11 Gennaio 2021
By Redazione Sito
https://unita.news/2021/01/11/contro-la-pena-di-morte/
Lisa Montgomery, 52 anni, è stata condannata a morte nel 2007 per un crimine efferato. Nel 2004 ha ucciso la 23enne Bobbie Jo Stinnett, incinta di otto mesi, le ha tagliato il grembo e ha portato via la neonata spacciandola per sua figlia.
È l’unica donna rinchiusa nel braccio della morte federale degli Stati Uniti. La sua esecuzione, che avrebbe dovuto aver luogo l’8 dicembre scorso, è stata sospesa perché i suoi legali, che hanno contratto il coronavirus durante i viaggi intrapresi per raggiungere la propria cliente, non sarebbero stati in grado di assisterla nella domanda di grazia. Randolph Moss, giudice della Corte federale distrettuale di Washington, ha accolto la richiesta di rinvio dei difensori e per Montgomery è stata fissata una nuova data in cui le sarà praticata l’iniezione letale: 12 gennaio 2021.
Se non ci saranno ulteriori sospensioni quella di Lisa Montgomery sarà la prima esecuzione federale di una donna dal 1953, quando Bonnie Brown Heady fu messa a morte nella camera a gas.
— Amnesty International USA (@amnestyusa) January 5, 2021
Montgomery ha alle spalle una lunga storia di abusi. Alla nascita le furono diagnosticati gravi danni cerebrali causati dall’assunzione di alcol da parte della madre nel corso della gravidanza. Da bambina e da adolescente è stata vittima di stupri di gruppo, tratta, maltrattamenti fisici e abbandono ma soprattutto di ripetute violenze sessuali da parte del patrigno.
La prima esperienza di abuso Montgomery l’ha vissuta indirettamente all’età di tre anni quando, mentre dormiva, ha assistito alla violenza subita dalla sorellastra Diane, di otto anni, per mano del babysitter.
Aveva solo 11 anni quando il compagno alcolizzato della madre ha iniziato a violentarla e a tenerla prigioniera in isolamento per quattro anni, invitando talvolta i suoi amici a violenze di gruppo.
Il giorno in cui Judy, la madre, è entrata per caso nella stanza mentre la figlia veniva aggredita dal patrigno, ha afferrato una pistola e puntandola alla tempia della bambina ha urlato: “Come hai potuto farmi questo?”.
Tutte le volte che erano necessari lavori di manutenzione in casa la madre “vendeva” il corpo della figlia per pagarne le spese.
La sconvolgente serie di abusi subiti ha portato Montgomery a sviluppare gravi disturbi mentali, tra cui psicosi e allucinazioni, per i quali le vengono somministrati farmaci antipsicotici, antiepilettici e antidepressivi.
È questa la storia della donna che l’amministrazione Trump intende mettere a morte perché ritiene che il carcere a vita non basti considerandola “la peggiore tra i peggiori” criminali ai quali, secondo quanto espresso dalla Corte suprema nel 1976 nella sentenza Gregg v. Georgia, va applicata la pena di morte.
Da quando, il 16 ottobre, le è stato comunicato che sarebbe stata uccisa con iniezione letale Montgomery si trova in isolamento, sotto costante osservazione, perché si teme possa suicidarsi.
Il 24 dicembre il giudice Moss ha informato i legali di Lisa Montgomery e il Dipartimento di Giustizia di aver annullato la decisione presa dal direttore del dipartimento carcerario di fissare l’esecuzione della donna il 12 gennaio. Ma l’1 gennaio con un’ordinanza accolta con entusiasmo dal Dipartimento di Giustizia, una corte d’appello degli Stati Uniti ha riaperto la strada verso l’iniezione letale. Chi, però, ha analizzato a fondo la vita della donna, senza negare che abbia commesso un crimine spaventoso, si è fatto un’opinione diversa.
«Questa è la storia di una donna profondamente malata di mente a causa di una vita fatta di torture e violenze sessuali», ha dichiarato al Guardian Sandra Babcock, fondatrice e direttrice del Cornell Center on the Death Penalty Worldwide della Cornell Law School e consulente del team legale di Montgomery. «Lisa non è la peggiore tra i peggiori assassini. È la più distrutta tra le persone distrutte».
A favore della donna si è schierata una coalizione – formata da 43 pubblici ministeri in attività e in pensione, 800 associazioni e attivisti impegnati contro la violenza sulle donne, 100 organizzazioni e attivisti che combattono la tratta di esseri umani, 40 avvocati di minori, 80 ex detenute, insieme a organizzazioni che tutelano la salute mentale come National Alliance on Mental Illness, Mental Health America e Treatment Advocacy Center – che ha chiesto al presidente Trump di fermare l’esecuzione.
Se Lisa Montgomery verrà uccisa con iniezione letale l’amministrazione americana ancora in carica conquisterà l’ennesimo primato, oltre a quelli già raggiunti grazie alla ripresa delle esecuzioni federali voluta dal presidente Donald Trump che pur di portarle a compimento ha chiesto e ottenuto dal Dipartimento di Giustizia il ripristino della camera a gas e del plotone di esecuzione a causa delle poche scorte di medicinali necessari per l’iniezione letale.
Nel 2020, per la prima volta nella storia, per esempio, il governo degli Stati Uniti ha effettuato più esecuzioni di tutti gli Stati americani – tra quelli che ancora eseguono condanne a morte – messi insieme.
Dal 14 luglio ad oggi hanno avuto luogo dieci esecuzioni federali a fronte delle sette effettuate: in Texas (3), Alabama (1), Georgia (1), Missouri (1), Tennessee (1) nell’arco del 2020, prima del blocco causato dalla pandemia di COVID-19.
Nel 2019 le esecuzioni avvenute negli Stati Uniti erano state 22.
Tutti i detenuti messi a morte nel 2020 avevano 21 anni, se non meno, quando hanno commesso il reato per il quale sono stati condannati alla pena capitale e uno o più problemi relativi a malattie mentali, lesioni cerebrali, danni cerebrali dello sviluppo o ritardo mentale, gravi traumi infantili, abbandono e/o abusi.
Le esecuzioni di persone con disabilità mentali e intellettive sono state portate avanti nonostante violino il diritto e gli standard internazionali.
Era dal 2003 che negli Stati Uniti non si registrava una esecuzione federale nel penitenziario di Terre Haute, in Indiana, che dal 1993 è il luogo scelto per praticare le iniezioni letali. Uno stop durato 17 anni, interrotto il 14 luglio dall’esecuzione di Daniel Lewis Lee, un suprematista bianco che nel 1996 ha ucciso tre membri di una famiglia di origine ebraica.
Nei sei mesi successivi alla morte di Lee un susseguirsi di record ha caratterizzato la scelta di Donald Trump di eseguire, nell’ultimo periodo della sua presidenza, un numero di condanne a morte straordinariamente elevato. Le dieci esecuzioni federali avvenute da luglio a dicembre 2020 hanno incluso, infatti, il primo nativo americano (Lezmond Mitchell) messo a morte dal governo per l’omicidio di un membro del suo stesso gruppo, ignorando la sovranità tribale che consente forme alternative di punizione; le prime esecuzioni federali, dopo 68 anni, di condannati a morte adolescenti al momento del reato (Christopher Vialva e Brandon Bernard); la prima esecuzione federale in 57 anni per un crimine commesso in uno Stato che ha abolito la pena di morte, l’Iowa (Dustin Honken); le prime esecuzioni, dopo più di un secolo, nel periodo di transizione da una presidenza all’altra.
In alcuni casi le esecuzioni sono state effettuate nonostante familiari delle vittime, pubblici ministeri e anche uno dei giudici che avevano presieduto il processo fossero contrari.
Mentre nei singoli Stati americani la pandemia ha spinto le amministrazioni a sospendere le uccisioni dei condannati a morte, le procedure federali sono andate avanti e hanno creato focolai di COVID-19 costringendo il personale addetto alle esecuzioni e quello alla sicurezza (oltre ad avvocati, media, religiosi e altre persone coinvolte) a dover stare a stretto contatto, contagiandosi, per non bloccare la macchina della morte, come spiegato nel rapporto 2020 del Death Penalty Information Center (DPIC), un’organizzazione nazionale americana no-profit che raccoglie e analizza dati sulla pena capitale.
Come descritto in una dichiarazione rilasciata dalla American Civil Liberties Union (ACLU), durante i preparativi della prima esecuzione federale del 14 luglio, un impiegato della prigione risultato positivo al COVID-19 ha continuato a lavorare senza indossare la mascherina. Ciononostante il dipartimento carcerario non ha effettuato alcun tracciamento dei contatti per identificare le persone a rischio di esposizione.
All’inizio del mese di luglio, due settimane prima dell’inizio delle esecuzioni federali, erano undici le persone risultate positive all’interno del penitenziario di Terre Haute. A settembre, due mesi e mezzo dopo, i positivi erano diventati 206, ma si teme che il numero reale fosse più alto a causa dei pochi tamponi disponibili. Nel carcere sono morte, a causa del coronavirus, almeno tre persone e numerosi altri detenuti sono stati ospedalizzati. Otto dipendenti in servizio durante l’esecuzione di Orlando Hall, avvenuta il 19 novembre, e Yusuf Ahmed Nur, suo consigliere spirituale, hanno contratto la malattia assistendo o partecipando alla procedura dell’iniezione letale.
«Nel 2020 sempre più Stati e contee si sono mossi per porre fine o ridurre l’applicazione della pena di morte. È stato inflitto il numero di condanne a morte più basso dalla reintroduzione della pena capitale negli anni ’70 e gli Stati hanno effettuato il minor numero di esecuzioni degli ultimi 37 anni. Quello che sta accadendo nel paese dimostra che le politiche dell’amministrazione federale non sono al passo non soltanto con i comportamenti assunti dai presidenti precedenti ma anche con le procedure statali vigenti», ha dichiarato Robert Dunham, direttore esecutivo del DPIC.
L’uso aberrante della pena di morte da parte del governo federale è infatti in netta controtendenza con l’andamento nazionale che vede gli Stati americani allontanarsi sempre di più da questa punizione estrema.
Con l’abolizione della pena di morte da parte del Colorado a marzo 2020, sono saliti a 22 gli Stati che hanno eliminato questa pratica nella propria legislazione. Nel 2020 sia Louisiana che Utah hanno raggiunto i 10 anni senza aver effettuato esecuzioni, portando a 34 il numero di Stati che hanno messo fine alla pena capitale o che non registrano esecuzioni da almeno un decennio.
Solo sette Stati – Arizona, California, Florida, Mississippi, Ohio, Oklahoma e Texas – hanno comminato condanne a morte nel 2020 e soltanto tre – California, Florida e Texas – ne hanno inflitta più di una.
Anche il sostegno popolare alla pena di morte da parte dell’opinione pubblica americana continua a diminuire. Secondo il sondaggio annuale condotto dalla Gallup, il 43% degli intervistati si è schierato contro la pena di morte raggiungendo la percentuale più alta dal 1966, mentre quella a favore (55%) è tra le più basse degli ultimi 48 anni (uguagliando il dato espresso nel 2017).
I candidati che hanno promesso nelle rispettive campagne elettorali riforme sistemiche – tra cui l’uso circoscritto a circostanze straordinarie o l’abbandono della pena di morte – sono stati nominati procuratori in diverse giurisdizioni dove storicamente viene emesso un gran numero di condanne a morte: contea di Los Angeles (California), contea di Travis (Austin, Texas), contee di Orange e Osceola (Orlando, Florida) e contea di Franklin (Columbus, Ohio).
Nel 2020 cinque persone sono uscite dai bracci della morte statunitensi perché innocenti, portando a 172 il numero di detenuti scagionati dal 1973.
In tutti e cinque i casi, la scorrettezza procedurale – corroborata da false accuse, “scienza spazzatura” (termine usato nelle controversie politiche e legali negli Stati Uniti, per indicare dati scientifici, di ricerca o di analisi giudicati falsi o tendenziosi), identificazione errata dei testimoni oculari e difesa legale inadeguata – ha contribuito in maniera significativa all’emissione di una condanna ingiusta.
Il 14 settembre 2020 Robert DuBoise è diventato ufficialmente il 172esimo detenuto liberato dai bracci della morte americani dopo essere stato prosciolto dalle accuse di stupro e omicidio di una giovane donna a Tampa, in Florida, avvenuti nel 1983. DuBoise è stato rilasciato il 27 agosto dello scorso anno dopo che un test del DNA ha confermato l’incompatibilità con il campione ritrovato sulla vittima che si pensava fosse andato distrutto.
DuBoise è stato rinchiuso nel braccio della morte per quasi 37 anni.
«Aspetto questo giorno da quasi 37 anni – ha dichiarato l’uomo al momento del rilascio – Ho sempre saputo che il DNA avrebbe provato la mia innocenza e speravo che le prove potessero essere trovate non solo per me, ma anche per la mia famiglia. Spero che la mia storia aiuti tanti altri a continuare a combattere per dimostrare la propria innocenza. Non posso recuperare gli anni che ho perso, ma cercherò di ricostruire la mia vita con la mia famiglia. Non sarà facile. Sono grato che la mia voce sia stata ascoltata e che la verità sia emersa».
Uno studio pubblicato nel 2014 dalla rivista scientifica statunitense Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America (PNAS) ha indicato che almeno il 4,1% dei condannati a morte negli Stati Uniti è innocente. Con più di 2.700 americani rinchiusi nei bracci della morte, ciò significherebbe che più di 110 persone innocenti sono in attesa di esecuzione.
Contro le esecuzioni federali volute da Trump e dalla sua amministrazione durante il periodo di transizione, si sono schierati otto senatori democratici che hanno chiesto, in una lettera inviata il 21 dicembre scorso all’Ispettore generale del Dipartimento di Giustizia, Michael E. Horowitz, l’apertura di un’indagine.
Nella lettera gli otto senatori – Cory Booker, Sherrod Brown, Richard J. Durbin, Amy Klobuchar, Edward J. Markey, Bernie Sanders, Chris Van Hollen, Elizabeth Warren – hanno espresso forte preoccupazione sulla correttezza con cui l’amministrazione Trump emette ed esegue le condanne a morte, temendo inoltre che le procedure di esecuzione possano causare sofferenze non necessarie ai condannati a morte ed esprimendo dubbi sulla necessità di procedere ad ogni costo nonostante l’attuale pandemia esponga a grave rischio di salute tutte le persone in qualche maniera coinvolte.
Nel documento, inoltre, gli otto richiedenti sottolineano come la corsa alle esecuzioni rappresenti un’eccezione nella storia statunitense a maggior ragione perché il presidente eletto degli Stati Uniti, Joseph R. Biden Jr., ha già espresso di voler porre fine all’uso della pena di morte federale e di voler invitare i singoli Stati a fare altrettanto nel corso del suo mandato.
Nonostante nel 1994, quando ricopriva la carica di senatore del Delaware, Biden sia stato uno dei principali artefici della legge sul crimine firmata dal presidente Bill Clinton (The Violent Crime Control and Law Enforcement Act conosciuto come Crime Bill) che ha ampliato i reati per i quali si può essere condannati a morte a livello federale, due mesi fa, nel corso di un’assemblea cittadina, a Filadelfia, il prossimo inquilino della Casa Bianca l’ha definita pubblicamente “un errore”.
Sulla pena capitale, il 25 luglio 2019, durante la campagna elettorale, in un tweet, Biden ha esplicitamente detto – commentando l’annuncio dell’ex procuratore federale William Barr della ripresa delle esecuzioni federali – che poiché la salvezza di condannati a morte innocenti non può essere sempre garantita la pena di morte va eliminata.
Il 15 dicembre scorso quaranta membri del Congresso e tre parlamentari eletti hanno chiesto pubblicamente a Biden di porre fine alla pena di morte federale fin dal primo giorno in cui entrerà in carica.
“L’attuale amministrazione ha utilizzato come arma la pena capitale con disprezzo spietato per la vita umana. Nel bel mezzo di una emergenza sanitaria, il Dipartimento di Giustizia ha ripreso le esecuzioni federali e messo a morte in sei mesi più persone rispetto al numero totale di quelle messe a morte negli ultimi sei decenni”, si legge nel documento che ha come prima firmataria la deputata democratica del Massachusetts Ayanna Pressley e che è stato sottoscritto – come raccontato da CNN – da esponenti del mondo dello spettacolo, politici di entrambi gli schieramenti e oppositori della pena di morte.
Il 25 luglio 2019 Pressley ha presentato una proposta di legge per porre fine alla pena capitale federale e chiedere l’emissione di una nuova sentenza per chi si trova attualmente nel braccio della morte di Terre Haute. Il disegno di legge è bloccato alla Camera dall’agosto 2019.
Se uno degli ultimi atti della presidenza di Donald Trump sarà mettere a morte Lisa Montgomery e il 14 e il 15 gennaio rispettivamente Corey Johnson e Dustin Higgs, il magnate statunitense concluderà il suo mandato così come ha iniziato la sua ascesa politica: in nome della pena di morte.
Era il 1989, quando acquistò un’intera pagina di quattro giornali di New York, incluso il New York Times, per chiedere di comminare la pena di morte a cinque ragazzi fra i 14 e i 16 anni (quattro afroamericani e uno ispanico divenuti famosi con il nome di “Central Park Five”) accusati ingiustamente di aver aggredito e stuprato una giovane donna, Trisha Meili, mentre faceva jogging a Central Park. I cinque ragazzi, che hanno raccontato di essere stati costretti a confessare perché obbligati dalla polizia, sono stati poi scagionati nel 2002 grazie alla confessione dell’autore del crimine.
Ciononostante, durante il suo mandato, sollecitato dalle domande dei giornalisti Trump non ha mai chiesto scusa per aver chiesto l’applicazione della pena di morte ribadendo che i cinque avevano confessato di aver commesso il reato.
” RIAMMETTI LA PENA DI MORTE. RIPORTA IN AUGE LA NOSTRA POLIZIA ”
Pena di morte e razzismo negli USA
Studi dimostrano che l’origine etnica, soprattutto quella della vittima, ha un peso nella decisione su chi condannare a morte.
Secondo un rapporto pubblicato il 15 settembre 2020 dal Death Penalty Information Center (DPIC) gli afroamericani sono sovrarappresentati nei bracci della morte statunitensi e gli assassini di persone di colore hanno meno probabilità di essere condannati a morte rispetto a quelle che uccidono bianchi.
Il rapporto – come riporta Associated Press – è una lezione di storia su come i linciaggi e le esecuzioni sono stati usati in America e su come la discriminazione permei l’intero sistema di giustizia penale.
Da quando la pena di morte è stata ripristinata nel 1977, 295 imputati neri sono stati messi a morte per aver ucciso una vittima bianca e solo 21 imputati bianchi sono stati messi a morte per l’uccisione di una vittima nera.
«Nell’intera storia degli Stati Uniti la pena di morte è stata utilizzata per rafforzare le gerarchie razziali, a partire dal periodo coloniale ad oggi», ha dichiarato Ngozi Ndulue, direttrice senior della ricerca e dei progetti speciali del DPIC e autrice del rapporto. «La sua presenza discriminatoria come massima punizione nel sistema legale americano legittima tutte le altre pene dure e discriminatorie. Questo è il motivo per cui la pena di morte deve far parte di qualsiasi discussione sulla riforma della polizia, sulla responsabilità dei pubblici ministeri, sull’annullamento delle carcerazioni di massa e sul sistema giudiziario penale nel suo insieme».
«Le disparità razziali sono presenti in ogni fase di un caso di pena capitale e aumentano nel corso dello svolgimento del processo», ha detto Robert Dunham, che ha redatto il rapporto. «Se non conosci la storia, e quindi che la pena di morte è la diretta discendente della schiavitù, del linciaggio e della segregazione delle leggi di Jim Crow, non capirai il motivo. Con le continue uccisioni da parte della polizia e dei vigilanti bianchi di cittadini neri, è ancora più importante adesso focalizzare l’attenzione sul ruolo enorme che la pena di morte gioca perché determina e convalida la discriminazione razziale. Ciò che non funziona o è intenzionalmente discriminatorio nel sistema giudiziario penale è visibilmente peggiore nei casi di pena di morte. Denunciare come il sistema discrimini nei casi capitali può gettare una luce importante sull’applicazione della legge e sulle pratiche giudiziarie che necessitano di essere abolite, rinnovate o riformate».
Nel rapporto si legge, quindi, come la pena di morte negli Stati Uniti sia stata storicamente usata come strumento di controllo sociale. Durante la schiavitù, la pena capitale era un mezzo per controllare i neri e domarne le ribellioni. Dopo la guerra civile, i funzionari pubblici hanno promesso di effettuare esecuzioni legali per scoraggiare i linciaggi. Con la diminuzione dei linciaggi all’inizio del XX secolo, le esecuzioni hanno cominciato a prendere il loro posto. In tutto il sud, uomini afroamericani venivano condannati e messi a morte per presunto stupro o tentato stupro di donne o ragazze bianche. Nessun bianco, invece, risulta sia mai stato messo a morte per aver violentato una donna o una ragazza nera.
Il pregiudizio razziale persiste ed è testimoniato dal maggior numero di casi in cui viene applicata la pena di morte quando le vittime sono bianche, dall’esclusione sistemica dei giurati di colore nei processi capitali e dall’imposizione sproporzionata di condanne a morte contro imputati di colore.
Il costo della pena capitale negli Stati Uniti d’America
La pena capitale è molto più costosa dell’ergastolo. A confermarlo varie analisi condotte in più Stati americani. Le udienze preliminari, la selezione della giuria e gli appelli hanno un costo maggiore nei casi capitali, così come la reclusione nei bracci della morte.
Uno studio del 2017 condotto da diversi criminologi ha rilevato che in media ogni condanna a morte in Oklahoma costa ai contribuenti americani 700.000 dollari in più dell’ergastolo. “È un dato di fatto che chiedere la pena di morte sia più costoso”, conclude la ricerca. “Non esiste uno studio credibile, per quanto ne sappiamo, che dimostri il contrario”.
Nel 2014, in Tennessee, è stato determinato che i processi capitali costano in media il 48% in più rispetto al costo medio dei processi in cui i pubblici ministeri chiedono l’ergastolo.
In California un rapporto della Commissione sulla corretta amministrazione della giustizia ha calcolato, nel 2008, che il sistema di giustizia penale costava al paese 137 milioni di dollari all’anno a fronte degli 11,5 milioni di dollari che sarebbe costato senza la pena di morte.
Nel Maryland uno studio del 2008 ha appurato che mediamente, nel periodo dal 1978 al 1999, i casi in cui i pubblici ministeri non hanno chiesto di comminare la pena di morte sono costati in media circa 1,1 milioni di dollari. Quelli in cui i pubblici ministeri hanno chiesto senza ottenerla la pena capitale sono costati 1,8 milioni di dollari mentre i casi in cui è stata chiesta e ottenuta una condanna a morte sono costati circa 3 milioni di dollari.
Un’analisi effettuata dallo Stato del Kansas nel 2003 ha rilevato che il costo stimato di un caso di pena di morte è del 70% superiore rispetto a quello di un caso non capitale. I costi del caso che prevede la pena di morte come condanna sono stati conteggiati fino all’esecuzione (costo medio 1,26 milioni di dollari). Quelli relativi a un caso non capitale sono stati calcolati fino alla fine della detenzione (costo medio 740.000 dollari).
Per poter far fronte alle spese dei casi capitali il sistema giudiziario penale sottrae così risorse che potrebbero aiutare a prevenire il crimine e che potrebbero essere destinate al trattamento della salute mentale, all’istruzione e alla riabilitazione, a programmi per minori, per tossicodipendenti, al sostegno dei familiari delle vittime dei reati.
Pena di morte e deterrenza
Negli Stati Uniti il tasso di omicidi è inferiore in quegli Stati che non hanno la pena di morte rispetto a quelli che la prevedono. Alcune giurisdizioni che l’hanno periodicamente vietata e poi ripristinata, hanno rilevato che la variazione non ha portato ad alcun aumento o decremento degli omicidi.
Il 18 aprile 2012, il Consiglio Nazionale della Ricerca (NRC) degli Stati Uniti ha pubblicato il documento “Deterrenza e pena di morte”, un rapporto basato su un’analisi di oltre trent’anni di ricerca che ha concluso che gli studi che rivendicano un effetto deterrente della pena di morte sono sostanzialmente sbagliati.
Secondo il rapporto le ricerche condotte sull’effetto della pena capitale sui tassi di omicidio non forniscono informazioni sufficienti a confermare che la pena capitale diminuisca, aumenti o non abbia alcun effetto. Pertanto, il Consiglio ha raccomandato che questi studi non siano utilizzati come fonte per assumere decisioni che richiedano giudizi sull’effetto che la pena di morte ha sugli omicidi.
Il criminologo Daniel Nagin della Carnegie Mellon, che ha presieduto il gruppo di esperti che ha lavorato al rapporto, ha dichiarato: “Ci rendiamo conto che questa conclusione sarà controversa per alcuni, ma a nessuno giova trarre vantaggio da affermazioni infondate sulla pena di morte. Non si sa come i potenziali assassini percepiscano effettivamente il rischio di essere puniti”.
Il rapporto ha rilevato tre falle fondamentali sugli studi condotti sulla deterrenza: non tengono conto degli effetti derivanti da punizioni non capitali che potrebbero essere imposte, utilizzano modelli incompleti o improbabili della percezione e della risposta dei potenziali assassini sull’uso della pena capitale, basano le stime dell’effetto della pena capitale su modelli statistici che formulano ipotesi non credibili.
Alla stessa conclusione è giunta la Commissione sulla Prevenzione del Crimine e la Giustizia Penale delle Nazioni Unite, dopo uno studio condotto nel 1988 e aggiornato nel 1996 e nel 2002, che ha esaminato un ampio gruppo di ricerche sulla relazione tra i cambiamenti nell’uso della pena di morte e i tassi di criminalità e che ha concluso che la ricerca non è riuscita a fornire prove scientifiche che la pena di morte abbia una funzione deterrente più efficace rispetto all’ergastolo (e che è improbabile che una prova simile sia mai disponibile) per cui l’insieme delle evidenze non fornisce alcun supporto certo all’ipotesi della deterrenza.
Come riporta Amnesty International, dati recenti sui reati commessi nelle nazioni abolizioniste non mostrano alcun effetto dannoso legato all’abolizione della pena di morte. In Canada, per esempio, il tasso di omicidi ogni 100.000 abitanti è caduto da un picco di 3,09 nel 1975, un anno prima dell’abolizione della pena di morte per omicidio, a 2,41 nel 1980, e da allora è ulteriormente diminuito. Nel 2003, 27 anni dopo l’abolizione, il tasso di omicidi era di 1,73 ogni 100.000 abitanti, il 44% in meno del 1975 e il più basso raggiunto in trent’anni. Benché sia poi cresciuto fino a 2,0 nel 2005, rimane più di un terzo più basso di quando la pena di morte è stata abolita.
Non è corretto, quindi, assumere che le persone che commettono crimini gravi come l’omicidio lo facciano dopo aver razionalmente valutato le conseguenze. Spesso gli omicidi vengono commessi in momenti in cui l’emozione ha il sopravvento sulla ragione o sotto l’influenza di droghe o alcol. Alcune persone che commettono crimini violenti soffrono di disturbi mentali o presentano comunque una certa instabilità psicologica. Amnesty International ha rilevato che almeno uno ogni 10 prigionieri messi a morte negli USA dal 1977 ha sofferto di gravi disturbi mentali che lo rendevano incapace di capire razionalmente la condanna a morte, le sue cause o le sue implicazioni.
In nessun caso, quindi, ci si può aspettare che la paura della pena di morte faccia da deterrente. Chi commette con premeditazione un reato grave, può decidere di farlo nonostante i rischi, nell’idea di non essere preso.
Un altro studio del 2012, pubblicato dall’American Economic Review, non ha rilevato alcun effetto deterrente chiaro osservando che, a seconda del modello statistico utilizzato, si poteva concludere che ogni esecuzione avrebbe potuto salvare 21 vite o provocare 63 omicidi.
Un sondaggio condotto nel 2008 dall’Università del Colorado ha dimostrato che solo il 5,3% dei criminologi intervistati credeva nella funzione deterrente della pena capitale, mentre l’88,2% era contrario. Gli esperti intervistati hanno convenuto che i dibattiti sulla pena di morte distraggono i legislatori dalle politiche che effettivamente potrebbero contribuire a ridurre la criminalità.
In uno studio intitolato “Esecuzioni, deterrenza e omicidio: il racconto di due città” pubblicato nel 2010 i docenti universitari Franklin E. Zimring, Jeffrey Fagan e David T. Johnson hanno messo a confronto i tassi di omicidio di due città abbastanza simili come Singapore e Hong Kong con rischi di essere messi a morte molto diversi.
Singapore che aveva un tasso di esecuzione quasi pari a uno su un milione all’anno, nel biennio 1994-1995 ha subito un’impennata aumentando di venti volte la percentuale fino a toccare nel 1996 un livello tra più alti del mondo. Nei successivi undici anni le esecuzioni sono diminuite di circa il 95%.
L’ultima esecuzione a Hong Kong, invece, è avvenuta nel 1966 e la pena di morte è stata abolita nel 1993.
Dal 1973 al 2008, senza tener conto dell’aumento delle esecuzioni a Singapore e del successivo forte calo, i livelli e le tendenze degli omicidi delle due città sono molto simili.
Mettendo a confronto i dati delle due metropoli – molto somiglianti per economia, demografia, alfabetizzazione, crescita e densità della popolazione e senza grosse differenze nei tassi di omicidi – si è dimostrato quindi quanto gli studi condotti a favore dell’efficacia della deterrenza della pena di morte non siano propriamente attendibili mettendo in discussione le conclusioni di una ricerca del 2005 di due professori di Harvard (Cass Sunsteine e Adrian Vermeule) secondo cui la pena di morte non è solo ragionevole, ma è “moralmente richiesta”.
Pena di morte nel mondo nel 2020
Più della metà dei paesi ha abolito la pena di morte di diritto o de facto. Secondo gli ultimi dati forniti da Amnesty International 106 paesi hanno abolito la pena di morte per tutti i reati e 142 sono quelli che l’hanno abolita nella legge o nella pratica. 56 paesi mantengono in vigore la pena capitale, ma quelli che eseguono condanne a morte sono assai di meno. Quando nel 1977 Amnesty International partecipò alla Conferenza internazionale sulla pena di morte a Stoccolma, i paesi abolizionisti erano 16 (otto in Europa e altrettanti nelle Americhe).
Giappone
Nel 2020, per la prima volta negli ultimi nove anni, non sono state effettuate esecuzioni che hanno sempre avuto luogo ogni anno – eccetto il 2011 – da quando la pena di morte è stata ripristinata nel 1993, dopo una pausa di quasi tre anni e mezzo.
In Giappone l’intero sistema della pena capitale è avvolto dal segreto. I prigionieri vengono informati poche ore prima dell’esecuzione – che avviene per impiccagione – a volte addirittura non vi è preavviso. I familiari apprendono della morte del proprio congiunto a esecuzione avvenuta.
Attualmente sono reclusi nei bracci della morte del paese 110 detenuti. Tra essi c’è Iwao Hakamada, 84 anni, che dopo aver vissuto 46 anni di reclusione diventando il prigioniero che ha scontato il più elevato numero di anni nei bracci della morte del Giappone, è stato rilasciato all’indomani di una decisione di un tribunale che gli ha concesso un nuovo processo per un caso di omicidio avvenuto nel 1966. Il pronunciamento è stato successivamente revocato e la difesa ha presentato ricorso alla Corte suprema che ha rinviato il caso all’Alta corte.
Iran
Come l’anno precedente nel 2020 l’Iran conferma la presenza nei primi posti dei paesi che mettono maggiormente a morte (lo scorso anno con almeno 251 esecuzioni era secondo solo alla Cina e precedeva – nell’ordine – Arabia Saudita, Iraq, Egitto e Stati Uniti).
Oltre al reato di omicidio, la pena di morte è prevista per vari altri crimini tra cui quelli legati alla droga ma è anche utilizzata per reprimere il dissenso.
Grande clamore ha suscitato il caso del giornalista Ruhollah Zam, impiccato il 12 dicembre 2020, fuggito in Francia dall’Iran, dopo le proteste scatenate all’indomani delle elezioni del 2009, e poi rapito nel 2019 mentre si trovava in Iraq per circostanze ignote.
A giugno 2020, dopo un processo gravemente iniquo iniziato a febbraio, il giornalista era stato condannato a morte dalla Sezione 15 del tribunale rivoluzionario di Teheran per “diffusione della corruzione sulla terra” a causa delle notizie condivise sul canale Telegram AmadNews che aveva fondato e attraverso il quale, secondo le autorità, aveva fomentato le manifestazioni di piazza del 2017 e 2018 contro il carovita.
Forte preoccupazione continua a destare anche in Italia, dove ha insegnato presso l’Università del Piemonte Orientale di Novara, il caso di Ahmadreza Djalali, ricercatore esperto di Medicina dei disastri e assistenza umanitaria che rischia di essere impiccato da un momento all’altro.
Djalali si trovava in viaggio d’affari in Iran quando è stato arrestato dai funzionari del Ministero dell’Intelligence nell’aprile del 2016.
Secondo le informazioni fornite da Amnesty International Djalali, scienziato di origini iraniane ma residente in Svezia, è stato condannato a morte e a pagare 200.000 euro di multa per “corruzione sulla terra” dopo un processo gravemente iniquo davanti alla sezione 15 della Corte Rivoluzionaria di Teheran.
Il verdetto della corte ha affermato che Ahmedreza Djalali ha lavorato come spia per Israele nel 2000. Secondo uno dei suoi avvocati, il tribunale non ha fornito alcuna prova per giustificare tali accuse.
L’uomo, al quale viene negato ogni contatto con i familiari, ha urgente bisogno di cure mediche specialistiche. Tre diversi esami del sangue hanno indicato che ha un numero basso di globuli bianchi. Un medico che ha controllato il suo stato di salute in carcere all’inizio del 2019 ha detto che deve essere visitato da medici specializzati in ematologia e oncologia in un ospedale fuori dalla prigione. Ad oggi, le autorità non lo hanno portato in ospedale per le cure mediche di cui ha bisogno. Dal suo arresto il 26 aprile 2016, ha perso 24 chili e attualmente pesa 51 chili.
Nel 2020 l’Iran è stato l’unico Stato al mondo ad aver eseguito condanne a morte di minorenni contravvenendo al diritto internazionale che proibisce severamente il ricorso alla pena di morte in queste circostanze. In quanto stato parte della Convenzione sui diritti dell’infanzia e del Patto internazionale sui diritti civili e politici, l’Iran è vincolato a trattare ogni persona con età inferiore ai 18 anni come un minorenne e ad assicurare che questi non sia soggetto alla pena capitale.
In base al Codice penale islamico iraniano, i ragazzi di età superiore ai 15 anni lunari e le ragazze di età superiore ai nove anni lunari condannati per omicidio e per alcuni altri reati capitali possono essere condannati a morte come gli adulti. Tuttavia, la legge conferisce discrezione ai giudici di sostituire la pena di morte con una pena alternativa se ci sono dubbi sulla piena “maturità” dell’individuo al momento del reato.
Arabia Saudita
Nel 2019, come indicato dal Rapporto annuale sulla pena di morte di Amnesty International, l’Arabia Saudita ha messo a morte 184 persone (di cui sei minorenni al momento del reato) toccando il valore più alto mai registrato in un anno nel paese.
Dopo aver emesso ad aprile 2020 un decreto sull’abolizione della pena di morte per i minorenni, le autorità saudite stanno valutando la possibilità di mettere fine all’uso della pena capitale per reati legati alla droga, un cambiamento che potrebbe risparmiare la vita a decine di prigionieri.
L’iniziativa punterebbe a contrastare l’indignazione suscitata a livello internazionale per il mancato rispetto dei diritti umani nel regno, incluse le esecuzioni di massa. Come riportato da Washington Post le conseguenze della rimozione dei crimini di droga dall’elenco dei reati capitali potrebbero essere significative: secondo Reprieve, un’organizzazione no profit che opera in difesa dei diritti umani, quasi il 40% delle circa 800 condanne a morte effettuate in Arabia Saudita negli ultimi cinque anni sono state comminate per reati come il traffico di stupefacenti.
Un funzionario saudita ha affermato che il regno è in procinto di rivedere le sanzioni per crimini legati alla droga e che una decisione di “abolire” la pena capitale per reati di droga è “attesa molto presto”.
Bielorussia
Il 30 giugno 2020 la Corte suprema della Bielorussia ha accolto l’appello di Viktar Skrundzik, annullando la condanna a morte emessa tre mesi prima dal tribunale della città di Slukts e disponendo un riesame del caso e un nuovo processo. Si è trattato di un evento eccezionale per il paese. L’uomo, che si era dichiarato innocente, aveva detto di aver confessato perché indotto dagli agenti che lo hanno interrogato e per timore di ritorsioni di uno dei due coimputati.
Skrundzik era stato giudicato colpevole dell’omicidio di due anziani insieme a due complici, condannati a 18 e a 22 anni di carcere.
La Bielorussia è l’ultimo paese in Europa e nella regione dell’Asia centrale (compresa l’intera ex Unione Sovietica) che continua a infliggere condanne a morte e a portare a termine esecuzioni solo di uomini, poiché le donne sono escluse.
Le condizioni di detenzione dei condannati a morte in Bielorussia sono particolarmente crudeli. La segretezza caratterizza l’uso della pena di morte infatti non viene dato alcun avviso sulla data di esecuzione al prigioniero, ai suoi parenti o ai rappresentanti legali. Nessun incontro è concesso alle famiglie prima che il condannato venga messo a morte.
I prigionieri vengono informati dell’esecuzione pochi istanti prima di essere bendati, ammanettati, costretti a inginocchiarsi e fucilati alla nuca.
Il corpo non viene restituito alla famiglia e il luogo di sepoltura resta sconosciuto.
Nel 2019 sono state registrate almeno due esecuzioni e sono state comminate almeno due condanne a morte.
Il continente africano
Negli ultimi trent’anni l’Africa ha compiuto enormi progressi mostrando una netta tendenza verso l’abolizione. Nel 1990 solo un paese aveva abolito la pena di morte: Capo Verde. Oggi, dei 54 Stati membri dell’Unione africana, 22 hanno abolito la pena di morte per legge, 17 non effettuano più esecuzioni nella pratica e 15 Stati sono mantenitori. La repubblica del Congo e il Madagascar hanno abolito la pena capitale nel 2015, la Guinea il 4 luglio 2016. Il 20 maggio 2020 il Ciad ha abolito la pena di morte per tutti i reati.
La moratoria delle esecuzioni
Il 16 dicembre scorso la sessione plenaria dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato per l’ottava volta una risoluzione per una moratoria delle esecuzioni, in vista della completa abolizione della pena capitale, con 123 voti a favore. Nel 2007, il primo anno in cui era stata adottata, la risoluzione ne aveva ottenuti appena 104 voti. L’ultima volta, nel 2018, era stata votata da 121 Stati.
Come riportato da Amnesty International “la risoluzione votata lo scorso anno è stata presentata da Messico e Svizzera a nome di una Task force interregionale di Stati membri delle Nazioni Unite ed è stata sponsorizzata da 77 Stati”.
“Dei 123 stati che hanno votato a favore Corea del Sud, Gibuti, Giordania e Libano lo hanno fatto per la prima volta; Filippine, Guinea, Nauru e Repubblica del Congo hanno cambiato il voto contrario in favorevole; Yemen e Zimbabwe, che nel 2018 avevano votato contro, si sono astenuti”.
“Una minoranza di Stati, 38, ha votato contro e 24 si sono astenuti. Alcuni Stati che nel 2018 avevano votato a favore o si erano astenuti hanno espresso voto contrario: tra questi, Antigua e Barbuda, Dominica, Libia, Pakistan, Tonga e Uganda. Il Niger è passato dal voto favorevole all’astensione”.
Contro la pena di morte
Sister Helen Prejean, una suora cattolica tra le più fervide sostenitrici della battaglia contro la pena di morte e autrice del libro “Dead man walking” la cui trasposizione cinematografica ha valso un Oscar a Susan Sarandon, commentando su Facebook l’imminente esecuzione federale di Brandon Bernard avvenuta lo scorso 11 dicembre ha scritto: «Oggi sarà l’ultimo suo giorno di vita. Non importa quale crimine abbia commesso. Il gesto di prendere un essere umano sano, che respira, cosciente, consapevole, di legarlo [a un lettino] e di soffocare la sua vita con un’iniezione letale, è una macchia per tutti noi. Dobbiamo imparare ad essere migliori di così.»
E ‘qualcosa di orribile solo a pensarci ed è incredibile che venga ancora adottata.