Dal 08 Aprile 2021 al 25 Luglio 2021
BOLOGNA
LUOGO: Palazzo Fava
INDIRIZZO: Via Manzoni 2
CURATORI: Alberto Zanchetta e Chiara Stefani
ENTI PROMOTORI:
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Genus Bononiae. Musei nella Città
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Patrocinio del Comune di Bologna e dell’Accademia di Belle Arti di Bologna
TELEFONO PER INFORMAZIONI: +39 051 19936343|
E-MAIL INFO: esposizioni@genusbononiae.it
SITO UFFICIALE: http://www.genusbononiae.it
Nicola Samorì, Caino, 2020
Nicola Samorì, Sofonisba, 2018 | Courtesy Genus Bononiae. Musei nella città
Nicola Samorì, Immortale, 2018 | Courtesy Genus Bononiae. Musei nella città
Inaugura l’8 aprile a Palazzo Fava Sfregi, la prima mostra antologica in Italia di Nicola Samorì (Forlì, 1977), a cura di Alberto Zanchetta e Chiara Stefani.
Il progetto espositivo, studiato dall’artista in esclusiva per le sale del Palazzo delle Esposizioni di Bologna, permette di leggere in modo esaustivo e lenticolare il percorso da lui intrapreso negli ultimi vent’anni illuminando le opere più rappresentative della sua produzione.
La mostra – circa 80 lavori che spaziano dalla scultura alla pittura, dagli esordi fino alle realizzazioni più recenti – è un progetto di Genus Bononiae. Musei nella Città, con il sostegno della Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna.
Bologna è la città che ha visto formarsi Samorì presso l’Accademia di Belle Arti: già in quel contesto hanno preso forma il suo stile e la sua poetica, indissolubilmente connessi ad una profonda necessità di fustigare la serenità delle immagini, prassi che ha mantenuto e sviluppato nel corso degli anni sperimentando sempre nuove tecniche. I traumi inferti alle opere dall’artista – che tenta di turbare, trasgredire e trasfigurare immagini preesistenti – presuppongono infatti, ieri come oggi, un potere taumaturgico.
L’esposizione a Palazzo Fava è occasione per Samorì di cimentarsi in un faccia a faccia con la storia dell’arte, e in particolare con l’epoca barocca, articolando un percorso di suggestioni e analogie e innescando una stretta e intensa relazione con i preziosi fregi che decorano le pareti del piano nobile.
Palazzo Fava. Palazzo delle Esposizioni di Genus Bononiae. In alto il Fregio di Giasone e Medea di Annibale, Agostino e Ludovico Carracci
Così nel Salone con il mito di Giasone e Medea un corpus di lavori databili all’ultimo decennio di attività sembrerà reagire – quasi in estasi – alla pittura dei Carracci, mentre grazie ai lavori incentrati sull’ustione del rame, con un focus sul tema del desinare e del corpo scarnificato, l’artista tenterà uno stravolgimento cromatico della Sala degli allievi di Ludovico Carracci.
La stanza dipinta da Francesco Albani ospiterà una “camera delle meraviglie” di soggetti vegetali e animali, mentre la Sala delle Grottesche accoglierà l’affresco monumentale Malafonte che, in un gioco di perfette geometrie, sembra essere stato concepito da sempre per quello spazio.
Il percorso espositivo sarà inoltre arricchito dalla presenza di alcune opere individuate all’interno delle collezioni d’Arte e di Storia della Fondazione Carisbo (che comprendono anche il grande Giardino anatomico dello stesso artista), stabilendo una “affinità elettiva”, oltre che con gli spazi, con lo stesso patrimonio del Museo.
Nicola Samorì, A corde, 2019 | Courtesy Genus Bononiae. Musei nella città
Tra le opere in mostra la meravigliosa Maddalena Penitente del Canova e i suggestivi Ritratti di donne cieche di Annibale Carracci.
Rispetto alle imponenti opere del piano nobile, nelle sale del secondo piano saranno esposti lavori di piccolo e medio formato che svilupperanno singoli temi o costituiranno dei focus sulle diverse tecniche utilizzate dall’artista: l’accecamento dell’immagine, l’aggregazione di materiali di risulta, la pittura su pietra, il disegno e la scultura. Opere più intime, ma non meno preziose, che permettono allo spettatore di abbracciare la vasta e complessa produzione di Samorì, una ricerca ossessiva, quasi maniacale che gli ha permesso di differenziarsi dall’odierno panorama artistico, balzando agli onori della critica internazionale.
“Questa mostra antologica, la prima in Italia, vuol essere un riconoscimento alla carriera dell’artista, che si presenta al pubblico con un’esposizione ricca ed esauriente che abbraccia tutto il suo percorso creativo: un tentativo di mettersi a nudo di fronte alla storia dell’arte, che incombe dalle pareti stesse del palazzo. – spiega Fabio Roversi-Monaco, Presidente di Genus Bononiae. –
Penso che Samorì abbia tutto il carattere per reggere un dialogo tanto ambizioso e sono felice di accogliere a Palazzo Fava un giovane della nostra terra, che ha saputo imporsi sul piano internazionale. Le sue opere ci fanno riflettere ed emozionare, riscoprendo il valore taumaturgico dell’arte, di cui mai come oggi abbiamo bisogno”.
Artista tra i più originali della sua generazione e figura che ha saputo creare una versione eterodossa dell’arte, della storia e del tempo, Nicola Samorì ha all’attivo due partecipazioni alla Biennale di Venezia (2015 e 2011).
Negli ultimi anni, molti musei e spazi istituzionali italiani hanno ospitato sue personali, come il Mart di Trento e Rovereto (2020/21), la Fondazione Made in Cloister e il MANN Museo Archeologico Nazionale di Napoli (2020) e il Centro Arti Visive Pescheria di Pesaro (2017).
A queste si aggiungono ulteriori importanti personali all’estero, in spazi istituzionali come lo Yu-Hsiu Museum of Art di Taiwan, la Neue Galerie di Gladbeck, il Center for Contemporary Art di Szczecin e la Kunsthalle di Tübingen.
DA:
http://www.arte.it/calendario-arte/bologna/mostra-nicola-samor%C3%AC-sfregi-75133
Nicola Samorì (Forlì, 13 maggio 1977)
Nicola Samorì è nato nel 1977 a Forlì e si è diplomato all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Le sue opere, pitture, sculture e incisioni, hanno ricevuto prestigiosi riconoscimenti, come il premio Morandi (2002) e Michetti (2006), sono state esposte alla Biennale di Venezia nel 2011[2] e nel 2015.
Nel 2010, in occasione del centenario della nascita di Madre Teresa di Calcutta, è stato scelto dalla Fondazione Marilena Ferrari FMR-ART’È per creare le opere del volume Imago Christi, tirato in 750 esemplari, incentrate sul Discorso della Montagna tratto dal Vangelo secondo Matteo, ed una copia è stata donata a Papa Benedetto XVI.
Alcune opere dell’artista sono incluse nella Taylor Art Collection di Denver, Colorado.
Partendo dalla copia minuziosa delle opere di grandi maestri, in particolar modo del Cinquecento e del Seicento, dove dominano lo scontro tra luce ed ombra, Samorì le trasforma e reinterpreta con lo spirito turbato del nostro secolo. Con interventi violenti fora, gratta, spella letteralmente la pittura attraverso un gesto repentino o meticoloso, dando vita a nuove opere che affondano le loro radici nella tradizione della storia dell’arte per poi arrivare all’espressione del tormento con un linguaggio contemporaneo.
Dalla pittura su tavola o tela, all’affresco, l’artista romagnolo dipinge anche su superfici come rame e pietre dure, integrando le loro peculiarità materiche nelle proprie opere.
Mentre la pittura tende alla scultura, acquisendo una tridimensionalità data dal violento e ricercato disfacimento messo in atto dall’artista, parallelamente la scultura pare liquefarsi o scavarsi dall’interno, quasi cercando la smaterializzazione della materia e della forma stessa.
https://it.wikipedia.org/wiki/Nicola_Samor%C3%AC
Nicola Samorì Rapture, 2009, olio su tela, 300 x 200 cm
Mathieu Croisetière
Nicola Samorì JV, 2009, olio su tavola, 55 x 52 cm
Mathieu Croisetière
immagine da ” Quorum ”
da :
https://www.ravennanotizie.it/
Nicola Samorì: Ultima scena, 40x60cm
Ultima Scena, olio su tela applicata su tavola, omonimo nonché modello del grande dipinto – 190×350 cm – esposto lo scorso settembre/ottobre alla galleria EIGEN + ART di Berlino durante la personale In Abisso, mostra uno scenario oscuro e viscerale, un paesaggio che avvolge e apre alle profondità. Mi spiega Samorì:
“È un ritratto dello stretto di Messina, visto dalla Calabria al tramonto; due terre che si guardano senza incontrarsi, e che solo la macchinazione pittorica innescata obbliga alla compenetrazione. La pittura è letteralmente spremuta piegando la tela a metà in orizzontale e riaprendo con brutalità le due parti, azione che sposta densi strati di colore ad olio dalla parte bassa a quella alta e viceversa. Le nubi nere dipinte con cura si alternano a impronte nere che si sono aperte per caso. Brani di cielo affondano in acqua e brandelli di onde si sollevano in cielo. La versione monumentale di Ultima scena è stata dipinta su un telaio che ospitava una Ultima cena dell’artista cinese Minjun; come in molti altri casi nella mia opera, il titolo è il testimone di una sparizione”.
immagine e testo da :
Nicola Samorì da record: Ultima Scena (40×60 cm) battuto all’asta per 89 mila euro
da : https://befart.altervista.org/nicola-samori/
Nicola Samorì – Il Punto Acerbo
Nicola Samorì – Lienzo
Nicola Samorì – Lienzo
Nicola Samorì – Il Cavacarne
Nicola Samorì – Untitled
Sette immagini sopra da :
Nicola Samorì – 56° Biennale di Venezia
MCARTE
Pittura lingua viva. Intervista a Nicola Samorì
Damiano Gullì
12 aprile 2021
Nicola Samorì. Photo Michela Ravaglia
INTERVISTA A NICOLA SAMORÌ
Come ti sei avvicinato alla pittura?
È stata lei ad avvicinarsi a me, senza che me ne accorgessi. Dalla pittura si viene trovati, anche se dalla modernità in poi si è allungato l’elenco degli ostinati di genio. Con Cézanne, infatti, è iniziata una storia magistrale e feconda del desiderio non corrisposto.
Chi sono gli artisti e i maestri cui guardi?
La storia dell’arte è una miniera che scavo e saccheggio in ogni direzione. Mi interessano gli artisti “impossibili”, quelli che non riesco a decifrare del tutto. Ma solo due autori sono diventati ossessioni: José de Ribera e Mattia Moreni. Non sono i più grandi, ma si sono rivelati i più nutrienti per me.
Quanto la storia, la tradizione della pittura incidono sulle tue opere o nella scelta dei soggetti?
Credo che la pittura tutta, non solo la mia, parli sempre di pittura. Pensa e ripensa sé stessa. Il reale è solo una boccata d’aria per non soffocare negli avvitamenti della maniera.
La mostra Sfregi, a cura di Alberto Zanchetta e Chiara Stefani, a Palazzo Fava a Bologna mette in scena ottanta tuoi lavori che spaziano dagli esordi a quelli più recenti, dalle sculture ai dipinti. Come è articolato il percorso? E come è avvenuta la scelta di porre in dialogo determinate opere con quelle antiche già presenti nel Palazzo? Penso, ad esempio, al confronto con maestri quali i Carracci.
Ho composto tredici capitoli che convocano episodi rilevanti del mio lavoro apparsi negli ultimi diciassette anni, dal 2004 a oggi.
Il confronto con il preesistente è stato inevitabile perché a Palazzo Fava è in scena un assedio costante (centinaia di metri di fregi dipinti dai grandi della scuola bolognese del Cinquecento) a cui le immagini che vi transitano – non solo le mie – devono reagire. Lo spazio è stato letto con cura, cercando indizi e provocazioni, ma anche premonizioni, a partire dal segno beneaugurante che ha dato una svolta alla mostra: il mio dipinto più grande, Malafonte, di 515 x 380 centimetri, corrisponde esattamente alla larghezza della Sala delle grottesche, nella quale avevo pensato di inserirlo ancor prima di aver effettuato le misurazioni.
Nicola Samorì. Sfregi. Exhibition view at Palazzo Fava, Genus Bononiae. Musei nella Città, Bologna 2021. Photo Paolo Righi
LE IMMAGINI SECONDO SAMORÌ
Il titolo della personale è emblematico. Che rapporto hai con l’immagine? Arrivi a sfregiarla, scarnificarla, lacerarla, eroderla… Alludi anche a un “piacere talvolta perverso” nel farlo. E Alberto Zanchetta parla di una tua vera e propria “lotta contro le immagini”
…Sfregi introduce e cerca di capovolgere il luogo comune che vede nel mio lavoro un atto vandalico. La mia postura iconoclasta è solo un gesto appassionato di traduzione, perché la maggior parte delle immagini che ci sono state trasmesse per ritrovare sangue hanno bisogno di una catastrofe. Solo allora abbandonano la nicchia, mentale o architettonica, nella quale sono state de-poste. Cerco di mettere ansia alla pittura e per farlo ho bisogno di una immagine del corpo, di un simulacro da attaccare. Costruito l’idolo – intero oppure parziale –, inizio a manometterne l’integrità con una serie di dispositivi pittorici, in una oscillazione continua fra il sadico e il masochistico, una lotta che lascia tracce. È la forma della ferita che mi interessa, non solo l’infliggerla.
Ma al contempo collezioni e stratifichi tali immagini. Cosa rappresenta la Wunderkammer per te?
È un termine ricercato per non dire Sepolti in casa, come il titolo dell’omonimo docu-reality. Il mio studio credo ne abbia tutti i requisiti e anche i miei dipinti, persino quelli dove non troviamo altro che un indizio di figura, sono il risultato di ripetute sepolture. Dipingere è seppellire.
Le tue opere parlano anche di assenze, difetti, imperfezioni…
Mostrano rotture dell’integrità. Il fastidio di una superficie intonsa che si macchia e di una forma fragile che si spezza. Certe mie immagini non sono la celebrazione della rovina: sono rovina. Nel Rinascimento una vena nera disinnescava una scultura. Nei miei occhi la guida.
Figurazione e astrazione: dove finisce una e inizia l’altra?
Figurazione nel mio lavoro è la cura che accompagna il modellato, mentre astrazione è la collera che lo destabilizza portando in superficie il dentro dell’immagine. Più in generale direi che è una questione di presa di distanza dell’occhio dall’opera.
Dicevamo prima che ti confronti sia con la pittura sia con la scultura. La pittura è un fine o un mezzo per te?
Non me lo sono mai chiesto. Mezzo e fine in questo caso coincidono, perché se è vero che utilizzo pittura e scultura per fabbricare immagini, è altrettanto vero che con altri mezzi non avrei voglia di farlo.
Nicola Samorì. Sfregi. Exhibition view at Palazzo Fava, Genus Bononiae. Musei nella Città, Bologna 2021. Photo Paolo Righi
DISEGNO, MEMORIA E TECNICA
Il disegno che ruolo svolge nella tua pratica?
È il momento meraviglioso nel quale non mi sento obbligato a guardare qualcosa. Ho una spiccata attitudine mimetica e senza la verifica del modello la mia pittura e la mia scultura sono incerte. Viceversa il disegno perde mordente quando cerco con gli occhi una forma da replicare.
In generale, quanto conta il dato autobiografico?
Non saprei, credo che inevitabilmente qualcosa debba pur contare. Sono convinto che una mia fisima dipinta bene abbia più futuro di una pandemia fotografata male.
La memoria e il ricordo quale ruolo svolgono?
Mi perseguitano come vizi e nel corso degli anni hanno dato forma alla mia personalità, un compendio di abitudini e ricorrenze che potremmo chiamare stile.
Nel riproporre un corpus di lavori che abbraccia quasi vent’anni di carriera, ti sei posto la questione di come si sia trasformata la tua opera nel tempo?
Certo. Non è accaduto nulla, proprio nulla di significativo. L’ho capito girovagando per le stanze della mostra. Poiché in questo progetto non ho una produzione recente da difendere e quasi tutto appartiene al passato, riesco a scrutare con un certo distacco il mio lavoro e posso serenamente dire che alcune prove erano più ardimentose quindici anni fa e che la parte più discussa del mio lavoro (il segmento, per intenderci, “citazionista”) non è forse nemmeno il più rilevante.
La tecnica conta?
Ma certo, è fondamentale. Solo chi non la padroneggia è costretto a coprire la propria vergogna di continuo. Come dire che la bellezza non conta, che l’intonazione non conta. Ho la erre moscia e qualcuno la trova pure sensuale, ma udire la voce di Carmelo Bene è altra cosa, poche storie.
Mentre il colore che ruolo ha?
Ne parlai in una intervista con Alberto Zanchetta alcuni anni fa e, da allora, il mio pensiero non è cambiato, perciò cito me stesso: “Poche volte assistiamo alla pittura come fenomeno spontaneo, in Velázquez per esempio, o in Vermeer. Questi uomini si nutrivano di pigmenti e hanno inventato colori nuovi; sapevano disegnare con il colore. Agli altri, me compreso, non resta che fingersi camaleonti e morire intossicati”.
E luce vs oscurità?
Cerco sempre di fare dipinti luminosi, ma ogni volta cado nell’ombra, forse perché il buio è la condizione ultima delle cose, mentre la luce è solo un episodio temporaneo.
E la materia, invece?
La materia è l’ostacolo necessario per rallentare la fretta del pensiero e renderlo solido.
Nicola Samorì. Sfregi. Exhibition view at Palazzo Fava, Genus Bononiae. Musei nella Città, Bologna 2021. Photo Paolo Righi
LA PITTURA DI SAMORÌ
A proposito di fretta… La tua è una pittura lenta o veloce?
Veloce anche quando sembra lenta, perché mi riesce facile. Per questa ragione ho cercato stratagemmi per “sostenere un sentimento per mesi”, come diceva Philip Guston a proposito degli antichi maestri, cimentandomi in lavori monumentali che non possono essere risolti tutti d’un fiato. Oggi è difficile meditare un’opera a lungo perché il mercato incalza e ritirarsi in una zona d’ombra per mesi o per anni richiede moltissimo coraggio.
Quali formati prediligi?
Oscillo dalla miniatura al monumentale con disinvoltura, anche se negli ultimi anni cerco di sostare più a lungo sui dettagli perché ora ho un controllo del polso che, quando avrò l’età di mio padre, perderò. Per la pittura di gesto c’è tempo.
La musica, il cinema, la letteratura, la poesia arricchiscono o modellano i tuoi immaginari?
Poco o nulla. Nutrono il mio tempo, ma alle mie figure forse non interessano le mie letture e i miei ascolti. Basta che io riveda quel che facevo vent’anni fa, con una scorta di buone letture, buone visioni e buoni ascolti nettamente inferiore a oggi per capire che questi incontri sono serviti a ben poco. La logica della pittura e della scultura è qualcosa di sconcertante: le immagini mangiano le immagini e il resto è solo didascalia. Ci sono aspiranti pittori acutissimi, che trasudano erudizione, ma che quando incontrano un pennello hanno la stessa sicurezza che mi ritrovo io, che non guido, quando salgo in auto dalla parte del pilota. L’intelligenza e la cultura sembrano non attaccarsi ai pennelli.
Perché fare pittura oggi?
Forse per ricordarci che siamo umani, perché i tempi e i modi della pittura rispettano il nostro corpo più di quanto non lo facciano altre pratiche. Una volta la pittura era un mezzo efficace per evidenziare il valore dell’artista, una sorta di dimostrazione di padronanza di una lingua preclusa ai più. Oggi mi sembra uno strumento per misurare i propri limiti. Per molti la pittura è diventata una tenda di fortuna, quando una volta era una reggia. Ma la pittura è anche un po’ come il sangue di San Gennaro, che è secco, ma torna a liquefarsi in occasioni speciali, quando intorno alla reliquia vengono compiuti gesti che si tramandano da secoli.
Cosa pensi della scena della pittura italiana contemporanea?
Non penso a scene pittoriche: a me interessano i pittori. Non pensavo nemmeno ce ne fossero così tanti in Italia prima dell’avanzare, mese dopo mese, di questa rubrica. Davvero una selva. Nel centinaio di nomi interpellati io riconosco l’impossibile solo in Pessoli, in Giaconia, in Castelli e in Braida. Sono incerto su altri tre o quattro nomi. Per il resto vedo tanta pittura a risparmio energetico e tanti commentatori della pittura, che sanno di esserlo, ma non lo ammetteranno mai. E rilevo lacune importanti, che saranno senz’altro indagate in futuro.
‒ Damiano Gullì
UN BREVE ARTICOLI CON IMMAGINI INTERESSANTI SI TROVA NEL LINK ” IL QUORUM ” —
https://www.ilquorum.it/nicola-samori-bellezza-sfregiata/