non a rovesciare le istituzioni democratiche in nome dell’emergenza etnica. Fantasie, per ora. Siamo dunque all’impasse totale. I più ottimisti fra i fautori della formula «due popoli due Stati» si aggrappano a uno scenario di medio periodo. Si passerà per la ricomposizione della frattura palestinese attorno a una leadership spendibile e legittimata, insieme a un radicale cambio politico in Israele. A quel punto riprenderà corpo il piano di Ginevra (lanciato nel dicembre 2005), con vari correttivi a consolidare il controllo indiretto dello Stato ebraico sui Territori che dovrà sgomberare. E che considererà sempre, come minimo, sua primaria sfera d’influenza.
Ma prima ancora che nuove e meno precarie élite politiche nei due campi, qualsiasi accordo di pace richiede, per non evaporare nel nulla, un doloroso esercizio spirituale. Il primo presidente di Israele, Chaim Weizmann, amava ripetere che non è difficile mettersi d’accordo fra capi in un albergo di lusso. Il problema è far penetrare la pace nella coscienza di popoli nati, vissuti e formati nell’odio. Possono palestinesi ed israeliani, arabi ed ebrei riprendere ad ascoltarsi, provare a capirsi, rischiare di fidarsi? L’alternativa è perdere tempo. O prenderlo per la prossima guerra.
Note:
1. Così l’11 settembre 2007 nel corso della presentazione romana del suo libro Restare sulla montagna, Roma 2007, ed. nottetempo.
2. R. MC CARTHY, I. WILLIAMS, «Secret UN report condemns US for Middle East failures», The Guardian, 13.6.2007; il testo del rapporto è in www.guardian.co.uk/frontpage/story/0,,2101676,00.html
3. Intervista con D. WEISGLASS a cura di A. SHAVIT, Ha’aretz Magazine, 8/10/2004.
4. S. AL-NAAMI, «No elections if Hamas will win», Al-Ahram Weekly, 30/8-5/9 2007, n. 860.
5. «Die Einsamkeit der Fatah-Führer des Gazastreifens» («La solitudine dei capi di Fatḥ nella Striscia di Gaza»), articolo siglato kw., 9/8/2007, Neue Zürcher Zeitung.
6. Così Álvaro de Soto a pagina 21 del suo rapporto, vedi nota 2.
7. S. MISHAL, A. SELA, The Palestinian Hamas. Vision, Violence and Coexistence, New York 2006, Columbia University Press, p. XXIV.
8. Ivi, p. 181, nell’appendice che reca il testo integrale della Carta.
9. Cfr. M. KLEIN, «Hamas in Power, Middle East Journal, Summer 2007, vol. 61, n. 3, p. 445.
10. K H. HROUB, Hamas. Un movimento tra lotta armata e governo della Palestina raccontato da un giornalista di Al Jazeera, Milano 2006, Bruno Mondadori Editore, p. 49.
11. Vedi fra l’altro il Documento dei prigionieri del 26 maggio 2006, che rivendica uno «Stato indipendente con al-Quds al-Šarīf capitale su tutti i territori nel 1967», con il «diritto al ritorno» per i profughi, firmato per Ḥamās da šayh ‘Abd al-Ḫåliq al-Natša, dell’Alta commissione dirigente.
12. D. RUBINSTEIN, «Persuade the people», Ha’aretz, 31/8/2007.
13. Cfr. A. CARUSO, «La Palestina di Ḥamās sorgerà sulle ceneri di Israele», Limes, «Guerra santa in Terra santa», n. 2/2002, p. 24, nota 6.
14. J. DIEHL, «Mideast Policy in a Fantasy World», The Washington Post, 9/7/2007.
15. Intervista con E. OLMERT a cura di D. LANDAU, Ha’aretz, 15/11/2003.
Ho sempre pensato che la soluzione fosse “due popoli, due stati”. Però un unico stato, dove fossero assicurati i diritti di tutti, palestinesi e israeliani, a formare un’unica nazione, forse sarebbe una meta da perseguire, dandosi naturalmente il tempo necessario e abbandonando finalmente la via della forza, che non porta risultati a lungo termine, se non rafforzare l’odio reciproco.