HANYA YANAGIHARA : ” UNA VITA COME TANTE “, SELLERIO 2016 — RECENSIONE DI GLORIA BALDONI DA ” SUPPLEMENTO. INUTILE.EU ” + ANTONIO MONDA, NEW YORK, INTERVISTA ALL’AUTRICE, REPUBBLICA, 9 APRILE 2016

 

 

 

 

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Hanya Yanagihara

SamLevyPhoto2020 – Opera propria

 

 

INTERVISTA ALL’AUTRICE DOPO LA RECENSIONE

 

 

 

A Little Life: Shortlisted for the Man Booker Prize 2015 (Picador Collection) (English Edition) di [Hanya Yanagihara]

 

 E’ IL TITOLO ORIGINALE

 

 

 

 

 

 

Una vita come tante

 Hanya Yanagihara

Articolo acquistabile con 18App e Carta del Docente
Traduttore: Luca Briasco
Editore: Sellerio Editore Palermo
Collana: Il contesto
Anno edizione: 2016
In commercio dal: 10 novembre 2016
Pagine: 1104 p., Brossura

22 euro, prezzo pieno

 

Vincitore del Kirkus Prize, finalista al National Book Award e al Booker Prize. Tra i migliori libri dell’anno per il «New York Times», «The Guardian», «The Wall Street Journal», «Huffington Post», «The Times».

«Quante volte capita che un romanzo sia inquietante fino alle lacrime eppure così rivelatorio della gentilezza della natura umana da farvi sentire in uno stato di grazia? La seconda stupefacente opera di Hanya Yanagihara scandaglia a fondo le vite intime dei suoi personaggi e il lettore non solo ne prende a cuore il destino ma ha l’impressione di viverle in prima persona. Le sue pagine sono piene di dolore, ma ovunque emerge l’infinita capacità dell’uomo di resistere e di amare» – The San Francisco Chronicle

«Non capita spesso di leggere un romanzo di queste dimensioni e di pensare “vorrei che fosse più lungo”» – Times

«Totalmente coinvolgente, meravigliosamente romantico, a volte straziante, mi ha tenuto sveglio fino a tarda notte, una sera dopo l’altra » – Edmund White

 

 

RECENSIONE —

SUPPLEMENTO, 12 febbraio 2021

 

https://supplemento.inutile.eu/2021/02/una-vita-come-tante/

 

RECENSIONE DI GLORIA BALDONI

 

 

Una vita come tante

 

La vita raccontata da Hanya Yanagihara nel suo secondo romanzo (Sellerio, 2016) è “come tante” solo nella traduzione italiana del titolo. In originale è “little”, risultato dello sforzo incessante del protagonista Jude di rimpicciolirsi per non occupare spazio o arrecare disturbo, ma anche “a little”, un poco di sollievo che gli permette di tirare avanti nonostante il dolore che lo affligge. Sono “un po’ di vita” gli studi in cui Jude eccelle e la professione di avvocato competente e stimato, è un po’ di vita la casa spaziosa che riuscirà ad acquistare, sono sempre un po’ di vita le occasioni in cui l’affetto altrui gli consente di dubitare, ma solo per un momento e mai del tutto, della sua insignificanza e indegnità.

Jude St. Francis è un ragazzo dal passato oscuro che appare in un college e in un dormitorio di New York privo di famiglia, addirittura senza un’etnia certa.

Dei suoi tre amici più stretti Willem, Malcolm e JB sono quasi subito riassunte l’infanzia e la giovinezza, ma Jude è un enigma e lo resterà a lungo. Ascolta volentieri, ma di sé non parla mai. Al contrario degli altri, non sembra interessato a relazioni romantiche e non dichiara il proprio orientamento sessuale. Il danno alla spina dorsale e gli occasionali attacchi di dolore alle gambe sono il risultato di un incidente in auto, che Jude menziona soltanto per rispondere a una domanda diretta e senza fornire ulteriori dettagli – che del resto nessuno osa chiedergli.

La reticenza di Jude è così decisa e assoluta da suggerire almeno i contorni del suo enorme segreto, e per qualche tempo tanto basta per scoraggiare la curiosità dei suoi amici. In un romanzo che investiga soprattutto le possibilità salvifiche dell’amicizia, questo nodo è centrale: che scarto c’è tra l’impulso a rendersi utile a una persona cara in difficoltà e la capacità di farsi carico di un dolore non proprio? È possibile rimediare a qualcosa che non si ha il coraggio di conoscere? E la qualità della relazione è inferiore se la persona più forte non lo è abbastanza da poter sorreggere entrambi?

Yanagihara sembra riconoscere valore alla porzione di aiuto che ciascuno è in grado di offrire: se solo Willem è determinato a conoscere il passato di Jude, l’architetto Malcolm può ristrutturare la sua casa in silenziosa previsione delle esigenze di un corpo sempre più invalido, e il medico Andy può essere sempre a disposizione per rimediare ad atti via via più gravi di autolesionismo, infezioni e dolori da percosse. Quasi ogni persona che entra nella vita adulta di Jude contribuisce secondo le proprie possibilità a farlo sentire amato, curarlo e consigliarlo, nella speranza che la somma di questi sforzi sia sufficiente per tenerlo insieme. L’alternativa, cioè abbandonarlo ai suoi demoni, non è contemplata: “diagnosticare un problema e non cercare di sistemarlo”, riflette Willem, “sembrava un sintomo non solo di trascuratezza, ma di mancanza di senso morale”.

La storia dell’infanzia di Jude ha almeno due precedenti letterari. In Justine, o le disavventure della virtù (1791), il Marchese de Saderiferisce le peripezie dell’orfana protagonista, tanto più determinata a perseguire un bene che identifica con una rigida condotta sessuale e con la legge dello stato quanto più viene stuprata, torturata, incolpata di crimini che non ha commesso e quasi messa a morte. Come Jude, Justine subisce abusi all’interno di un monastero, viene imprigionata da un medico sadico e se riesce a scappare dai suoi molti aguzzini è solo per cadere nelle grinfie di personaggi ancora più spregiudicati. Le sofferenze di Justine vengono descritte nel dettaglio, con una ripetitività più elencatoria che morbosa. Sade, il più distaccato dei pornografi, non si occupa né di sentimenti né di prurigini; ha piuttosto in mente una parabola negativa che sbeffeggi e rovesci la morale contemporanea, e fa in modo che quello che Angela Carter definisce il “pellegrinaggio” di Justine non si concluda con un trionfo o una catarsi. Justine muore giovane, ma non sacrificandosi per difendere la propria virtù e dunque con la speranza di una ricompensa ultraterrena, bensì colpita da un fulmine che pone fine a una vita di tribolazioni inutili.

Anche Jude scappa dal suo monastero, e lo fa in compagnia dell’unico frate che gli ha mostrato affetto e comprensione: Fratello Luke gli ha infatti promesso una casetta tutta loro, dove Jude potrà continuare a studiare ed essere felice.

Come Lolita nell’omonimo romanzo di Vladimir Nabokov (1955), però, trascorrerà mesi e mesi in viaggio per gli Stati Uniti, di giorno in auto e di notte in motel, di notte violentato e di giorno spacciato per figlio dal proprio stupratore. Forse il più incompreso tra i romanzi, e quello con l’eredità più distante dalle intenzioni del suo autore, Lolita non è che lo strato di bugie e finzioni a cui Humbert Humbert è costretto a credere per potersi assolvere. Poco prima di raccontare la prima volta in cui stupra la dodicenne Dolores Haze, dichiara di voler “strenuamente dimostrare che io non sono, né mai sono stato, un bruto o un farabutto”, e poco dopo che “fu lei a sedurre me”. Il romanzo è fitto di interventi di Humbert Humbert che con discrezione manipola e filtra le circostanze per camuffare la brutalità delle sue azioni. L’infantile capricciosità di Dolores è descritta come civettuola, è così l’uomo che la tiene prigioniera può dichiararsene tiranneggiato come se fosse alla mercé di una donna abile e spregiudicata. Nei capitoli conclusivi, Humbert Humbert è costretto a riconoscere la verità dei fatti ed elenca alcune occasioni in cui l’infelicità di Dolores è stata sotto ai suoi occhi e lui ha scelto di ignorarla per continuare ad abusare di lei; tuttavia, non rinuncia né al ruolo di innamorato dal cuore infranto né soprattutto a possedere di nuovo, e stavolta per sempre, la sua vittima. Lo fa proprio attraverso le memorie scritte, l’unico spazio in cui ciò che è avvenuto può essere una storia d’amore invece che di sopraffazione. La misura del pentimento di Humbert Humbert è questa: non può fare a meno di cristallizzare per sempre Dolores in ninfetta, privandola dei mezzi per emanciparsi dalla sua storia di violenza. Perché ciò avvenga, naturalmente, è necessario che lei muoia prima di invecchiare.

Sade e Nabokov non stanno davvero parlando delle loro protagoniste: le posizionano al centro della vicenda, ma si servono di loro per altri scopi. Per questa ragione, non possono che farle sopravvivere finché sono vittime e non un minuto di più, e sono costretti a sottrarre loro anche il controllo di ciò che viene narrato affidando il racconto ad altri e ignorando il loro punto di vista. Ma cosa succede se Dolores Haze non muore di parto? Sarà mai felice con suo marito, le piace fare l’amore con lui? Riuscirà mai a fidarsi di qualcuno? Una vita come tante inizia dove Justine e Lolita finiscono e sposta il baricentro sulla vittima, per comprendere cosa resta di un bambino stuprato da persone di cui aveva creduto di potersi fidare.

Mentre i suoi amici si costruiscono come adulti in relazione ai propri legami familiari, alla propria classe sociale e alla propria appartenenza etnica, Jude non ha che il proprio trauma da cui partire. In un’intervista concessa al Guardian, Yanagihara ha dichiarato di non essere davvero interessata a raccontare l’abuso: un’affermazione che sembra contraddire il considerevole spazio riservato al resoconto dell’infanzia di Jude. Ciò che più conta è però come, e quando, queste informazioni sono inserite nel romanzo. Quasi nulla è rivelato nella prima parte, che pare accompagnare Jude in un lento, faticoso ma inarrestabile processo di guarigione. La laurea, il lavoro, le amicizie e la conoscenza con quelli che poi diventeranno i suoi genitori adottivi sembrano prefigurare un esito tanto lieto quanto le premesse lo consentono. Forse Jude non potrà mai aspirare a una vera felicità, ma sa per ora trarre conforto dal tempo che trascorre e lo allontana dai giorni delle violenze.

La stabilità emotiva di Jude è però illusoria. Non deriva dalla risoluzione dei suoi traumi, che sarebbe forse possibile se il sostegno psicologico proposto da Andy venisse preso in considerazione, bensì dalla loro repressione. Jude si sente ancora sporco e colpevole per ciò che gli è stato fatto, ritiene di non meritare l’affetto di cui è circondato, e continua a tagliarsi. Durante una cena incontra un uomo, e quella stessa sera si rende conto di non essere capace di rifiutare attenzioni sessuali perché non gli è mai stato insegnato né permesso. Non è un’eccezionale cattiva sorte a condurlo di nuovo all’interno di una dinamica di sopruso e umiliazione: semplicemente, non ne ha mai conosciute altre. In poche settimane è intrappolato in una relazione abusante, incapace di reagire e troppo mortificato per chiedere aiuto, e ben presto il suo compagno lo malmena al punto da farlo finire in ospedale. Lo shock subìto e la vergogna provata funzionano da trigger ed è da questo momento, non prima, che il racconto del passato di Jude affiora sempre più spesso nelle pagine – proprio come il ricordo torna continuamente a tormentarlo nel sonno, sotto forma di incubi terribili, e durante le ore coscienti, in cui si consolida la certezza di non avere scampo.

Sarò sempre la persona che ero, conclude. Il contesto potrà essere cambiato: potrà anche avere il suo appartamento, un lavoro che gli piace e lo fa guadagnare bene, genitori e amici che ama. Potrà essere rispettato e, in tribunale, perfino temuto. Ma, fondamentalmente, è rimasto lo stesso […] a prescindere da cosa lui decida di fare, o da quanti anni lo separino dal monastero, da Fratello Luke, o da quanto guadagni o da quanti sforzi compia per dimenticare.

È evidente allora che a Yanagihara non interessi il racconto dell’abuso come sterile catalogo di sofferenze inflitte: le interessano invece molto le tracce e gli strascichi dell’abuso, e lo spazio che questo continua a occupare anche a distanza di anni. Soprattutto, le preme restituire su pagina un dolore che non lascia tregua né respiro, da cui non ci si può distrarre nemmeno scarnificandosi le braccia o scagliandosi contro il muro, e che nemmeno il più ostinato e comprensivo degli affetti può lenire del tutto. Nei sempre più frequenti picchi di disperazione di Jude, Yanagihara si sofferma su ogni gesto di autolesionismo e su ogni pensiero suicida senza concedere la consolazione di poter distogliere lo sguardo. Sono i passaggi in cui la lettura si fa faticosa e angosciante, insopportabile come lo strazio che Jude sta attraversando.

La deliberata centralità dell’esperienza di Jude nell’economia del romanzo contribuisce a rendere invisibile e scontato ciò che invece funziona, non solo attorno a lui ma anche per tutte le persone che conosce. Per esempio, la fluidità sessuale dei suoi amici non è mai messa a tema ma soltanto mostrata, senza generare alcun conflitto: questo non è un romanzo in cui i genitori non accettino l’omosessualità dei figli, o in cui una persona che fa coming out in età adulta debba delle spiegazioni a chi l’ha sempre vista in relazioni eterosessuali. A Malcolm e JB non accade nulla che possa ricordare loro di non essere bianchi in un paese strutturalmente razzista. All’ambizione professionale di ciascuno corrispondono il successo che tutti conseguiranno con poca fatica e le ricchezze che accumuleranno. Tutto questo è presentato come ovvio: a evidenziare questa condizione di privilegio condivisa non c’è alcun contraltare di rovina o povertà, se non temporaneo e facilmente rimediabile come la breve tossicodipendenza di JB. Nella cerchia di Jude e soprattutto per Jude, diverse case di proprietà e lunghe vacanze in un altro continente non sono lussi bensì riempitivi deludenti, promesse inesaudite di un benessere che continua a sfuggire. La tensione di fondo di Una vita come tante è quella tra la peggiore delle infanzie possibili e il migliore dei mondi possibili, vale a dire l’unico mondo in cui un individuo così profondamente danneggiato avrà mai una reale possibilità di guarigione.

La storia di un uomo del tutto definito dalla propria condizione di vittima e incapace di smarcarsene non è certo esemplare, e non sono mancate le recensioni che hanno collegato il successo di Una vita come tante alla rinascita sociale della “vittima come status”.

Ma Yanagihara, al contrario di Sade, non scrive parabole, non propone visioni del mondo, né tantomeno prescrive modelli. L’assenza di retribuzione che caratterizza la vicenda di Jude non ribadisce né confuta una regola: è solo una casualità, e per questo non può offrire insegnamenti. Senza la pretesa di essere scomoda o provocatoria né la volontà manifesta di distanziarsi dalle storie di empowerment ed emancipazione dal dolore, Yanagihara presenta uno scenario in cui l’amore non basta e raccontarsi a qualcuno non è affatto garanzia di salvezza.Tra il vero e il verosimile aristotelici, non sceglie ciò che risulta verosimile in un’opera di finzione, bensì la verità caotica e senza scopo di ciò che accade alle persone nella realtà. In questo la vita di Jude è “come tante”: le nostre esistenze non sono governate dalle esigenze narrative che strutturano un romanzo, i nostri archi di redenzione sono imperfetti e accidentati e talvolta falliscono, e non c’è un narratore caritatevole che ti mette al riparo da una disgrazia per permetterti di superare un trauma al meglio delle tue capacità.

 

 

 

 

REPUBBLICA.IT / CULTURA/ 9 APRILE 2016

https://www.repubblica.it/cultura/2016/04/09/news/hanya_yanagihara_basta_romanzi_cool_la_letteratura_e_dolore_-137234857/

 

Il popolo degli alberi

Hanya Yanagihara: “Basta romanzi cool, la letteratura è dolore”

Antonio Monda

 

Intervista all’autrice di uno dei libri più amati e discussi d’America: “Meglio il mio melò di amicizia gay dei soliti racconti ironici e snob”

 

09 APRILE 2016

NEW YORK.

I due libri imprescindibili di questa stagione americana sono “A Little Life” di Hanya Yanagihara e “City on Fire” di Garth Risk Hallberg.

Tra gli elementi in comune hanno la lunghezza monumentale (832 pagine il primo, 944 il secondo), l’ambientazione newyorkese retrò e la descrizione senza compromessi di sentimenti estremi.

Dei due romanzi, il primo ha spaccato la critica: chi lo considera un libro struggente e importante (dal “New Yorker” al “New York Times”) e chi invece un testo manipolatorio e non riuscito (Daniel Mendelsohn sulla “New York Review of Books”).

La vicenda segue per più di un quindicennio un gruppo di amici che cercano di salvare dall’istinto autodistruttivo il protagonista Jude, segnato per sempre da un abuso sessuale subito da bambino.

Una storia a tinte forti, costellata da incidenti e tragedie, e costruita intorno al tema della diversità: razziale, sessuale e culturale. In questa odissea tormentata, anche l’eros provoca un dolore inestinguibile. “All’inizio della stesura del libro”, racconta l’autrice di origine hawaiiana, “ho fatto una chiacchierata con un amico sull’idea di eredità spirituale: cosa lasciamo dietro di noi, come saremo ricordati. La storia ci insegna che alcune vite hanno un interesse innato, o un’importanza superiore ad altre, ma non credo che ciò sia vero: ogni vita è piccola o grande come qualunque altra. E alla fine sono tutte piccole”. 

Due anni dopo “Il Cardellino” di Donna Tartt, altri due libri lunghissimi.
“Credo sia una coincidenza e qualcosa di ciclico. In realtà preferisco i romanzi brevi: l’economia creativa richiede molta più disciplina e abilità con il linguaggio “
.
Il romanzo è anche una storia d’amore tra Jude e l’amico Willem.
“Il libro è una doppia storia d’amore omosessuale: c’è anche quella tra Jude e Harold. Ma per me rimane una storia di amicizia. Io credo che molti di noi vivano e desiderino relazioni al limite: qualcosa di più profondo, misterioso, o impegnativo dell’amicizia. Il rapporto tra due amici è il più coinvolgente che esista, e, almeno in teoria, quello meno definibile in termini di confini. Però ci sentiamo culturalmente a disagio rispetto ad amicizie che hanno componenti sessuali o romantiche. È come se ci aspettassimo che i protagonisti di quel rapporto dichiarassero automaticamente qualcos’altro, nel momento in cui succede: è un mettere confini e definizioni su un tipo di amore che nel suo intimo non ne ha alcuna”.

Il suo romanzo racconta la vergogna che si prova quando si è vittime di un abuso, e la tendenza a darsi la colpa. Anche nel suo primo libro, “The People in the Trees” c’era un caso di abuso infantile…

“È l’abuso di potere definitivo. Esistono molte persone che dicono che da bambini sapevano di voler fare del sesso, o anche di averlo fatto con persone più grandi senza aver vissuto conseguenze drammatiche. Ma ce ne sono molti, molti altri, che ne sono stati distrutti. In ogni relazione con un grande sbilanciamento di potere non si deve dimenticare mai il danno che si può infliggere”.

Lei ha discusso a lungo con il suo editor su quanto possa sopportare un lettore: c’è qualcosa in cui si è censurata?
“Le nostre discussioni erano su cosa un lettore potesse trovare insopportabile. Esiste una quantità di violenza, o un livello di brutalità, che è ingiusto infliggere su un lettore? Personalmente credo di no. E non penso che si faccia il bene di un libro misurandolo con i limiti del lettore, proteggendolo insomma “.
Lei scrive: “New York è sempre stata abitata da persone ambiziose. E spesso era l’unica cosa che avevano in comune  “
È ancora così?
“Sì, è l’ambizione che dà a New York quel senso di incredibile energia che i visitatori avvertono e non riescono a descrivere. A New York ognuno è nello stesso tempo in fuga da qualcosa – da chi si è, come si è stati cresciuti, cosa ci è stato detto di dover essere – verso qualcos’altro. La versione e la visione che ognuno ha del successo è differente: può significare diventare ricco, famoso, trovare l’amore o un proprio posto, ma non vieni qui se non pensi di avere una possibilità di realizzare un’ambizione. È la grande promessa dell’America in forma concentrata: il nostro amore per il reinventarsi e per la competizione”.

Molti libri pubblicati in America sono scritti da bianchi con protagonisti bianchi. Il suo libro è l’opposto: è una scelta voluta?
“I miei personaggi sono uniti non dalla razza ma dall’educazione, dalla cultura e dall’idea di avere dei diritti. Certo, il dato razziale esiste: basta vedere come sono trattati i neri. Ma in alcune microculture di Manhattan, il dove sei stato al college, chi conosci e che successo hai, a volte può, per qualche momento, eclissare il dato razziale, o almeno dartene l’illusione”.
Il romanzo è un melodramma che ricorda certo cinema degli anni Cinquanta.
“Non era mia intenzione esplicita scrivere un melò. Ma certamente volevo scrivere un libro in cui ogni emozione, ogni risposta, ogni circostanza, ogni dimostrazione di amore, ogni momento di dolore fosse esagerata ed estremizzata. Molta narrativa che si scrive oggi è “cool”, in tutti i sensi della parola: remota, ironica, intellettualizzata e un po’ gelida. È un tipo di scrittura che ammiro – per molti versi ha definito la letteratura americana – ma non ero interessata a seguire la stessa strada. Con questo libro ho cercato l’attenzione e il coinvolgimento del lettore: in tutti i sensi l’opposto del “cool”. Sul cinema devo però deluderla: è un medium che non mi interessa molto”.

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1 risposta a HANYA YANAGIHARA : ” UNA VITA COME TANTE “, SELLERIO 2016 — RECENSIONE DI GLORIA BALDONI DA ” SUPPLEMENTO. INUTILE.EU ” + ANTONIO MONDA, NEW YORK, INTERVISTA ALL’AUTRICE, REPUBBLICA, 9 APRILE 2016

  1. Donatella scrive:

    Interessanti e coinvolgenti questi libri. La trama mi angoscia un po’.

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